Strade, autostrade, trasporto aereo, ferrovie. Più che uno
stivale l’Italia ormai somiglia ad un imbuto. Si entra, ma non si esce più.
Si rimane imbottigliati, fermi, costretti a forza dentro un sistema di
immobilità che in realtà è una perfetta macchina del profitto che scarica sui
cosiddetti utenti i cosiddetti costi e recapita alle imprese margini mai vista
prima. Un sistema che, tendenzialmente, privilegia la mobilità delle merci a
scapito della mobilità delle persone. Un sistema che consente a tutta una
schiera di personaggi di ricostruire il partito trasversale delle “opere
pubbliche”. Un sistema sequestrato da poche lobby influenti che praticano
ancora l’aureo principio “costi sociali & profitti privati”. Costi che
sono anche ambientali, s’intende. Proprio negli ultimi mesi il governo
italiano ha tirato fuori un piano generale dei trasporti che smentisce
completamente gli obiettivi di Kyoto, quelli sulla riduzione dell’inquinamento,
salvo poi stanziare 60 miliardi in tre anni (sic!), e contemporaneamente
annullare gli effetti della carbon tax, per l’attuazione di un programma sul
clima. Nella primavera del 2001 l’Agenzia nazionale per l’Ambiente (Anpa) ha
affermato che nel 1998, ultimo dato disponibile, il nostro paese sfiorava del
4,5%, con punte del 6,3% nell’emissione del più importante gas “di serra”:
l’anidride carbonica. “Nelle varie componenti del Piano - scrivono
Legambiente e Wwf - negli interventi specifici e settoriali, gli obiettivi di
sostenibilità ambientale appaiono fortemente ridimensionati o addirittura
assenti, incapaci quindi di influenzare in modo trasversale le diverse strategie
del Pgt, o comunque in forte ritardo rispetto allo stato di avanzamento delle
elaborazioni specifiche”.
Il punto di rottura di questo delicatissimo equilibrio
potrebbe arrivare da due processi ormai maturi: la tendenza alla
deurbanizzazione e orizzontalizzazione delle città e l’esplosione dell’e-commerce.
Il nobel per l’economia Leontieff aveva previsto un aumento del traffico
intracomunitario dalle 8.5 mld tonnellate dell’89 alle 17 mld tonnellate nel
2005. Ebbene quel livello è stato raggiunto già nel 2000. I trend previsti di
aumento del commercio mondiale, ed in particolare dell’Europa, il
moltiplicatore del trasportato rispetto all’aumento del Pil, stimano un
raddoppio del trasporto merci ed un aumento della mobilità delle persone del
50%. Lo stesso Piano generale dei trasporti prevede un’ipotesi di sviluppo
massimo del 36% del traffico a medio e lungo raggio, dato che prevedibilmente
sarà superato. Poiché il dato è medio, quale sarà l’aumento dei trasporti
nella pianura padana, o sulle tratte autostradali e ferroviarie dove già si
concentra gran parte del traffico? Uno studio della Bocconi prevede che i tre
milioni di pacchi che vengono consegnati annualmente nelle case degli italiani
diventeranno sei milioni nel 2003, mentre, stando al decreto Ronchi dovevano
dimezzarsi. L’auto e il trasporto su gomma stanno esaurendo la spinta
propulsiva, ma non c’è una alternativa che possa nascere spontaneamente. L’alternativa
è assumere una vera logica di sistema.
Insomma, siamo vicini al collasso. L’Italia, del resto, ha perso tutto quello
che c’era da perdere. Ha perso il “treno” della intermodalità, dei
sistemi alternativi, della cura del ferro e delle autostrade del mare. L’Italia
continua a pensare che in fatto di trasporti è la domanda a dover configurare l’offerta
e non il contrario, come vorrebbe il buon senso. È chiaro dietro non c’è un
semplice errore logico ma l’attuazione di un ben preciso disegno economico. C’è
l’idea di far diventare la mobilità non il principale fattore dello sviluppo
ma uno dei maggiori prodotti del consumo di massa.
Nella produzione il trasporto “rimane” un fattore di
sviluppo, ma soltanto perché, attraverso il just in time, le aziende eliminano
i costi di immagazzinamento. Ma attenzione, questo valore aggiunto non è un
valore aggiunto per il sistema, anzi. Sottrae alla collettività risorse perché
scarica costi. “Finora la domanda - dice il ministro dei Trasporti Pierluigi
Bersani - ha puntato solo a ridurre tariffe e costi. Al punto che, potrei dire
un po’ provocatoriamente, tutti gli incentivi all’autotrasporto, tutti i
bonus di questi anni passati, sono andati a ridurre i costi di trasporto per il
sistema industriale e a garantire la competività generale”.
L’Italia si trova ora in una situazione di emergenza e
quando uno non può scegliere c’è sempre qualcuno altro che cerca di
approfittare della situazione. Il quadro è fin troppo noto.
Ecco una scheda che servirà a puntualizzare i termini della
questione. In venti anni le auto nel nostro paese sono aumentate da 10 milioni a
30 milioni. Cosa “strana” in un paese stretto e lungo in cui gli spazi
urbani sono, comparativamente, beni molto più scarsi rispetto a città come
Londra o Parigi. Rispetto agli europei deteniamo addirittura il record di auto
per abitante (571 auto per 1.000 abitanti contro una media Ue di 435).
Nonostante questi numeri da vera e propria eccellenza il settore continua a
sfornare e a propinarci prodotti inquinanti e di bassa qualità seguendo la
logica che dove il mercato alloca beni di massa è meglio scaricare le scorie.
Soltanto ultimamente vi è stato un accordo tra Ministero dell’Ambiente e
Industria automobilistica che sancisce l’intenzione di ridurre i consumi medi
finali delle auto del 25%, e del solo 6% dei Tir, entro il 2001. Davvero poco in
confronto con quanto accade in paesi come la California dove l’obiettivo è la
vendita di almeno il 10% di auto ad emissione 0 entro il 2003. Risultato, il
costo derivante dall’inquinamento è stimabile in oltre 72mila miliardi e in
25mila quelli da rumore. Il costo derivante dagli incidenti per mortalità e
infortunistica è di 42mila miliardi. Complessivamente aumenta il tempo che
trascorriamo in auto, circa 2 ore e mezza al giorno, e diminuisce la velocità,
circa 50-55 km/h. Questo dei costi è un capitolo abbastanza importante nell’economia
di ragionamento proposto da questo articolo. Insomma, nonostante le cifre da
vera e propria emergenza l’impostazione prevalente è quella di considerare il
settore dei trasporti un mercato e non un sistema. Ma può essere considerato
mercato un luogo in cui vengono messe in discussione “misure” di beni comuni
come l’ambiente, il tempo, la stessa integrità complessiva del sistema, la
mobilità degli individui? E poi, è un mercato un luogo in cui in realtà non c’è
alcuna possibilità di scelta? Il modello autostradale, in cui si paga per
entrare in un circuito chiuso dove c’è un’alta possibilità di rimanere
bloccati, calza perfettamente come metafora della situazione. Attenzione, però,
al “gestore” dell’autostrada non importa che voi rimaniate imbottigliati o
meno perché in realtà una alternativa vera non l’avete. Si tratta di sfidare
la sorte. E in ogni caso, che esca testa o croce l’unico a guadagnarci è lui.
Ciò dimostra quanto poco valore abbia un calcolo del Pil
meramente quantitativo, e come questa modalità di calcolo sia distorsiva
riguardo alla rappresentazione dell’effettivo benessere dei cittadini e della
qualità di una società. Un modello di trasporto ambientalmente e socialmente
sostenibile abbasserebbe paradossalmente il Pil. Trasporti, Pil e qualità della
vita vanno in senso opposto, quindi. È sufficiente analizzare lo studio di
Confitarma e Amici della terra che ha messo a confronto i costi esterni di nave,
treno e Tir su alcuni percorsi. Ad esempio, sul tratto Gioia Tauro-La Spezia una
nave di grandi dimensioni sostituisce 1.800 Tir e 900 carri Fs con costi finali
di 289 milioni per la nave, 2.539 per il ferro, 2.376 per i Tir. Sempre nel
medesimo studio vengono efficacemente sintetizzati gli effetti negativi e
perversi della mancata internalizzazione dei costi: falsificazione della
competitività fra i vari sistemi di trasporto, aiuto alle tendenze irrazionali
della mobilità, penalizzazione dei prodotti e i servizi più sostenibili,
riduzione della produttività e l’efficienza delle risorse, impoverimento
delle risorse ambientali, alterazione dell’allocazione delle risorse
pubbliche. Insomma il business dell’immobilità rende. Ogni modalità viene
affrontata per quello che è nella sua settorialità a scapito di una visione di
sistema, che poi, alla fine, è quella che fa veramente risparmiare sui costi.
Anche qui un’altra metafora, quella dell’Alta velocità, serve a rendere
più chiaro il concetto. L’Alta velocità, infatti, non solo non tocca un
porto o un aeroporto ma gli stessi agglomerati urbani che tocca sono attualmente
sprovvisti di un interscambio tale da assorbire l’impatto di quelli livelli di
velocità. L’aumento dei trasporti è sempre inteso come indicatore di
progresso e di benessere. Ma come da tempo è dimostrato che non vi è più
relazione fra aumento della produzione e aumento dell’occupazione e del
benessere, così sta diventando sempre più chiaro che non vi è relazione fra
aumento dei trasporti e benessere collettivo. E nonostante questo le politiche
di aiuti ai trasporti sia tramite gli investimenti, in particolare per il
traffico su gomma, che gli incentivi fiscali di varia natura, l’enorme
esternalizzazione concessa a scapito della collettività e dei beni pubblici,
sono state un aiuto diretto a questo modello economico che ha privatizzato i
profitti e reso pubblici i costi. Ed è sempre più così. Negli ultimi 20 anni
il valore aggiunto del settore è passato dal 4.8 al 6.2 del Pil. Ogni famiglia
italiana spende circa il 10,5% del proprio reddito in trasporto. I trasporti
valgono un 10/15% del costo finale delle merci. Nei trasporti lavorano oltre un
milione di addetti cui va aggiunto il settore manifatturiero.
In un contesto simile le opere pubbliche assumono un rilievo
tutto particolare. E qui entrano in scena i nuovi democristiani, quelli che
pensano di utilizzare i soldi di tutti per costruire le loro fortune politiche.
Per esempio, per le strade si prevedono la pedemontana lombarda e veneta, la
Milano-Brescia, l’integrale raddoppio della variante di valico: tutte scelte
che danno risposte ad una domanda concentrata aumentando lo squilibrio modale.
Quando si discute di collasso del sistema trasportistico gli
esperti, tipicamente, presentano e discutono due soluzioni, viste come
alternative: una che punta al potenziamento della rete stradale, l’altra che
vuol favorire l’uso di modi di trasporto alternativi. L’esperienza di tutti
i paesi sviluppati mostra con sufficiente evidenza almeno due fatti:
innanzitutto che l’azione generalizzata sulle infrastrutture porta a
soddisfare una maggior domanda di trasporto ma non elimina affatto la
congestione e in secondo luogo (purtroppo) che le politiche di trasferimento
modale sono costose, difficili da realizzare e di limitata efficacia. La “variante
italiana”, rispetto agli altri paesi europei, come la Germania e la Francia,
ha sempre insistito sulla prima. Non certo perché più economica, ma perché
maggiormente utile nell’ambito di tutta una serie di mediazioni necessarie tra
la classe dirigente politica e quella economica. Basti pensare, ad esempio, il
ruolo che hanno avuto e che continuano ad avere nel sistema delle tangenti.
Ad ogni campagna elettorale si torna a dire che il deficit
infrastrutturale italiano è grave ed è urgente colmarlo, viste anche le
previsioni di aumento della “domanda” di trasporto nei prossimi dieci anni.
Da una recente ricerca, condotta dalla Trtt di Milano per conto della
Commissione tecnica per la spesa pubblica, emergono alcuni casi, esemplificativi
di una più vasta fenomenologia, che devono spingere a qualche riflessione. Ne
citeremo soltanto uno, quello più macroscopico. Selezionando solo le tratte
autostradali il cui grado di utilizzazione non supera il 40% della capacità
oraria nel tronco più carico e nell’ora di punta, si ottengono circa 650
chilometri di autostrade. Poiché una strada statale di buon livello di quattro
corsie, con svincoli, costa circa 15 miliardi in meno a chilometro rispetto a un’autostrada,
la costruzione di 650 chilometri di strade statali al posto delle
sottoutilizzate autostrade avrebbe comportato un risparmio dell’ordine di
10mila miliardi. Lo studio prende in esame altri esempi di spreco macroscopico:
le costruende linee ferroviarie Bari-Taranto e Torino-Milano (alta velocità), l’ampliamento
e la ristrutturazione dell’aeroporto Marco Polo di Venezia. “In tutti gli
esempi menzionati - sottolineano Andrea Boitani e Marco Ponti - la distorsione
nell’uso delle risorse pubbliche è fortemente sospetta. E si tratta solo di
esempi”. In questi come in altri casi non risulta sia stata effettuata alcuna
valutazione dei benefici e dei costi sociali delle opere. E, non essendo stata
fatta una simile valutazione, non si è fatto neppure un confronto con il “valore”
di altre opere, e di altre modalità di trasporto, quindi, e non si sono scelte
quelle dal “valore sociale” più elevato. La cosa “curiosa” è che nei
programmi elettorali di entrambi i poli sembra figurare ai primissimi posti,
vedi lo show di Berlusconi davanti alla cartina dell’Italia nel programma di
Bruno Vespa, il proposito di imprimere nuovo impulso agli investimenti
infrastrutturali. Tra questi un posto di rilievo è occupato dalle
infrastrutture di trasporto.
In un contesto di questo tipo in cui non solo manca un’idea
di sistema ma ogni singola modalità mostra di aver esaurito tutte le
potenzialità specifiche arriva il grande business della privatizzazione, altra
grande invenzione del ceto politico. Sia chiaro, non si arriverà mai ad una
situazione di completa privatizzazione. La mano pubblica sarà sempre presente
ma non con una presenza di tipo politico e programmatorio bensì con il precipuo
compito di intervenire per “correggere” gli eccessi. L’unico fattore che
le privatizzazioni potranno aggredire per tentare di vincere la scommessa sarà
il costo del lavoro sia sul lato dei diritti sia sul lato dell’occupazione. E
su questi la “mano pubblica” sta dando più che una semplice spinta. Così
la spiega l’attuale ministro dei Trasporti Bersani: “Il contratto di
riferimento per il settore delle ferrovie va fatto, è la strada giusta per dare
continuità al processo di liberalizzazione”. Nel Piano generale dei trasporti
e della logistica si legge che a fronte di una dinamica delle retribuzioni
contrattuali sostanzialmente allineata all’industria fra il 1984 e il 1990 l’ammontare
del costo del lavoro nei trasporti è stato “molto superiore” a quello dell’industria.
In particolare i dati riportati nel Pgtl mostrano come il costo del lavoro nei
trasporti sia di circa il 22% superiore a quello dell’industria, “e come il
gap sia rimasto invariato durante tutto il periodo 1990-1995”. “Date le
attuali linee di tendenza del mercato dei trasporti - è scritto nel Pgtl - è
legittimo attendersi un graduale riassorbimento di tale “devianza” dei
trasporti, sotto il profilo dei costi e della gestione delle risorse umane,
nonché dei livelli di conflittualità. Tale riassorbimento non sarà tuttavia
spontaneo, ma dovrà essere guidato dai gestori dei servizi di trasporto, che
saranno obbligati a confrontarsi in misura crescente con la concorrenza nel
quadro di una progressiva riduzione dei flussi di risorse pubbliche. Ciò
comporterà una profonda riconsiderazione dei modelli organizzativi ed una
riduzione dei divari retributivi”. I Governi dell’ultimo periodo hanno
affrontato la situazione dei trasporti attraverso una liberalizzazione e una
privatizzazione spinta, tesa innanzitutto a demolire la forza contrattuale che i
lavoratori del settore avevano accumulato in anni di lotta e per questa via
perseguire l’abbattimento del costo del lavoro, più orario e meno salario, e
forme sempre più spinte di deregolamentazione, cosiddetta flessibilità. Così
è accaduto e sta accadendo nei porti come negli aeroporti, così si sta facendo
nel settore ferroviario anche attraverso lo spezzatino Fs. È la stessa Unatras
(associazione degli autotrasportatori), infine, a dire che nell’autotrasporto
“soccombono le aziende grandi che hanno costi insopprimibili e rimangono le
più flessibili che grazie all’autosfruttamento abbattono i costi di quelle
più struttura.