Eurobang, le gerarchie economiche nel confronto intercapitalistico
Andrea Fumagalli
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Il testo di Rita Martufi e Luciano Vasapollo è uno dei pochi
libri che analizzano in termini critici e eterodossi la costituzione della
Moneta Unica Europea, così come si è andata evolvendo dopo gli accordi di
Maastricht. Si tratta di una critica eterodossa perché non fa perno sullo
stereotipo caro ai nazionalisti e leghisti nostrani della salvaguardia della
nazione o del territorio come entità sacra da difendere ad ogni costo contro le
contaminazioni sovranazionali o sovraterritoriali. Anzi, il testo in esame parte
proprio dal considerare come irreversibile la crisi dello stato-nazione e dell’entità
nazionale come bacino economico-produttivo. Il sottotitolo: La sfida del polo
europeo nella competizione globale: inchiesta su lavoro e capitale, è già
esplicativo al riguardo. La critica all’Europa di Maastricht nasce infatti
dalla constatazione che il progetto dell’Euro ha richiesto un così elevato
processo di ristrutturazione dell’apparato socio-economico tale da innescare
effetti recessivi in un periodo in cui le nuove tecnologie stavano cominciando a
dare i loro frutti in termini di potenziale crescita. Il risultato è stato che
l’Europa rischia di perdere la competizione sul piano tecnologico-produttivo
con l’impero Usa, competizione in nome della quale l’intera architettura
dell’Euro era sta imbastita (almeno stando alle dichiarazioni dei vari
potentati europei). Detto in altri termini, più propriamente keynesiani, stiamo
correndo il serio rischio che la cura per il presunto malato sia tale da
uccidere il malato stesso.
* * * * *
Il testo è corredato un elevato numero di dati. In effetti
si tratta di un’analisi statistica sui mutamenti strutturali dell’economia
europea alla luce della dinamica tecnologica che ha caratterizzato gli ultimi
vent’anni di storia dei paesi capitalistici avanzati. In particolare, l’enorme
mole di dati riguarda tre aspetti principali:
• La dinamica del mercato del lavoro europeo negli anni
Novanta.
• I processi di internazionalizzazione del capitale.
• L’evoluzione della produttività e della distribuzione
del reddito tra innovazione tecnologica e finanziarizzazione dell’economia
europea.
La dinamica del mercato del lavoro è caratterizzata da una
crescente disoccupazione per tutti gli anni Novanta, esito dei processi di
ristrutturazione dei processi produttivi. L’introduzione massiccia delle nuove
tecnologie linguistiche ad alta intensità di capitale favorisce una
segmentazione e frammentazione del mondo del lavoro che rende difficile se non
quasi impossibile qualsiasi volontà di riorganizzazione di forme sindacali non
cogestive. L’accelerazione del progresso tecnico favorisce l’incremento
della produttività del lavoro, soprattutto nei settori manifatturieri. Dopo un
calo negli anni ’70 gli indicatori di produttività mostrano una decisa
ripresa a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, con differenziali
minimi in Europa e più ampi rispetto agli Stati Uniti. Ciò deriva - fattore
che vale essenzialmente per l’Italia - dalla crescente frammentazione del
mercato del lavoro che induce, tramite il decadimento della contrattazione
collettiva a favore i quella individuale, ad una maggiore intensità di lavoro
(leggasi sfruttamento). E ciò è tanto più vero quanto più le produzioni sono
a maggior intensità di capitale. Da questo punto di vista è interessante
notare che la capacità degli Usa di creare maggior occupazione in Europa,
seppur precaria e non garantita, dipende in massima parte dal maggior grado di
terziarizzazione dell’economia americana rispetto a quelle europee. È noto
infatti che l’attività terziaria, essendo a maggior intensità di lavoro, è
in grado di assorbire a parità di produzione un maggior numero di occupati e
livelli di produttività minori (la produttività negli anni Novanta cresce
negli Usa dell’1% per cento all’anno contro il + 1,8% europeo). L’Europa
di fatto ha compiuto un enorme processo di ristrutturazione produttiva
finalizzato alla flessibilizzazione tecno-produttiva che ha avuto effetti
devastanti sull’omogeneità del mercato del lavoro e sulla subordinazione dell’attività
lavorativa alle esigenze della compatibilità aziendale. Parlare oggi di
rigidità del lavoro (e in Italia se ne continua a parlare) non solo è falso ma
anche ridicolo.
Il lato complementare di questa ridefinizione delle gerarchie
economiche in senso prettamente capitalistico, in nome delle due parole magiche
che oggi si trovano in tutti i documenti di programmazione economica e
finanziaria: flessibilità e compatibilità, è l’aspetto dell’internazionalizzazione
dei capitali e della produzione. Tale processo è l’aspetto che meglio
consente di cogliere le conflittualità intercapitalistiche a livello mondiale.
In primo luogo, occorre notare che tale processo, se riferito alle dinamiche
produttive di delocalizzazione internazionale, risulta inferiore a quanto
solitamente considerato, sia per quanto riguarda l’Italia che l’Europa. Ad
esempio, dall’analisi dei dati presentati da Martufi e Vasapollo, si evince
che l’export italiano cresce negli ultimi dieci anni ad un tasso superiore a
quello dell’internazionalizzazione. Situazione analoga riguarda il Giappone,
il cui processo di “outsorcing” ed “esternalizzazione” ha
raggiunto il suo massimo alla fine degli anni Settanta. Diversa è invece la
situazione del Nord America (Stati Uniti in testa), l’area geo-economica che
più si è internazionalizzata. È già questo è un segnale alquanto
inequivocabile riguardo al controllo dei flussi e dei trasferimenti tecnologici.
La leadership tecnologica statunitense è infatti aumentata nel corso degli
ultimi anni, anche grazie al sostegno finanziario che tali processi di
internazionalizzazione hanno avuto da parte dello sviluppo del mercato
internazionale dei capitali. Se il Giappone ha dovuto e sta ancora fronteggiando
una grave crisi produttiva e finanziaria, che ha avuto il suo epicentro nel 1997
ma che è iniziata ben prima, e l’Europa ha adottato politiche restrittive per
favorire il processo di convergenza verso la moneta unica, con effetti negativi
sullo sviluppo dei mercati finanziari, gli Stati Uniti sono stati lasciati
liberi di consolidare la propria leadership tecnologica e finanziaria, anche
grazie al ruolo di unica superpotenza militare della terra. Le diverse crisi
finanziarie che hanno costellato il biennio 1996-97 hanno poi favorito un
processo di concentrazione come mai si è verificato nella storia del
capitalismo sia a livello finanziario che tecnologico nelle mani del mercato
statunitenze.
Gli attuali assetti geo-economici sono abbastanza chiari.
Quelle possibilità di competizione tecnologica e finanziaria di cui l’Europa
disponeva al momento della crisi fordista sono state bruciate nel porre la
costituzione di unità monetaria come vincolo che accelerasse il passaggio ad un
modello di accumulazione flessibile che ripristinasse il pieno dominio del
capitale sul lavoro. Se si pensa che l’obiettivo principale della Banca
Centrale Europea, ancora oggi operante e fissato nell’art. 105 del Trattato di
Maastricht del 1991, è il controllo e la stabilità dei prezzi, che si traduce
concretamente nel controllo dei redditi da lavoro, si può avere un’idea
chiara di quelle che è stato il compito svolto dall’euro e che oggi, grazie
ai vari patti di stabilità, continua ancora ad essere pervicacemente
perseguito.
Non stupisce, quindi, che la distribuzione del reddito - come
viene efficacemente mostrato - avvantaggi sempre più i profitti e le rendite a
danno dei salari e che sia completamente saltato - grazie alla complicità delle
politiche di concertazione - qualsiasi meccanismo di redistribuzione dei
guadagni di produttività. La stessa dinamica ha caratterizzato l’economia
americana, pur se con alcune differenze sostanziali di natura strutturale.
Grazie infatti all’inesistenza di qualsiasi obbligo di ottemperare vincoli di
convergenza come quelli sanciti in Europa dal Trattato di Maastricht, gli Stati
Uniti sono stati liberi di perseguire una politica monetaria di fatto espansiva
e di sostegno alla domanda grazie all’effetto ricchezza delle plusvalenze
azionarie. Ed è qui che risalta in pieno il ruolo egemonico, direi “imperiale”,
degli Usa, in grado di utilizzare a proprio vantaggio sia all’interno dei
mercati finanziari che di quelli valutari, il ruolo di gendarme del pianeta.
Quale altro Stato, infatti, avrebbe potuto sopportare per più di un lustro un
crescente disavanzo commerciale e nello stesso tempo vedere la propria moneta
nazionale rivalutarsi?
Nel momento stesso in cui è in atto in confronto
intercapitalistico su chi più influenza e definisce le nuove traiettorie
tecnologiche legate all’informatica, l’Europa è duramente frenata da
politiche restrittive e autarchiche nel nome della moneta unica. E al suo
interno si acuiscono ancor di più le differenze regionali tra il cuore
continentale dell’Europa (Germani, Francia) e la fascia periferica
mediterranea.
Il testo di Martufi e Vasapollo non lascia spazio a
previsioni molto ottimistiche. Il rischio principale è che il declassamento
europeo nella corsa tecnologica si trasformi in un ulteriore peggioramento della
distribuzione del reddito e nell’impoverimento dei ceti meno abbienti.
Da questo punto di vista il processo di unificazione
monetaria appare come una grande ristrutturazione perdente. Tuttavia, è
difficile prevedere la futura evoluzione economica. E inoltre il fatto che con l’euro
si avrà in modo diretto la percezione delle differenze salariali, di profitto e
di rendita tra i paesi europei membri, non è detto che proprio questa maggior
trasparenza non faciliti la coscienza delle disuguaglianze sociali.