Gli approcci tecnici negano le leggi generali del movimento
del capitale, per affermare il primato della crisi relativamente alla
riproduzione del capitale. Paradossalmente lo fanno con il pretesto di prendere
le distanze in relazione alle loro origini strutturaliste (Aglietta &
Brender, 1984). Tuttavia, proprio sul livello di astrazione in cui si situano,
bisognerebbe esaminare il ruolo delle condizioni tra capitale e forza lavoro, e
delle contraddizioni dell’accumulazione del capitale, definite dalle leggi
della concorrenza e dalla tendenza alla variazione del tasso del profitto
(Mattick, 1972; Husson, in Vincent et alii, 1994: 257 e ss; Hirsch, 1992). D’altro
canto, prima di arrivare ai numerosi capitali e alle crisi, bisognerebbe
passare, inizialmente, dai diversi livelli di astrazione delle relazioni
capitaliste, per imparare le loro leggi, contraddizioni e mediazioni, nelle
quali lo Stato si intromette. Senza fare questo passo, è semplicistico parlare
di un regime di accumulazione senza il suo “scheletro” (o schema di
riproduzione) e sostenendo certe mediazioni di uno Stato la cui natura è ancora
indeterminata. Ora, la gestione statale non può essere esaminata solamente come
la normalizzazione stabilita ex novo dal governo, come forma parallela ai
numerosi capitali, quindi si tratta di una mediazione dello Stato prodotta, in
primo luogo ed in maniera organica, nel contesto dell’unità e della lotta
alle totalità concrete della semplice produzione mercantile, del capitale
produttivo individuale e del capitale sociale. Bisogna comprendere questo prima
di ogni considerazione sui numerosi capitali e sulla gestione statale della
crisi.
Infine, i concetti marxisti di produzione, riproduzione e
crisi si riferiscono nell’insieme alle entità sociali e storiche implicate
nella lotta formata dagli elementi statali e capitalisti. Secondo la scuola
della regolazione, tali concetti sono incapaci di esaminare questi elementi
globalmente, dietro l’esperienza maturata nel periodo dei “Gloriosi anni
Trenta”. Da allora questa realtà storica avrebbe dovuto essere concepita come
un equilibrio di tensioni tra due momenti ambivalenti, normalizzazione e
produzione, i cui fini sono, rispettivamente, il progresso sociale ed il
progresso materiale. Queste tensioni sarebbero venute da un interfaccia
dinamico: le innovazioni, che hanno come oggetto il progresso tecnico. La chiave
di questo superamento astratto del marxismo da parte del riformismo radicale e
del capitalismo da parte della società salariale è, senza dubbio, il concetto
della regolazione. Questa nozione, vista dalla prospettiva tecnicista, significa
che il progresso tecnico si può convertire in progresso sociale. Ciò,
evidentemente, solo come una possibilità; tutto dipende dalla creazione di
meccanismi che fanno da mediatori e dalla loro efficacia come regolatori
(Aglietta, 1998: 58). Dalla prospettiva politica, la regolazione esprime le
pratiche delle forme istituzionali in un tutto complesso e stabile, per
assicurare la riproduzione simultanea e articolata degli ordini sociali
(Thèret, 1992: 58). Così, come c’è autonomia relativa dello statale di
fronte all’economico e come le relazioni tra questi ordini sono organiche, non
esiste riproduzione di un insieme senza regolazione, che nasce lì come fenomeno
puramente immediato o casuale (Idem: 17). La categoria della mediazione, al
contrario, venne presentata nella maniera seguente, con la sfaccettatura
marxista:
“La categoria della mediazione come asse metodologica per
oltrepassare la semplice immediatezza dell’esperienza non è, quindi, qualcosa
che verrebbe importato dall’esterno (soggettivamente) negli oggetti, non è un
giudizio di valore o un dovere che andrebbe ad opporsi al suo essere, è la
manifestazione della sua stessa struttura oggettiva.” (Lukàcs, 1976: 203).
Bisogna andare oltre le rivalità e i conflitti che si
manifestano sulla superficie dei fatti sociali, per analizzare le leggi e le
contraddizioni nell’essenza stessa dell’essere sociale e per apprendere i
poli che sono impersonati dagli individui con interessi inconciliabili -le cui
mediazioni non sono “regolate”, nel senso che l’unità relativa che
risulta dal processo è soltanto transitoria, temporanea e soggetta a
condizionamenti. In compenso, c’è qualcosa di assoluto nello sviluppo di
forme di esistenza nella lotta senza condizioni, definitiva e ad oltranza
(Lènine, 1973: 344).
3. La riforma capitalista e la rottura di classe
In termini politici, considerare le mediazioni delle
contraddizioni del capitalismo come “regolatrici” non vuol dire aderire al
progetto gramscista, ma al progetto positivista della social-democrazia. Ciò
corrisponde ad affermare che, nell’era moderna attuale, da un lato, esiste
sempre la possibilità di un compromesso di classe; dall’altro, le relazioni
istituzionali e riformiste tra capitale e forza lavoro sono eterne. Intanto,
negli anni ’80 e ’90, il progetto della sinistra social-democratica ha molto
ridotto il suo riformismo radicale di fronte alla “perdita di influenza dei
partiti di massa”, la quale si manifesta con la diminuzione delle adesioni e
con l’infedeltà da parte dei suoi elettori (Vincent, 1998: 127). Attualmente
tali partiti
“[...] non possono più funzionare come prima, perché il
personale di cui disponevano prima comincia a mancargli. Non trovano più
facilmente militanti, quadri intermediari, o finanche semplici membri. Raramente
sono avvolti da una simpatia diffusa, e la loro immagine pubblica è,
generalmente, mediocre. Sempre più di frequente, si rivolgono a professionisti
chevendonoi loro servizi e non si riconoscono nei concetti del mondo
totalizzante. Di fatto devono appoggiarsi ad istituzioni statali e para-statali,
ciò falsifica le relazioni di rappresentazione politica. Effettivamente, da
allora, i partiti trovano difficoltà a ordinare e trasmettere verso l’alto le
rappresentazioni formulate dalla base [...] e riesce loro ugualmente difficile
far accettare l’orientamento istituzionale ufficiale a quelli che loro
rappresentano. Così, le varie ramificazioni della rappresentanza si distendono
pericolosamente, lasciando intere zone distaccate dal campo politico.” (Idem:
129).
Durante l’esperienza della crescita fordista, le
organizzazioni sindacali di massa garantivano ai loro affiliati, in termini
relativi, sia l’aumento del potere d’acquisto sia la salvaguardia del
presente rispetto ai rischi del futuro. Tuttavia, esisteva un’ostruzione
politica una volta che “le organizzazioni di massa della classe operaia
venivano bloccate, impedendo di andare oltre a ciò che già avevano raggiunto,
corrispondendo non gli interessi della propria classe, ma, al contrario, quelli
dei suoi leader conservatori, cioè la burocrazia sindacale.” (Mandel, 1995:
6-7). Attualmente, le promesse fordiste hanno perso l’efficacia integratrice,
di modo che si sta producendo una riduzione del tasso di sindacalismo in tutta
Europa (ad esempio, in Francia si è passati da un 41,8% dagli inizi degli anni
’50, al 10,9% nel 1994) (Revelli & Tripodi, 1998: 7). Tra le altre piaghe,
il tasso di disoccupazione nei paesi centrali non è il risultato di una crisi
passeggera del modello di sviluppo. Oltre a questo,
“La nozione di “lavoro-mercanzia” (come il suo
corollario, il “mercato del lavoro” ed il suo clone “le risorse umane”)
controlla ancora il pensiero economico contemporaneo degli Stati capitalisti e
delle loro agenzie internazionali (FMI, Banca Mondiale, OCDE, GATT/OMC, etc.).
Fino ad oggi si fondano su pratiche salariali debilitanti, i cui effetti si
ripercuotono sulla demografia su scala mondiale.” (Meillassoux, 1997: 6).
Così, d’accordo con le notizie dell’OIT, a fine 1998,
nel mondo esisterebbero 150 milioni di disoccupati e 3 miliardi di
sotto-occupati (OIT, 1998: 9). Nel corso del decennio che terminava in quell’anno,
d’accordo ad una relazione della commissione dell’ONU che si occupava del
commercio e della disoccupazione, il tasso di crescita media annuale dell’economia
mondiale, purtroppo, non aveva superato il 2% (Chesnais, 1998: 81). Nella
seconda metà del XX secolo, il Prodotto Interno Lordo per abitante divenne
sempre più alto quello dei paesi sviluppati rispetto a quello dei paesi
sottosviluppati (Latouche, 1998: 40). Il rapporto della Banca Interamericana
dello Sviluppo (BID) sul “prodotto Economico e Sociale in America Latina -2000”
(Aith, 2000:1, cap. 3) indica che, negli ultimi 50 anni, questa regione è
rimasta sempre più lontana dai paesi ricchi. Oltre a ciò, la politica
economica di recessione delle agenzie internazionali del Terzo Mondo cerca di
evitare che l’aiuto ai bisognosi e ai disoccupati prendano la forma di
incarico per le classi ed i paesi ricchi, ispirandosi a soluzioni che si basano
su “leggi naturali” di Malthus (1983) -la cui logica morale ed economica
riconosce solamente il diritto e la possibilità di sussistere a quelli che ne
hanno le possibilità, discriminando ed escludendo i proletari disoccupati o
sotto-occupati che diventano “popolazione in eccesso”, in accordo a tali
leggi e alle leggi di sfruttamento degli uomini (Marx & Engels, 1978; Volpe,
1976). Pertanto, il malthusianesimo vincola il principio della popolazione alla
produzione:
“Malthus suggerisce anche la ricerca, nell’economia, dei
mezzi di agire più efficacemente sulla popolazione: l’azione a livello di
consumo, sulle istituzioni volte alla manutenzione e alla riproduzione della
vita fanno parte dell’arsenale utilizzato dagli economisti liberali; oggi sono
coadiuvati in tutto il mondo dalle più potenti tra le agenzie internazionali:
la Banca Mondiale ed il Fondo Monetario Internazionale.” (Meillassoux, 1997:
94).
Niente di tutto questo è incompatibile con il positivismo
keynesiano, che potrebbe essere condensato nella formula: “ottimismo dell’intelligenza,
pessimismo della volontà”. Così, è ottimista, sia nel conciliare lavoro e
capitale, sia nel mirare all’“eutanasia” del provocatore, nell’esperienza
del primato della produzione, perfettamente adeguata al fordismo (1945- 1975).
Ma, è pessimista per quanto riguarda il “sotto-consumo”, con l’esperienza
del primato della circolazione, che coincide di più con il post-fordismo (a
partire dal 1975). Questo lato del keynesianesimo si unisce pertanto all’ideologia
neoliberista dominante per rendere attuale il malthusianesimo come “una specie
di catastrofe demografica unito ad un’attitudine, ancora abbastanza
contemporanea, di rifiuto morale della povertà come qualcosa da dover essere
attribuito ai “vizi” degli stessi poveri.” (Meillassoux, 1997: 85).
Oggi, d’accordo all’ideologia dominante, l’immagine
più adeguata all’era post-moderna non è quella di una società capitalista
che funzioni come un carosello, ma quella di una casa degli orrori (dove il
controllo demografico viene fatto a causa di malattie, della fame e della
morte), sulla cui facciata, scritto in alto, si trovi il familiare motto
noe-liberale: “casa della razionalità economica, della competitività e del
bilanciamento strutturale”. La somma di tutto questo “produce,
necessariamente, una massa enorme di perdenti: gli esclusi, gli emarginati, i
disprezzati. Questa “cultura” della performance è, allora, ipso facto una
cultura del fallimento.” (Latouche, 1998: 106). Già nel 1993, d’accordo con
il “Tribunale Internazionale del Popolo per Giudicare il G7”, stabilito a
Tokio, le conseguenze del “Programma di Sistemazione Strutturale”, unito
alla Banca Mondiale e all’FMI, furono le seguenti:
“Un acuto incremento della disoccupazione, una caduta della
remunerazione del lavoro, un aumento della dipendenza degli alimenti, un grave
deterioramento ambientale, un deterioramento nei sistemi volti alla salute della
popolazione, un ristagno nelle ammissioni alle istituzioni educative, un declino
nella capacità produttiva di molte nazioni, il sabotaggio dei sistemi
democratici e la crescita continua del debito estero.” (Amin, 1997: 13).
Oltre a ciò, le riforme fiscali imposte al Terzo Mondo da
quelle agenzie internazionali “proteggono le alte rendite, così come l’esistenza
di corpi ausiliari dai salari elevatissimi (quadri in generale, alta
amministrazione, etc), che contribuiscono al consumo di lusso indispensabile al
mantenimento del mercato capitalista.” (Meillassoux, 1997: 92). La miseria, la
disoccupazione e la precarietà dell’impiego sono, pertanto, il marchio della
forma dello sviluppo contemporaneo, rappresentano cioè “il tratto strutturale
della base socio-produttiva così come si trova il livello attuale del
potenziale tecnologico e dei modelli organizzativi post-fordisti.” (Revelli,
1998: 174). In tali circostanze, dove il lavoro vivo viene eliminato dalle
costituzioni e predomina la demografia malthusiana del lavoro, i partiti operai
di massa che hanno avuto origine dall’esperienza fordista sono in via di
estinzione. Oggi, aumenta sempre più l’ingombro dei loro rappresentanti nei
governi, poiché esiste un problema di “personificazione statale” proprio
dell’era post-moderna:
“Il capitalismo può funzionare solo perché ha ereditato
una serie di tipologie antropologiche che non si è creato e che non avrebbe
potuto creare da sé: giudici incorruttibili, funzionari integri e weberiani,
educatori che si dedicano alla loro vocazione, operai che hanno un minimo di
coscienza professionale, etc. Questi tipi non nascono e non possono nascere da
soli; sono stati creati in periodi storici anteriori, in riferimento a valori
allora consacrati ed incontestabili: l’onestà, il servizio allo Stato, la
trasmissione del sapere, una bella opera, etc. Adesso viviamo in delle società
dove questi valori stanno, pubblicamente e notoriamente, diventando ridicoli,
dove conta solamente la quantità di denaro che si intasca, non importa come, o
il numero di volte in cui si è apparsi in televisione [...]. L’unica barriera
per le persone oggi è la paura della sanzione penale. Ma per quale motivo
quelli che amministrano questa sanzione devono essere per forza incorruttibili?
Chi vigilerà i vigilanti? La corruzione generalizzata, che la gente osserva nel
sistema politico- economico contemporaneo, non è periferica o aneddotica,
diventa un tratto distintivo, sistemico nella società in cui viviamo.”
(Castoriadis, 1996: 68 e 91).
Senza un “personale” adeguato in uno Stato
specificatamente sociale, senza l’“utopia di una società del lavoro”
(Habermans, 1988), non c’è più energia politica per conquistare, riformare e
perfezionare uno Stato sociale che, insieme al sistema contrattuale collettivo,
regolerebbe i conflitti generati dallo sviluppo del capitalismo. Così l’Europa
“Costruita o gestita da governi socialisti, dal Trattato di
Roma, è sempre stata una costruzione liberale, o meglio ultra-liberale,
dominata dalla logica economica e, da qui in avanti, dai mercati finanziari. Per
questo fatto, è pilotata dalle Banche centrali (principalmente dalla
Bundersbank), dalle lobby delle firme multinazionali e dai tecnocrati di
Bruxelles. Esisterà solo l’Europa sociale e cittadina se le forze vive e i
movimenti più forti le daranno l’impulso.” (Latouche, 1998: 127).
Di fronte ai “pericoli” della globalizzazione
contemporanea, Latouche assume una posizione regolazionista politicista e
suggerisce le parole d’ordine “resistenza e dissidenza”, sottolineando che
“c’è bisogno di costruire dei contro-poteri, imporre delle regole, trovare
un compromesso”. Perciò, il suo “volontarismo utopico” (Idem) dovrà
affrontare la durezza dei fatti, in un contesto in cui uno dei suoi vettori
principali, l’ideologia del liberalismo centrista, poiché progetto politico
operativo, attinge ampiamente la sua data limite negli anni ’70 -quando ebbe
inizio il suo progetto di implosione, sotto l’effetto della crisi
strutturalista del capitalismo. Intanto, prevale la “deregolazione” (Offe,
1996) ultra-liberale, che è il risultato di una “rivoluzione passiva”,
iniziata dopo il 1968 (Hardt & Negri, 1995) e consolidatasi nella metà
degli anni ’70, di modo che,
“La lunga “era progressista” è stata sorpassata già
da tempo. Tutto, pensiero ed azioni, la ragione di massa e l’incoscienza dell’individuo,
tutto venne marchiato dal timbro di una contro-rivoluzione diffusa. Nel leggere
il destino del partito politico, si trova solo una parola: fine. La fine dell’idea
di partito corre il rischio di portare con sé la fine dell’idea della
sinistra. È contro il suo stesso destino che la sinistra deve lottare.”
(Tronti, 1998. 95). Soprattutto quando non si vuole insistere nella
personificazione dell’immagine togliattista del partito- intellettuale
collettivo (Togliatti, 1977), che viene da Gramsci e forse è stata resa
sorpassata.
“Al contrario, l’altra indicazione che dà Gramsci sul
partito-Principe mi sembra che torni ad essere di grande attualità: così,
malgrado tutto, siamo disponibili a leggere i segni contrari, e forse proprio
per questo. La lezione del realismo politico dice alla sinistra che, adesso,
deve remare contro l’epoca.” (Tronti, 1998: 119- 120).
Perciò, le due visioni gramsciste del partito, come
intellettuale collettivo e come Principe, possono essere attualizzate senza
promuovere l’isolamento o la parcellizzazione delle azioni culturali,
economiche, sociali e politiche (Holdmann, 1975: 44- 45). Si tratta di una
forma-partito agente di una nuova “unione della teoria e della pratica”,
inizio di una “volontà collettiva” (Gramsci, 1988), orientata nel verso di
“un’utopia concreta” del comunismo (Bloch, 1981; 1982), determinata dagli
imperativi storico-politici della situazione concreta dell’era post-moderna
(Jameson, 1997) e, pertanto, nel contesto di un’epoca “oscurata dal timore
delle masse che coniuga l’immagine dell’assolutismo statale, o persino del
controllo elettronico delle opinioni e della violenza rivoluzionaria o del
terrorismo.” (Balibar, 1997: 98).
Davanti a queste manipolazioni, niente è più attuale della
formula gramscista: “pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà”.
Così. “l’unico entusiasmo giustificato è quello che accompagna la volontà
intelligente, l’attività intelligente, la ricchezza di inventiva in
iniziative concrete che modificano la realtà esistente.”(Gramsci, 1977: 21).
Felicemente, il capitalismo si trova di fronte alla sua più acuta
vulnerabilità, all’attingere all’apogeo della sua potenza, non trovando
nessuna via d’uscita fuorché il confronto con le masse delle classi
subalterne, che hanno tutte le ragioni di essersi ribellate. Semmai il pensiero
unico insista nel tentativo di
“Identificare assolutamente le opinioni, comprimendo l’individualità,
può solo ripercuotersi su di sé: suscitando una reazione esplosiva. Questo
perché si ignora che in pratica l’individualità non è una semplice
totalità che si possa circoscrivere ad un discorso, in un genere di vita unico;
sussiste sempre una molteplicità infinita di parti, di relazioni e di
fluttuazioni che eccedono in tale progetto immaginario e terminano col
sovvertirlo.” (Balibar, 1997: 96).
Nella visione prismatica individuale, si vive in un’epoca
commemorativa dell’esempio di Sartre, che si è ribellato al capitale e ha
denunciato l’attitudine conformista accentrata nell’ideologia “che non c’è
alternativa” al mostruoso potere del capitale (Mészáros, 1995: 978). Infine,
“per quanto siano deboli le possibilità della rivolta, è meno che mai il
momento di rinunciare al combattimento!” (Mattick, 1972: 208).
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