Ma intanto, già qui si vede che il principio dell’infinità
della ricerca, e quindi dell’Università come luogo della formazione di ricercatori,
nella continuità delle generazioni, e quindi nella classica “unità di
ricerca e insegnamento” (che esiste tuttora in ogni buon centro universitario
di ricerca) - si vede, dico, che questo principio vale per il laboratorio come
per l’archivio e la biblioteca “umanistica”. Vale per il chimico, il
biologo, lo storico, il filologo, ovviamente con strumenti di lavoro diversi, ma
restando e operando come identico principio della ricerca-e-critica infinita,
del superamento nel contesto (che è il contrario della relativistica
opinabilità!) di ogni risultato via via raggiunto.
Questo vale, beninteso, se il fisico come il matematico come
il filologo come il filosofo sono davvero ricercatori. Se non è così,
se si tratta di individui che usano le abilità apprese per cercarsi una nicchia
di potere, onorificenze, compensi, ebbene, essi possono ovviamente “stare”
nelle Università de facto, e ne pervertono la natura mentre ne sfruttano
le strutture. Questi individui e gruppi ci sono. Essi possono servire i potenti
dell’industria (farmaceutica, per es.); o della politica dipensiera di fondi;
o ancora, cavalcare una moda intellettuale senza altra ambizione che “emergere”
nel caleidoscopio delle “relazioni pubbliche” moderne, diventare opinion
leaders. (Le forme del “tradimento dei chierici” sono mutate e
diversificate dai tempi di Julien Benda...). Il senso comune tende a non
accorgersi di questi slittamenti di individui e gruppi accademici verso una
funzione del tutto diversa dalla ricerca della verità; e gli slittamenti
vengono camuffati. Ma c’è di più: il senso comune tende a scambiare “sapere”,
che se è “sapere” è universale per sua natura, e sta nel moto infinito
della ricerca, con “saper fare certe cose” (le c.d. “competenze”,
termine prediletto degli attuali antiriformatori della scuola e dell’Università);
e per questa via finisce a piegarsi rassegnato all’assurdità, che i “signori
professori” sono appunto - signori, come dice il linguaggio popolare
italiano. Cioè, un’altra variante dei potenti, dei padroni. E per ogni volta
che tocca nel segno, il senso comune ha mille volte torto: perché così, come
“l’idea della veracità non diventerebbe falsa anche se tutti mentissero”
(Kant), così anche l’idea dell’Università, del luogo della ricerca della
verità, della sua “utilità” sociale proprio perché disinteressato, della
sua indipensabilità per una vita collettiva moderna e libera, questa idea non
diventa “falsa” per il fatto che, in determinate condizioni storiche, le
Facoltà universitarie diventano ricche di profittatori, di sicofanti del potere
e di giullari delle mode culturali.
Per questo il senso comune rassegnato, ma talvolta anche la
denuncia “di sinistra”, hanno mille volte torto: perchè mettono in ombra il
punto essenziale, quello di cercar di capire in quali, determinate condizioni
storiche l’Università si perverte e rinsecchisce (come è nella sua
storia: dopo la grande fioritura del tardo Medioevo, a cui molte venerande
istituzioni universitarie notoriamente risalgono, non nell’Università
prosperarono l’Umanesimo né il Rinascimento né la nuova scienza!)
Quelle condizioni storiche vanno indagate, e ovviamente son
diverse di epoca in epoca, talora di Stato in Stato. Nell’età contemporanea
sono sempre, però, condizioni in cui l’idea dell’Università, della ricerca
infinita della verità e della formazione di ricercatori attraverso le
generazioni, nella ricerca-insegnamento-ricerca, è rimessa in forse; e lo è,
sempre, anche se in modi e congiunture diverse, da forze sociali cui non sono,
non possono essere accetti il principio della ricerca infinita, dello spirito
critico, e neppure dell’indispensabile contributo che essi apportano al
formarsi di una consapevolezza, nei cittadini, della loro res publica,
della loro società, del loro Stato. (È fin troppo chiaro, sia detto di
passaggio, che senza una tal consapevolezza non solo diffusa, ma attiva,
operante, progrediente, la res publica, la società, lo Stato NON sono
“loro”, cioè “dei cittadini”, se non per modo di dire, o per finzione -
una finzione che, nei tempi moderni, è diventata indispensabile ai potenti).
Bisognerà pur cercare di capire perché il nome vuoto di
“democrazia” è indispensabile alla tirannide, oggi: non era così
nel Medioevo, nello ancien régime, e neppure, in sostanza, nell’epoca
borghese-liberale, senza suffragio universale e senza “Stato del benessere”.
Ma oggi! Immaginate per un momento che tutti noi, cittadini italiani,
sapessimo e potessimo fare, e facessimo, i cittadini per davvero,
cioè davvero volessimo nel senso pieno, con impegno e perseveranza, e senza
paura, la nostra Repubblica, come è nei principi della nostra Costituzione. È
evidente che, in una tale ipotesi, l’avremmo subito, la “Repubblica
democratica fondata sul lavoro”, il cui compito [permanente] è “rimuovere
gli ostacoli” che si frappongono all’eguaglianza reale dei cittadini, con
tutto quel che ne segue. Non ci sarebbe “nessuno” per impedircelo, o un’infima
minoranza, data l’ipotesi. Ci metteremmo subito all’opera per
perfezionare l’edificio, realizzare i sempre nuovi compiti ulteriori... - Ma
una tale vera, fattiva, attuante “volontà” di tutti “noi”, “cittadini”
per davvero, non è pensabile senza consapevolezza, spirito critico,
trasparenza universalmente diffusi. Altre condizioni occorrerebbero ancora?
Certo. Questa però, se pur non sufficiente, è condizione necessaria).
3. Ma torniamo all’Università. A che “serve” l’Università
come luogo, non “delle scienze”, ma “della scienza”, della ricerca
infinita? E chi può mai non volerla?
Orbene: proprio qui viene a galla quale è la posta in gioco
oggi. Vediamo.
Primo. L’Università, che si realizzi secondo il suo
principio, serve a produrre, riprodurre, ampliare costantemente l’ambito dello
spirito critico. Innanzitutto nei suoi membri, certo; ma con ciò, per tutta
la comunità, e tanto più, in quanto la sua attività è attività di
ricerca disinteressata. Qui torna l’aspetto della discussione rigorosa di quel
che è nello spirito pubblico, che non è e non può essere confronto politico,
ma opera perché il dibattito politico sia politico davvero, sia cioè
riferito a entità razionali, discutibili, oggettivabili in progetti per il
corpo politico intero, con i pro e contro. (Senza di questo, e lo vediamo
fin troppo bene in questi anni, non c’è “politica” se non nel senso dell’aggiustamento
di gruppi tra i dominatori, e dello spettacolo esterno offerto ai dominati.
Questa “politica-spettacolo”, che con le “cose serie” notoriamente nulla
a che fare, è poi una versione moderna, e tecnicamente modernissima, dell’antico
panem et circenses offerti alla plebe romana, quando divenne appunto
miserabile e feroce plebaglia, campo di reclutamento di faziosi talvolta,
soggetto politico mai più).
Secondo. Vi è però un altro servigio che l’Università
vera, conforme alla sua idea, il luogo della ricerca infinita e disinteressata,
della autoformazione dei ricercatori e dell’avanzamento della scienza, rende
alla collettività. Questo servigio, che può esser reso solo alla condizione
inderogabile della ricerca disinteressata, è indispensabile a causa della
presenza delle scienze nel mondo moderno. Questa presenza è crescente ogni
giorno, oggetto di cieca ammirazione e viscerali timori. Ammirazione ignorante e
timori irrazionali che sono entrambi “utili” a chi vuol piegare la scienza a
fini particolari, di guadagno e di potenza, che “devono” restare nascosti
dietro vaghi discorsi e manipolabili emozioni. Per capire il servigio che l’Università
rende, nel mondo della scienza moderna, bisogna anche rendersi conto del
rapporto tra l’avanzamento scientifico e quella produzione permanente, per
mille vie e rivoli, della consapevolezza civica, di cui si parlava,
condizione irrinunciabile di ogni democrazia pensabile. Cioè chiedersi come sia
possibile lo sviluppo e la promozione di tale consapevolezza, non in altre
epoche e civiltà, ma nell’oggi, nel nostro mondo: che non è a sua
volta pensabile senza la scienza.
4. Qui bisogna tornare un po’ indietro: cercheremo di
farlo in breve.
In questo mondo moderno, la consapevolezza diffusa e operante
della società in cui si vive, senza la quale (ripetiamolo) non ha senso parlare
di “cittadini”, e di “democrazia”, non può avvenire grazie a una
sintesi metafisico-religiosa come nel Medioevo cristiano europeo. Quella sintesi
era nello stesso tempo teoria “del mondo” in generale, e rappresentazione di
“questo mondo qui”, in cui ciascuno viveva, in cui c’è il bene e il male,
il lavoro e l’ozio, la carità e la violenza - ma che in ogni punto, in ogni
istante è, e resta parte coerente del “mondo vero”, cioè dell’Universo
creato da Dio secondo la Sua indubitabile, attiva bontà e giustizia, e Dio è
presente in ogni qui ed ora, già perché parla in ogni coscienza.
Una tal sintesi oggi non può operare. Non perché le
religioni si siano “secolarizzate” (altra paroletta fuorviante). Non perché
sia diventanto meno vero - tutt’altro! - che “una fede religiosa
sinceramente sentita” può contribuire, nei suoi portatori, a difendere l’umanità
dalla violenza che la minaccia e la invade, e certo non è solo bellica e
atomica. Molto meno ancora a causa di quello che si fa credere (con una
controeducazione pratica e diuturna) al povero Pierino relativista, che “vede”
solo fatterelli e opinioni immediate, grezze, buttate avanti senza
argomentazione razionale, e si raffigura il gran mondo a immagine e somiglianza
di quel suo misero e sciocco particulare.
Si tratta di ben altro. Una sintesi come quella della civitas
christianorum non può attuarsi praticamente, e dunque civilmente e
politicamente, in un mondo essenzialmente non-statico, nel quale quel che valeva
(in ogni campo, e innanzitutto conoscitivo) per i miei padri e antenati non può
valere, è evidente, per me e i miei figli. Uno dei “motori” fondamentali di
questo dinamismo, che cresce in momento e velocità, è - la scienza. (Non è il
solo? Certo. Ma di scienza e scienze, e Università, trattiamo qui).
E allora? - Può la sintesi venire dalla scienza stessa? Si
sa che questo fu un obiettivo cercato dal positivismo del secondo Ottocento.
Quel positivismo, che Ludovico Geymonat chiamava, in un suo agile volumetto di
storia del pensiero scientifico, “il rischio di trasformare la scienza in
metafisica”. Ma non abbiamo bisogno di entrare, qui, nella storia della
filosofia e delle idee. Ci basta tenerci al modus operandi della ricerca
scientifica in generale: e al rapporto tra questa ricerca, l’Università come
luogo della ricerca disinteressata, e la vita collettiva, o insomma la società
tutt’intera.
Le scienze portano in luce ambiti di azione umana
possibile. Sempre di nuovo, e sempre di più. Questo esse fanno come
scienze, e non è poco! Lo fanno ininterrottamente, con estensione e rapidità
crescente; lo fanno in tutto il loro processo, e ne offrono i risultati. Non di
meno: e però, non di più.