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Per la critica del capitalismo

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Flávio Bezerra de Farias
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Dottorando in Scienze Economiche (Università di Parigi XIII). Professore all’Università Federale di Maranhão. Borsista CAPES (Brasile). Dirigente della CUT - Regione di Maranhão (CUT-MA)

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Le regole della società e la società regolata

Flávio Bezerra de Farias

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Gli approcci tecnici negano le leggi generali del movimento del capitale, per affermare il primato della crisi relativamente alla riproduzione del capitale. Paradossalmente lo fanno con il pretesto di prendere le distanze in relazione alle loro origini strutturaliste (Aglietta & Brender, 1984). Tuttavia, proprio sul livello di astrazione in cui si situano, bisognerebbe esaminare il ruolo delle condizioni tra capitale e forza lavoro, e delle contraddizioni dell’accumulazione del capitale, definite dalle leggi della concorrenza e dalla tendenza alla variazione del tasso del profitto (Mattick, 1972; Husson, in Vincent et alii, 1994: 257 e ss; Hirsch, 1992). D’altro canto, prima di arrivare ai numerosi capitali e alle crisi, bisognerebbe passare, inizialmente, dai diversi livelli di astrazione delle relazioni capitaliste, per imparare le loro leggi, contraddizioni e mediazioni, nelle quali lo Stato si intromette. Senza fare questo passo, è semplicistico parlare di un regime di accumulazione senza il suo “scheletro” (o schema di riproduzione) e sostenendo certe mediazioni di uno Stato la cui natura è ancora indeterminata. Ora, la gestione statale non può essere esaminata solamente come la normalizzazione stabilita ex novo dal governo, come forma parallela ai numerosi capitali, quindi si tratta di una mediazione dello Stato prodotta, in primo luogo ed in maniera organica, nel contesto dell’unità e della lotta alle totalità concrete della semplice produzione mercantile, del capitale produttivo individuale e del capitale sociale. Bisogna comprendere questo prima di ogni considerazione sui numerosi capitali e sulla gestione statale della crisi.

Infine, i concetti marxisti di produzione, riproduzione e crisi si riferiscono nell’insieme alle entità sociali e storiche implicate nella lotta formata dagli elementi statali e capitalisti. Secondo la scuola della regolazione, tali concetti sono incapaci di esaminare questi elementi globalmente, dietro l’esperienza maturata nel periodo dei “Gloriosi anni Trenta”. Da allora questa realtà storica avrebbe dovuto essere concepita come un equilibrio di tensioni tra due momenti ambivalenti, normalizzazione e produzione, i cui fini sono, rispettivamente, il progresso sociale ed il progresso materiale. Queste tensioni sarebbero venute da un interfaccia dinamico: le innovazioni, che hanno come oggetto il progresso tecnico. La chiave di questo superamento astratto del marxismo da parte del riformismo radicale e del capitalismo da parte della società salariale è, senza dubbio, il concetto della regolazione. Questa nozione, vista dalla prospettiva tecnicista, significa che il progresso tecnico si può convertire in progresso sociale. Ciò, evidentemente, solo come una possibilità; tutto dipende dalla creazione di meccanismi che fanno da mediatori e dalla loro efficacia come regolatori (Aglietta, 1998: 58). Dalla prospettiva politica, la regolazione esprime le pratiche delle forme istituzionali in un tutto complesso e stabile, per assicurare la riproduzione simultanea e articolata degli ordini sociali (Thèret, 1992: 58). Così, come c’è autonomia relativa dello statale di fronte all’economico e come le relazioni tra questi ordini sono organiche, non esiste riproduzione di un insieme senza regolazione, che nasce lì come fenomeno puramente immediato o casuale (Idem: 17). La categoria della mediazione, al contrario, venne presentata nella maniera seguente, con la sfaccettatura marxista:

“La categoria della mediazione come asse metodologica per oltrepassare la semplice immediatezza dell’esperienza non è, quindi, qualcosa che verrebbe importato dall’esterno (soggettivamente) negli oggetti, non è un giudizio di valore o un dovere che andrebbe ad opporsi al suo essere, è la manifestazione della sua stessa struttura oggettiva.” (Lukàcs, 1976: 203).

Bisogna andare oltre le rivalità e i conflitti che si manifestano sulla superficie dei fatti sociali, per analizzare le leggi e le contraddizioni nell’essenza stessa dell’essere sociale e per apprendere i poli che sono impersonati dagli individui con interessi inconciliabili -le cui mediazioni non sono “regolate”, nel senso che l’unità relativa che risulta dal processo è soltanto transitoria, temporanea e soggetta a condizionamenti. In compenso, c’è qualcosa di assoluto nello sviluppo di forme di esistenza nella lotta senza condizioni, definitiva e ad oltranza (Lènine, 1973: 344).

3. La riforma capitalista e la rottura di classe

In termini politici, considerare le mediazioni delle contraddizioni del capitalismo come “regolatrici” non vuol dire aderire al progetto gramscista, ma al progetto positivista della social-democrazia. Ciò corrisponde ad affermare che, nell’era moderna attuale, da un lato, esiste sempre la possibilità di un compromesso di classe; dall’altro, le relazioni istituzionali e riformiste tra capitale e forza lavoro sono eterne. Intanto, negli anni ’80 e ’90, il progetto della sinistra social-democratica ha molto ridotto il suo riformismo radicale di fronte alla “perdita di influenza dei partiti di massa”, la quale si manifesta con la diminuzione delle adesioni e con l’infedeltà da parte dei suoi elettori (Vincent, 1998: 127). Attualmente tali partiti

“[...] non possono più funzionare come prima, perché il personale di cui disponevano prima comincia a mancargli. Non trovano più facilmente militanti, quadri intermediari, o finanche semplici membri. Raramente sono avvolti da una simpatia diffusa, e la loro immagine pubblica è, generalmente, mediocre. Sempre più di frequente, si rivolgono a professionisti chevendonoi loro servizi e non si riconoscono nei concetti del mondo totalizzante. Di fatto devono appoggiarsi ad istituzioni statali e para-statali, ciò falsifica le relazioni di rappresentazione politica. Effettivamente, da allora, i partiti trovano difficoltà a ordinare e trasmettere verso l’alto le rappresentazioni formulate dalla base [...] e riesce loro ugualmente difficile far accettare l’orientamento istituzionale ufficiale a quelli che loro rappresentano. Così, le varie ramificazioni della rappresentanza si distendono pericolosamente, lasciando intere zone distaccate dal campo politico.” (Idem: 129).

Durante l’esperienza della crescita fordista, le organizzazioni sindacali di massa garantivano ai loro affiliati, in termini relativi, sia l’aumento del potere d’acquisto sia la salvaguardia del presente rispetto ai rischi del futuro. Tuttavia, esisteva un’ostruzione politica una volta che “le organizzazioni di massa della classe operaia venivano bloccate, impedendo di andare oltre a ciò che già avevano raggiunto, corrispondendo non gli interessi della propria classe, ma, al contrario, quelli dei suoi leader conservatori, cioè la burocrazia sindacale.” (Mandel, 1995: 6-7). Attualmente, le promesse fordiste hanno perso l’efficacia integratrice, di modo che si sta producendo una riduzione del tasso di sindacalismo in tutta Europa (ad esempio, in Francia si è passati da un 41,8% dagli inizi degli anni ’50, al 10,9% nel 1994) (Revelli & Tripodi, 1998: 7). Tra le altre piaghe, il tasso di disoccupazione nei paesi centrali non è il risultato di una crisi passeggera del modello di sviluppo. Oltre a questo,

“La nozione di “lavoro-mercanzia” (come il suo corollario, il “mercato del lavoro” ed il suo clone “le risorse umane”) controlla ancora il pensiero economico contemporaneo degli Stati capitalisti e delle loro agenzie internazionali (FMI, Banca Mondiale, OCDE, GATT/OMC, etc.). Fino ad oggi si fondano su pratiche salariali debilitanti, i cui effetti si ripercuotono sulla demografia su scala mondiale.” (Meillassoux, 1997: 6).

Così, d’accordo con le notizie dell’OIT, a fine 1998, nel mondo esisterebbero 150 milioni di disoccupati e 3 miliardi di sotto-occupati (OIT, 1998: 9). Nel corso del decennio che terminava in quell’anno, d’accordo ad una relazione della commissione dell’ONU che si occupava del commercio e della disoccupazione, il tasso di crescita media annuale dell’economia mondiale, purtroppo, non aveva superato il 2% (Chesnais, 1998: 81). Nella seconda metà del XX secolo, il Prodotto Interno Lordo per abitante divenne sempre più alto quello dei paesi sviluppati rispetto a quello dei paesi sottosviluppati (Latouche, 1998: 40). Il rapporto della Banca Interamericana dello Sviluppo (BID) sul “prodotto Economico e Sociale in America Latina -2000” (Aith, 2000:1, cap. 3) indica che, negli ultimi 50 anni, questa regione è rimasta sempre più lontana dai paesi ricchi. Oltre a ciò, la politica economica di recessione delle agenzie internazionali del Terzo Mondo cerca di evitare che l’aiuto ai bisognosi e ai disoccupati prendano la forma di incarico per le classi ed i paesi ricchi, ispirandosi a soluzioni che si basano su “leggi naturali” di Malthus (1983) -la cui logica morale ed economica riconosce solamente il diritto e la possibilità di sussistere a quelli che ne hanno le possibilità, discriminando ed escludendo i proletari disoccupati o sotto-occupati che diventano “popolazione in eccesso”, in accordo a tali leggi e alle leggi di sfruttamento degli uomini (Marx & Engels, 1978; Volpe, 1976). Pertanto, il malthusianesimo vincola il principio della popolazione alla produzione:

“Malthus suggerisce anche la ricerca, nell’economia, dei mezzi di agire più efficacemente sulla popolazione: l’azione a livello di consumo, sulle istituzioni volte alla manutenzione e alla riproduzione della vita fanno parte dell’arsenale utilizzato dagli economisti liberali; oggi sono coadiuvati in tutto il mondo dalle più potenti tra le agenzie internazionali: la Banca Mondiale ed il Fondo Monetario Internazionale.” (Meillassoux, 1997: 94).

Niente di tutto questo è incompatibile con il positivismo keynesiano, che potrebbe essere condensato nella formula: “ottimismo dell’intelligenza, pessimismo della volontà”. Così, è ottimista, sia nel conciliare lavoro e capitale, sia nel mirare all’“eutanasia” del provocatore, nell’esperienza del primato della produzione, perfettamente adeguata al fordismo (1945- 1975). Ma, è pessimista per quanto riguarda il “sotto-consumo”, con l’esperienza del primato della circolazione, che coincide di più con il post-fordismo (a partire dal 1975). Questo lato del keynesianesimo si unisce pertanto all’ideologia neoliberista dominante per rendere attuale il malthusianesimo come “una specie di catastrofe demografica unito ad un’attitudine, ancora abbastanza contemporanea, di rifiuto morale della povertà come qualcosa da dover essere attribuito ai “vizi” degli stessi poveri.” (Meillassoux, 1997: 85).

Oggi, d’accordo all’ideologia dominante, l’immagine più adeguata all’era post-moderna non è quella di una società capitalista che funzioni come un carosello, ma quella di una casa degli orrori (dove il controllo demografico viene fatto a causa di malattie, della fame e della morte), sulla cui facciata, scritto in alto, si trovi il familiare motto noe-liberale: “casa della razionalità economica, della competitività e del bilanciamento strutturale”. La somma di tutto questo “produce, necessariamente, una massa enorme di perdenti: gli esclusi, gli emarginati, i disprezzati. Questa “cultura” della performance è, allora, ipso facto una cultura del fallimento.” (Latouche, 1998: 106). Già nel 1993, d’accordo con il “Tribunale Internazionale del Popolo per Giudicare il G7”, stabilito a Tokio, le conseguenze del “Programma di Sistemazione Strutturale”, unito alla Banca Mondiale e all’FMI, furono le seguenti:

“Un acuto incremento della disoccupazione, una caduta della remunerazione del lavoro, un aumento della dipendenza degli alimenti, un grave deterioramento ambientale, un deterioramento nei sistemi volti alla salute della popolazione, un ristagno nelle ammissioni alle istituzioni educative, un declino nella capacità produttiva di molte nazioni, il sabotaggio dei sistemi democratici e la crescita continua del debito estero.” (Amin, 1997: 13).

Oltre a ciò, le riforme fiscali imposte al Terzo Mondo da quelle agenzie internazionali “proteggono le alte rendite, così come l’esistenza di corpi ausiliari dai salari elevatissimi (quadri in generale, alta amministrazione, etc), che contribuiscono al consumo di lusso indispensabile al mantenimento del mercato capitalista.” (Meillassoux, 1997: 92). La miseria, la disoccupazione e la precarietà dell’impiego sono, pertanto, il marchio della forma dello sviluppo contemporaneo, rappresentano cioè “il tratto strutturale della base socio-produttiva così come si trova il livello attuale del potenziale tecnologico e dei modelli organizzativi post-fordisti.” (Revelli, 1998: 174). In tali circostanze, dove il lavoro vivo viene eliminato dalle costituzioni e predomina la demografia malthusiana del lavoro, i partiti operai di massa che hanno avuto origine dall’esperienza fordista sono in via di estinzione. Oggi, aumenta sempre più l’ingombro dei loro rappresentanti nei governi, poiché esiste un problema di “personificazione statale” proprio dell’era post-moderna:

“Il capitalismo può funzionare solo perché ha ereditato una serie di tipologie antropologiche che non si è creato e che non avrebbe potuto creare da sé: giudici incorruttibili, funzionari integri e weberiani, educatori che si dedicano alla loro vocazione, operai che hanno un minimo di coscienza professionale, etc. Questi tipi non nascono e non possono nascere da soli; sono stati creati in periodi storici anteriori, in riferimento a valori allora consacrati ed incontestabili: l’onestà, il servizio allo Stato, la trasmissione del sapere, una bella opera, etc. Adesso viviamo in delle società dove questi valori stanno, pubblicamente e notoriamente, diventando ridicoli, dove conta solamente la quantità di denaro che si intasca, non importa come, o il numero di volte in cui si è apparsi in televisione [...]. L’unica barriera per le persone oggi è la paura della sanzione penale. Ma per quale motivo quelli che amministrano questa sanzione devono essere per forza incorruttibili? Chi vigilerà i vigilanti? La corruzione generalizzata, che la gente osserva nel sistema politico- economico contemporaneo, non è periferica o aneddotica, diventa un tratto distintivo, sistemico nella società in cui viviamo.” (Castoriadis, 1996: 68 e 91).

Senza un “personale” adeguato in uno Stato specificatamente sociale, senza l’“utopia di una società del lavoro” (Habermans, 1988), non c’è più energia politica per conquistare, riformare e perfezionare uno Stato sociale che, insieme al sistema contrattuale collettivo, regolerebbe i conflitti generati dallo sviluppo del capitalismo. Così l’Europa

“Costruita o gestita da governi socialisti, dal Trattato di Roma, è sempre stata una costruzione liberale, o meglio ultra-liberale, dominata dalla logica economica e, da qui in avanti, dai mercati finanziari. Per questo fatto, è pilotata dalle Banche centrali (principalmente dalla Bundersbank), dalle lobby delle firme multinazionali e dai tecnocrati di Bruxelles. Esisterà solo l’Europa sociale e cittadina se le forze vive e i movimenti più forti le daranno l’impulso.” (Latouche, 1998: 127).

Di fronte ai “pericoli” della globalizzazione contemporanea, Latouche assume una posizione regolazionista politicista e suggerisce le parole d’ordine “resistenza e dissidenza”, sottolineando che “c’è bisogno di costruire dei contro-poteri, imporre delle regole, trovare un compromesso”. Perciò, il suo “volontarismo utopico” (Idem) dovrà affrontare la durezza dei fatti, in un contesto in cui uno dei suoi vettori principali, l’ideologia del liberalismo centrista, poiché progetto politico operativo, attinge ampiamente la sua data limite negli anni ’70 -quando ebbe inizio il suo progetto di implosione, sotto l’effetto della crisi strutturalista del capitalismo. Intanto, prevale la “deregolazione” (Offe, 1996) ultra-liberale, che è il risultato di una “rivoluzione passiva”, iniziata dopo il 1968 (Hardt & Negri, 1995) e consolidatasi nella metà degli anni ’70, di modo che,

“La lunga “era progressista” è stata sorpassata già da tempo. Tutto, pensiero ed azioni, la ragione di massa e l’incoscienza dell’individuo, tutto venne marchiato dal timbro di una contro-rivoluzione diffusa. Nel leggere il destino del partito politico, si trova solo una parola: fine. La fine dell’idea di partito corre il rischio di portare con sé la fine dell’idea della sinistra. È contro il suo stesso destino che la sinistra deve lottare.” (Tronti, 1998. 95). Soprattutto quando non si vuole insistere nella personificazione dell’immagine togliattista del partito- intellettuale collettivo (Togliatti, 1977), che viene da Gramsci e forse è stata resa sorpassata.

“Al contrario, l’altra indicazione che dà Gramsci sul partito-Principe mi sembra che torni ad essere di grande attualità: così, malgrado tutto, siamo disponibili a leggere i segni contrari, e forse proprio per questo. La lezione del realismo politico dice alla sinistra che, adesso, deve remare contro l’epoca.” (Tronti, 1998: 119- 120).

Perciò, le due visioni gramsciste del partito, come intellettuale collettivo e come Principe, possono essere attualizzate senza promuovere l’isolamento o la parcellizzazione delle azioni culturali, economiche, sociali e politiche (Holdmann, 1975: 44- 45). Si tratta di una forma-partito agente di una nuova “unione della teoria e della pratica”, inizio di una “volontà collettiva” (Gramsci, 1988), orientata nel verso di “un’utopia concreta” del comunismo (Bloch, 1981; 1982), determinata dagli imperativi storico-politici della situazione concreta dell’era post-moderna (Jameson, 1997) e, pertanto, nel contesto di un’epoca “oscurata dal timore delle masse che coniuga l’immagine dell’assolutismo statale, o persino del controllo elettronico delle opinioni e della violenza rivoluzionaria o del terrorismo.” (Balibar, 1997: 98).

Davanti a queste manipolazioni, niente è più attuale della formula gramscista: “pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà”. Così. “l’unico entusiasmo giustificato è quello che accompagna la volontà intelligente, l’attività intelligente, la ricchezza di inventiva in iniziative concrete che modificano la realtà esistente.”(Gramsci, 1977: 21). Felicemente, il capitalismo si trova di fronte alla sua più acuta vulnerabilità, all’attingere all’apogeo della sua potenza, non trovando nessuna via d’uscita fuorché il confronto con le masse delle classi subalterne, che hanno tutte le ragioni di essersi ribellate. Semmai il pensiero unico insista nel tentativo di

“Identificare assolutamente le opinioni, comprimendo l’individualità, può solo ripercuotersi su di sé: suscitando una reazione esplosiva. Questo perché si ignora che in pratica l’individualità non è una semplice totalità che si possa circoscrivere ad un discorso, in un genere di vita unico; sussiste sempre una molteplicità infinita di parti, di relazioni e di fluttuazioni che eccedono in tale progetto immaginario e terminano col sovvertirlo.” (Balibar, 1997: 96).

Nella visione prismatica individuale, si vive in un’epoca commemorativa dell’esempio di Sartre, che si è ribellato al capitale e ha denunciato l’attitudine conformista accentrata nell’ideologia “che non c’è alternativa” al mostruoso potere del capitale (Mészáros, 1995: 978). Infine, “per quanto siano deboli le possibilità della rivolta, è meno che mai il momento di rinunciare al combattimento!” (Mattick, 1972: 208).

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