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Per la critica del capitalismo

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Guglielmo Carchedi
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Politiche Keynesiane, crisi finanziarie e guerre

Guglielmo Carchedi

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La sezione precedente ha raggiunto le seguenti conclusioni: (1) che le crisi sono dovute in ultima istanza alla competizione tecnologica insita nel sistema stesso (2) che esse si manifestano sotto forma di distruzione di capitale come relazioni sociali e allo stesso tempo come capitale eccedente sia nella sua forma monetaria sia di merci (3) che si può uscire dalle crisi solo se la profittabilità aumenta di nuovo perché il capitale come relazioni sociali aumenta e il capitale eccedente è assorbito attraverso un processo autoriproducentesi e (4) che in pratica le politiche keynesiane non possono riportare la profittabilità al suo livello precedente la crisi.

Posto di fronte ad una eccedenza di capitale (non in senso assoluto ma relativamente ai profitti realizzabili) il sistema capitalista mette in azione modi diversi per risolvere questo problema. Due fra quelli di maggior rilevanza oggigiorno sono l’esportazione di capitale in forma monetaria per fini finanziari e speculativi e la distruzione di capitale in forma di merce. Incominciamo dalla prima.

Nella sua ricerca di alti tassi di profitto, il capitale monetario eccedente prende la strada degli investimenti finanziari internazionali e della speculazione monetaria. Enormi quantità di denaro si riversano sui mercati di cambio al fine di comprare azioni e obbligazioni straniere e di speculare sulle variazioni dei tassi di cambio (attualmente, 1.500 miliardi di dollari giornalmente). Ciò può condurre a crisi finanziarie nei paesi dominati i cui effetti vengono inevitabilmente scaricati sulle spalle dei lavoratori. Consideriamo un esempio, quello della prima crisi finanziaria del 1994-95 in Messico.

La crisi messicana del 1994-95, come del resto tutte le crisi finanziarie nei paesi dominati, deve essere inquadrata nel contesto della competizione tra i capitali dei paesi dominanti, cioè tecnologicamente avanzati, e quelli dei paesi dominati, tecnologicamente arretrati. Mentre i primi raggiungono un più alto livello di produttività attraverso l’adozione di tecnologie più avanzate, e quindi livelli salariali più alti relativamente ai secondi, i secondi devono competere aumentando i ritmi di lavoro e la giornata lavorativa e diminuendo i salari. Una maniera molto efficace per diminuire i salari reali è attraverso l’inflazione e cioè diminuendo il potere d’acquisto dei salari. Ma l’aumento dei prezzi attraverso cui si manifesta l’inflazione ha effetti negativi per le esportazioni. Quindi sorge l’esigenza di svalutare la moneta nazionale. La svalutazione significa che i possessori di valuta straniera possono comparare più unità di moneta nazionale (per unità di valuta estera) e quindi possono comprare più beni nazionali con la stessa quantità di moneta straniera. In breve, i paesi tecnologicamente arretrati possono esportare di più attraverso la svalutazione compensando in tal modo gli effetti negativi dell’inflazione. Vi è quindi una connessione (anche se non meccanica) tra competizione tecnologica internazionale e inflazione/svalutazione nei paesi tecnologicamente arretrati. Per i capitalisti, l’inflazione è vantaggiosa perché riduce i salari reali. Per di più la svalutazione è doppiamente vantaggiosa per gli esportatori perché permette un aumento delle esportazioni. Ma per i lavoratori questa combinazione significa che una parte del plusvalore che essi cedono ai capitalisti nazionali attraverso l’inflazione viene ceduta da questi ultimi ai capitalisti stranieri attraverso la svalutazione. La pressione dei capitalisti nazionali per un ulteriore aumento dell’inflazione cresce ulteriormente.

Ma vi è un limite a queste politiche, come dimostrato dai paesi dell’America Latina negli anni ‘70 e ‘80 del secolo scorso. I tassi di inflazione inauditi (necessari per ridurre i salari addirittura al di sotto della sussistenza biologica) e quindi le costanti svalutazioni delle loro monete, non solo produssero movimenti sociali antagonisti che minacciavano le borghesie locali (che risposero in molti casi con sanguinose dittature) ma distrussero in molti casi anche l’utilità di quelle monete. Infatti l’estrema svalutazione le rendeva inutili sia per gli scambi interni che come mezzo di risparmio, mentre le continue svalutazioni ne distruggevano l’utilità per scambi internazionali. Questo condusse, una volta sconfitti i movimenti antagonisti, ad un nuovo fenomeno, la dollarizzazione, cioè la sostituzione parziale o totale, ufficiale o solo di fatto, della moneta nazionale col dollaro statunitense. Ma la dollarizzazione ha uno svantaggio: la banca centrale perde la possibilità di condurre una politica monetaria indipendente.

Questa era la situazione anche in Messico nel 1994. Per porre fine alla spirale inflazione/deflazione il Messico decise di ancorare la sua moneta, il peso, al dollaro nella misura di un peso per un dollaro. Questo richiedeva una politica di alti tassi di interesse al fine di convincere gli investitori stranieri a comprare e tenere pesos. Ma alti tassi d’interesse scoraggiano gli investimenti e quindi l’occupazione. Per ovviare a questo svantaggio, si ricorse ad un metodo ben collaudato, bassi salari. In tal modo, la lotta contro l’inflazione (una lotta appoggiata anche dalle classi lavoratrici perché ne colpiva il reddito) veniva usata come pretesto per intaccare ancora di più i salari reali. Per di più l’impossibilità di ricorrere alla svalutazione rendeva più difficile competere sui mercati internazionali con i paesi più tecnologicamente avanzati: le esportazioni ne soffrirono e il deficit della bilancia commerciale aumentò. Le riserve di dollari necessari per fronteggiare questa situazione vennero da due fonti principali. Primo, da un massiccio programma di privatizzazioni, un’operazione resa possibile dalle ingenti masse di valute internazionali in cerca di investimenti redditizi, cioè dal capitale monetario eccedente dei paesi tecnologicamente avanzati. Secondo, da prestiti internazionali (obbligazioni sia private che di Stato). Ma questa seconda opzione richiedeva alti tassi di interesse il cui pagamento richiedeva a sua volta sufficienti livelli di riserve di valute internazionali. Per questo gli investitori internazionali (cioè coloro che sia direttamente sia attraverso fondi di investimento investono in valute straniere) tenevano d’occhio ansiosamente il livello di riserve valutarie del Messico. Bassi livelli avrebbero comportato l’impossibilità di ripagare i debiti e, prima di giungere a questa situazione estrema, la necessità di abbandonare la parità tra dollaro e peso, cioè la svalutazione. A ciò si aggiungeva la pressione da parte degli speculatori di cambio, cioè di coloro che vendevano massicciamente pesos per dollari nella speranza che, in caso di svalutazione del peso, avrebbero potuto comprare più pesos con quei dollari.

Il peso doveva quindi essere “supportato”. Cioè ogni volta che gli operatori economici (principalmente banche, fondi d’investimento, compagnie d’assicurazione) volevano vendere pesos (per dollari) la banca centrale doveva comprare quei pesos con dollari. Allo stesso tempo, i tassi di interesse crescenti rendevano sempre più difficile per le imprese farsi imprestare fondi dalle banche alle quali in tal modo veniva mancare questa fonte di reddito. Inoltre molti dei prestiti erano a tasso d’interesse variabile. Un crescente livello del tasso di interesse rendeva sempre più difficile il pagamento di quei debiti. Si temeva quindi che ciò conducesse a fallimenti di imprese e, dato che i debiti sarebbero diventati insolventi, anche delle banche. Ma il collasso del sistema bancario non era l’unica preoccupazione. Di fronte al pericolo crescente della svalutazione, l’interesse degli investitori internazionali per il debito pubblico messicano diminuiva. Le prime avvisaglie vennero quando, nel dicembre del 1994, solo una frazione dei 27 miliardi di dollari in Tesobonos (titoli di Stato messicano denominati in dollari) offerti dalla banca centrale venne sottoscritta dagli investitori stranieri. Dato che un mese dopo il Messico avrebbe dovuto pagare un altro debito di 26.5 miliardi di dollari, la paura di un mancato pagamento divenne generalizzata. Ciò accelerò la fuga di capitali (vendita di pesos) che era già incominciata dieci mesi prima e che aveva condotto ad un abbassamento delle riserve nazionali a solo 7 miliardi di dollari. Finalmente, il 20 Dicembre del 1994, il Messico fu obbligato a rinunciare alla difesa della parità del peso col dollaro e a svalutare, prima del 15% e poi del 40%.

La nuova politica economica era fallita. Il governo Messicano ritornò alla vecchia politica basata su inflazione e svalutazione. Anni dopo la crisi, l’economia messicana continuava a restringersi, con una parziale ripresa solo dopo che l’Argentina (il tradizionale importatore dei prodotti messicani) aveva ostinatamente legato la sua moneta al dollaro (vedi più sotto). Ai fallimenti e alla disoccupazione derivanti da tale stato di cose, si aggiunsero altri fallimenti e disoccupazione causati dalle politiche restrittive imposte dal FMI (per esempio, maggiori tasse) come controparte per il prestito di fondi necessari per il pagamento del debito estero messicano. Ma, contrariamente a quanto proposto da molti commentatori, queste politiche restrittive non sono la causa delle crisi finanziarie. Esse sono solo il catalizzatore e la forma di manifestazione della crisi di produzione (di plusvalore) a livello internazionale e della capacità dei paesi dominanti (tecnologicamente avanzati) di scaricare, per lo meno parzialmente, il costo della crisi sui paesi dominati (tecnologicamente arretrati) anche, ma non esclusivamente, attraverso le politiche imposte dal Fondo Monetario Internazionale, dalla Banca Mondiale e dal altre istituzioni internazionali.  [1]

Abbiamo visto che il capitale eccedente può prendere anche la forma di merci invendute. Ciò conduce ad una forma specifica di intervento statale, tipico dei paesi dominanti. Semplicemente, si distruggono quelle merci (o una parte di esse) che non possono essere vendute. Per esempio, nella Politica Agricola Comune, il latte eccedente può essere trasformato in latte in polvere che viene poi usato per mangime per polli e maiali. Questa è ‘degradazione’ economica, distruzione di una parte del valore di quella merce. Oppure il latte può essere trasformato in burro e questo in grasso non adatto per il consumo umano. Oppure, si consideri il vino. Esso è fatto evaporare cosicché rimanga solo il contenuto alcolico e quest’ultimo è usato nell’industria chimica. Per quanto riguarda i cereali, “Oggigiorno, polli, pecore, maiali, e bovini mangiano il 57 per cento della produzione del grano dell’Unione Europea...Un altro 7 per cento è esportato. Quindi si produce nell’Unione Europea tre volte più grano di quanto non se ne mangi” (Roodaman, 1997, p.140). Fino al 1974, la Comunità pagava un premio di denaturazione. Per il grano, ciò significava usare coloranti o olio di pesce per garantire che non potesse essere usato come alimento per esseri umani. Per esempio, nel 1972, i premi di denaturazione ammontarono a 7.7 milioni di ECU (Harris, Swinbanck, Wilkinson, 1983, tabella 4.2, p.64). In breve, lo spreco può essere usato per combattere la crisi di realizzo. Ma questo metodo si scontra contro enormi ostacoli politici, specialmente se il livello di vita dei lavoratori si abbassa a causa della crisi. Ma, ancora più importante, lo spreco può essere un rimedio (parziale) contro la crisi di realizzo senza poter influire sulla crisi di profittabilità.

Un’opzione più accettabile ideologicamente e più efficiente economicamente è quella dell’applicazione delle politiche keynesiane alle spese militari. Tali spese possono essere paragonate alle spese per infrastrutture. Primo, nella misura in cui esse sono indotte dallo Stato e finanziate con capitale inattivo, anche esse possono far alzare il tasso medio di profitto ma non possono riportarlo al suo livello precedente la crisi (a meno che non siano finanziate col plusvalore appropriato da altre nazioni). Allo steso tempo, anche esse possono essere accompagnate da un incremento del Pil, dell’occupazione e del reddito [2]. Secondo, anche esse si prestano ad essere usate in maniera anti-ciclica. E terzo, anche esse non sono necessariamente inflattive. Se sono finanziate attraverso tassazione o debito pubblico, non portano necessariamente all’inflazione. Se sono finanziate attraverso la creazione di moneta, producono inflazione (come nel finanziamento della guerra degli USA contro il Vietnam) [3].

Ma vi sono anche differenze. Primo, la produzione di armi indotta dallo Stato non implica un rafforzamento della borghesia di Stato e quindi non implica il pagamento di servizi da parte del capitale privato allo Stato. [4] Secondo, le spese militari sono legate molto di più alla vicissitudini internazionali che gli investimenti in IF [5]. Terzo, l’industria militare, a differenza degli investimenti in infrastrutture, produce merci (le armi) che in tempo di pace in gran parte non vengono usate. Alcune sono usate, come per esempio quelle necessarie per addestrare i soldati e per esercitazioni belliche, ma la grande maggioranza rimane inusata (come per esempio le armi atomiche). L’opinione pubblica da una parte viene convinta della necessità della produzione di armi e dall’altra è ovviamente contenta se tali armi non vengono usate. Nella misura in cui non vengono usate, il loro valore d’uso (la distruzione di altri valori d’uso attraverso la loro propria distruzione) si deteriora e scompare (anche attraverso la obsolescenza tecnica). Quindi, ex-post, il lavoro che è stato usato per produrle è sprecato (qui c’è una similarità col lavoro contenuto nelle merci per usi civili non vendute: anche questo lavoro è sprecato anche se non intenzionalmente). Questo lavoro è prima produttivo di plusvalore e poi sprecato. Il denaro speso per le armi indica valore che è stato prima appropriato da altri settori dallo Stato, poi dato ai produttori di armi, poi usato da essi per produrre nuovo valore e plusvalore sotto la forma di armi, e poi distrutto a causa della distruzione del valore d’uso (cioè la distruzione della loro capacità distruttiva attraverso il loro mancato uso) nel quale quel valore è contenuto [6]. In breve, è un indicatore di una ridistribuzione di valore mirata alla distruzione delle risorse che sono state usate nella produzione delle armi [7]. La produzione di armi riflette non solo la produzione di valore ma anche la distruzione di ricchezza [8].

Infine, vi sono quattro ragioni per cui la produzione di armi è superiore alla produzione di infrastrutture. Primo, la produzione di nuove armi stimola nuovi investimenti specialmente nella produzione della conoscenza. Essa, se fatta nell’ambito di relazioni di produzione capitalistiche, è produzione di valore e plusvalore tanto quanto la produzione di merci materiali. Per quanto riguarda le politiche anti-cicliche, gli investimenti in questo settore sono quindi più efficaci degli investimenti nelle infrastrutture. Secondo, la nuova conoscenza prodotta nell’industria militare circola nel settore civile dove fa aumentare la produttività, la capacità competitiva, e la superiorità militare relativamente ad altre nazioni. Terzo, l’uso di infrastrutture, se sussidiato o gratis, può diventare parte del valore della forza lavoro e quindi conduce ad un incremento dei salari reali (anche se non necessariamente della busta paga). Questo ‘pericolo’ è evitato se le risorse sono incanalate nelle spese militari. E quarto, a differenza delle infrastrutture, le armi possono essere esportate. Dato che le armi sono prodotte con una grande percentuale di capitale costante relativamente a quello variabile, cioè dato che si impiegano molti mezzi di produzione e pochi lavoratori, in questo settore è creato relativamente poco plusvalore. Ma questo non è un problema se le armi possono essere esportate. In questo caso, i produttori ottengono i loro profitti non dal plusvalore prodotto internamente ma da quello ottenuto dai compratori stranieri. Dati i costi altissimi delle armi, enormi somme di plusvalore internazionale vengono appropriate dai produttori. Ciò ha un effetto positivo sul tasso medio di profitto. È a causa di ciò che l’esportazione di armi è attivamente stimolato e supportato dai governi dei produttori [9].

Naturalmente, vi sono limiti alla produzione di armi in tempi di pace. Primo, al di là di un certo limite, lo spreco di risorse inerente a tale produzione mina la capacità riproduttiva complessiva del sistema [10]. Secondo, più le armi si accumulano, più diventa difficile giustificare un’ulteriore produzione. Terzo, data la mentalità propensa verso la guerra dell’apparato militare, più si producono armi più aumentano le probabilità che vengano usate, cioè di una guerra.

Paradossalmente, tuttavia, le guerre possono essere un mezzo contro le crisi più efficace delle spese militari in tempo di pace (che a loro volta sono più efficaci delle spese per infrastrutture). Le guerre sono una forma specifica ma potente di distruzione di capitale eccedente, di valore sotto forma di merci, di un valore che non può essere realizzato in tempo di pace a causa della crisi economica. Le guerre sono un esempio particolare della teoria marxista delle crisi, cioè che l’economia esce dalla crisi solo se una quantità sufficiente di capitale eccedente è distrutta. La specificità delle guerre è che esse non soltanto assorbono capitale eccedente per la produzione di armi (con gli effetti insufficienti analizzati più sopra sul tasso medio di profitto ma anche con gli effetti positivi sul Pil, sull’occupazione e sul reddito, possibilmente attraverso la realizzazione indotta) ma anche che, a causa dell’enorme sforzo bellico, incanalano capitale e forza lavoro da altri settori nell’industria militare. Nella misura in cui il capitale è incanalato nell’industria militare, il tasso medio di profitto non è intaccato. Se poi, sotto l’influsso del nazionalismo, i lavoratori accettano livelli più alti di sfruttamento, i tassi di profitto (e il tasso medio di profitto ) possono aumentare. Allo stesso tempo, il valore prodotto è automaticamente realizzato perché la sua produzione è commissionata dallo Stato. Quanto più capitale è distrutto (nella sua forma di merce, sia come armi che come le altre merci che sono distrutte dalle armi) tanto più valore può essere creato. Ciò rafforza il capitale come relazioni sociali.

Dopo la guerra, vi è un periodo di ricostruzione. In quei paesi colpiti dalle guerre, si deve riprendere la produzione di mezzi di consumo e di investimento, così come di infrastrutture. Le condizioni per una ripresa economica sono state create. In quei paesi che hanno fatto la guerra sul suolo altrui, questa distruzione di capitale non ha avuto luogo, eccetto che per la distruzione delle armi che sono state usate per fare la guerra. Tuttavia le condizioni per una ripresa economica in tali paesi sono create se questi producono le merci e il capitale necessari per la ricostruzione degli altri paesi, quelli in cui è avvenuta la distruzione. Attraverso prima la distruzione di un’altra nazione e poi l’offerta di ‘aiutare’ questa nazione nella sua ricostruzione, i paesi vincenti creano canali per la produzione e l’esportazione delle loro merci senza dover essi stessi essere esposti a distruzione e sofferenze. Se le guerre sono mondiali, la massiccia distruzione di capitale può essere la condizione per una ripresa massiccia e di lungo periodo (come nel Piano Marshall dopo la Seconda Guerra Mondiale). Questo è ammesso dal Keynesismo, anche se entro un quadro analitico diverso e con un contenuto di classe opposto.

Keynes disse una volta: “La costruzione di piramidi, i terremoti, perfino le guerre possono servire ad aumentare la ricchezza” (1964, p.129). Abbiamo visto che la teoria alla base di questa e di altre simili affermazioni si basa su errori teorici. Ma vi è di più. Questi errori hanno una funzione e un contenuto ideologico specifici. L’aumentata realizzazione e lo spreco sono teorizzati come se fossero efficaci strumenti per evitare la crisi in tempi di pace. Non lo sono. Se funzionano, essi funzionano solo per i paesi imperialisti dominanti sulla base dell’appropriazione di plusvalore internazionale. In maniera simile, la distruzione di valore in tempi di guerra è teorizzata come se (sfortunatamente) fosse necessaria per far ripartire l’economia in qualsiasi nazione. In realtà funziona solo per i paesi imperialisti (1) che sono dotati di capitale eccedente (2) che possono condurre guerre sui territori di altri paesi, per ragioni sia economiche che geo-politiche (ma se necessario esse si fanno la guerra sui rispettivi territori) e (3) che possono offrire ‘aiuti’ per la ricostruzione di questi paesi. La teorizzazione delle politiche keynesiane da una prospettiva Marxista rivela il carattere di classe di tale teoria e la funzionalità di queste politiche per la riproduzione del capitalismo.

La teorizzazione delle stesse politiche da una prospettiva Keynesiana, nascondendo la loro funzionalità per la riproduzione della dominazione imperialista, è semplicemente un’apologia dell’imperialismo, un’apologia che richiede necessariamente gli errori teorici messi in evidenza piùsopra. In ultima istanza, quindi, la questione è questa: o Marx o Keynes.

Bibliografia

Carchedi, G. (1991) Frontiers of Political Economy, Verso, London

Carchedi, G. (1999), A Missed Opportunity, Orthodox Versus Marxist Crises Theories, Historical Materialism, No.4, Summer, pp.33-57

Carchedi, G. (2001), For Another Europe. A Class Analysis of European Economic Integration, Verso, London

Carchedi, G. (2002), The Art of fudging in Vasapollo (ed), An Old False Problem, Media Press, Rome, Italy, 2002

Giacchè, V. (2001), Perché la guerra fa bene all’economia (I), Proteo, No.3, pp. 111-116

Harris, S., Swinbanck, A., Wilkinson, G. (1983), The Food and Farm Policies of the European Community, John Wiley and Sons, Chichester

Keynes, J.M. (1964), The General theory of Employment, Interest and Money, Harcourt, Brace and World, Inc.

M.Kidron, A Permanent Arms Economy, International Socialism, 1:28, Spring, 1967

Quaderni di Contropiano (2001), La “Belle Epoque È Finita”, Media Print, Rome

Roodman, D.M. (1997), Reforming Subsidies, in L.R.Brown, C.Flavin, H.French (eds), The State of the World 1997, W.W. Norton and Company, New York and London

SIPRI Yearbook 2001, Stoccolma

http://www.wecom.com/ncecd/bp18.html#appendixa


[1] Se la crisi messicana fu la prima del suo genere, l’ultima è quella argentina, ancora non risolta dopo ben quattro anni. I punti in comune tra le due crisi sono molti. Il lettore è rinviato all’ articolo di Pablo Ghigliani nell’ultimo numero di questa rivista.

[2] La caduta del saggio medio di profitto non è dovuta, come si ipotizza nella teoria economica sraffiana, al fatto che l’industria bellica (o dei beni di lusso), non ha alcun effetto sul tasso di profitto (si veda M.Kidron, 1967). Queste industrie producono valore e influenzano il saggio medio di profitto proprio come fanno gli investimenti in infrastrutture indotti dallo Stato.

[3] Si noti che le politiche monetarie non sono la causa ultima dell’inflazione. Piuttosto, esse stesse sono causate dalla necessità di contrastare la crisi di realizzo che, a sua volta, è causata dalla crisi di profittabilità. La causa ultima dell’inflazione è la crisi di profittabilità. Si veda Carchedi, 1991 e 2001.

[4] Ciò ovviamente non implica che il capitale privato sia internamente armonioso. I produttori di armi sono un gruppo di pressione potente che promuove i propri interessi contro quelli di altri settori del capitale privato. Negli USA, la AIA, con sede a Washington DC, rappresenta circa 50 dei maggiori produttori di armi. Essa preme per il finanziamento di candidati presidenziali e del Congresso, assume ex membri del Congresso come suoi lobbiisti, mobilizza lavoratori per “salvare i nostri lavori” quando la produzione di armi è minacciata, paga tangenti a governi esteri per far loro acquistare armi, e influenza la politica estera al fine di stimolare la corsa alle armi in vari paesi del mondo.

[5] Dal 1991 al 2000, le spese militari mondiali sono cadute dell’11%, con un lieve incremento nel 1999 e 2000. questo trend negativo globale nasconde una forte riduzione per l’America del Nord e per l’Europa Occidentale e un forte incremento per il resto del mondo (con l’eccezione dell’Europa Centrale e Medio-Orientale). Si veda SIPRI Yerabook 2001, tabella 4.1. Si vedrà più sotto che un grande incremento delle spese per armi nei paesi imperialisti può aiutare quei paesi ad uscire dalla depressione e crisi. L’attacco dell’11 Settembre 2001 a New York e Washington rappresenta una grande opportunità per rilanciare l’economia USA che era stata colpita dalla crisi ben prima di quella data.

[6] L’argomento cinico a favore della creazione di lavoro nell’industria bellica è che questa produzione, anche se moralmente criticabile, è tuttavia necessaria per l’economia. La risposta è: vogliamo veramente un sistema economico la cui crescita è basata sulla previa distruzione di valore (se necessario, attraverso la guerra) con tutta la sofferenze umana che ne consegue?

[7] È vero che anche in altri settori vengano prodotte merci il cui valore d’uso non si realizza. Tale realizzazione non è mai certa. Se una merce non viene venduta, è il produttore che sostiene una perdita. Se viene venduta ma non usata, è il compratore (nel caso delle armi, lo Stato) che sostiene la perdita. Ma nella produzione delle armi lo spreco di lavoro è una caratteristica insita e costante.

[8] Si noti, tra l’altro, la differenze con il lavoro che distrugge valore (Carchedi, 1991). Questo, al contrario del lavoro che è stato usato per produrre armi, non può essere produttivo di plusvalore perché distrugge il valore d’uso della merce e quindi il plusvalore contenuto in essa (si veda l’esempio della Politica Agricola Comunitaria). Quindi, la forma monetaria del lavoro erogato in questo caso è un’indicazione della distruzione e non della produzione di valore.

[9] Oggigiorno, “la maggior parte del supporto governativo per la vendita di armi prende la forma di sussidi e prestiti garantiti a governi stranieri per l’acquisto di armi prodotte dagli Stati Uniti. Un nuovo programma per un totale di 15 miliardi di dollari, approvato dal Congresso nel 1995, assicura le perdite incorse dall’industria della difesa nella esportazione di armi. Molti altri programmi assicurano mancati pagamenti o cancellano tasse per esportatori e compratori di oltreoceano. Le ambasciate americane in tutto il mondo aiutano nella negoziazione di questi affari. Attualmente, 6.500 impiegati a tempo pieno dei dipartimenti del commercio, di Stato e della difesa lavorano per promuovere e finanziare vendite militari oltreoceano. Nel 1995, i costi per promuovere e sussidiare la vendita di armi (includendo i salari dei 6,500 impiegati di Stato che lavorano per promuovere e finanziare la vendita di armi oltreoceano) erano più o meno uguali alla riduzione delle spese per l’assistenza sociale.” Si veda http://www.wecom.com/ncecd/bp18.html#appendixa

[10] Nella Unione Sovietica, che non operava sulla base della profittabilità (anche se non era un sistema socialista), non vi era capitale eccedente ma al contrario una scarsità permanente di capitale. Per essa, più il bilancio militare era grande, peggio era. La Guerra Fredda aveva lo scopo di minare l’economia Sovietica obbligandola a trasferire le sue risorse dalle sfere produttive a quella militare. Nel periodo 1953-65, “le spese per la difesa nella Unione Sovietica furono tre volte più alte di quelle dell’Europa Occidentale e dieci volte piú alte di quelle del Giappone” (van der Pijl, 1999 p.10). Ciò non poteva che danneggiare l’economia Sovietica ed è una delle ragioni principali della caduta dell’Unione Sovietica. In una economia capitalista, dove la profittabilità determina l’esistenza e la dimensione del capitale eccedente, un grande bilancio militare può (anche se ciò non è sempre il caso) essere un opzione migliore di un piccolo bilancio. Tuttavia, al di là di un certo limite, la riproduzione della sfera produttiva può essere minata.