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Sergio Bonetto
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Legge 134 del 29.03.2001, G.U. n° 92 del 20.04.2001

La truffa gratuita

Sergio Bonetto

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Tra gli ultimi provvedimenti approvati dal Parlamento prima del suo scioglimento vi sono le “Modifiche alla legge 30 luglio 1990 n. 217, recante istituzione del patrocinio a spese dello Stato per i non abbienti”.

La legge è stata approvata in via definitiva dal Senato il 28 febbraio 2001, entrerà in vigore il 1° luglio 2002 ed è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 20 aprile 2001 con il n° 134.

Si tratta, apparentemente, di un provvedimento destinato a rendere possibile alle fasce di cittadini più indigenti l’esercizio dei propri diritti nei processi senza doversi sobbarcare, come è oggi, costi preventivi così elevati da scoraggiare chiunque non disponga di redditi più che consistenti.

La legge è, comunque, un esempio di quello che la maggioranza di Governo intende per “progressismo”: non si affermano dei diritti ma si dà, a chi riesce a dimostrare, con percorsi burocratici macchinosi, di essere in condizioni particolarmente penose, la possibilità di ottenere dallo Stato un’anticipazione per coprire le spese legali di avvocati che, volontariamente, si iscriveranno in un apposito elenco.

È la mensa dei poveri. Potranno accedere alla refezione tutti coloro il cui reddito familiare, sulla base della dichiarazione dei redditi, non supererà i diciotto milioni annui lordi.

A parte gli evasori totali, cioè, potranno ottenere il “beneficio”, se ci riusciranno, i soli pensionati al minimo, a patto di non essere conviventi con qualche privilegiato come, ad esempio, un cassaintegrato a zero ore.

Nella logica di questo Governo la famiglia è veramente la cellula della società: per andare davanti ad un Giudice e tentare di far valere propri diritti si debbono impegnare i redditi di tutti i componenti del nucleo familiare.

Potrebbe sembrare che non siamo mai contenti; che ci ostiniamo, in nome di principi superati, a pretendere, contro ogni buon senso, che la politica serva a affermare dei diritti che valgano per tutti e non a dispensare elemosine al singolo povero, o presunto tale in base alla sua dichiarazione dei redditi.

In fin dei conti, prima del provvidenziale e caritatevole intervento della maggioranza lo stesso “beneficio” era riconosciuto, solo nei processi penali e non anche in quelli civili o amministrativi, a chi disponeva di un reddito familiare (sempre lordo) non superiore ai dieci milioni e non, come oggi, diciotto.

Il passo in avanti è notevole. Bisogna smettere di criticare sempre e comunque, per partito preso, chi fa del bene ai poveri.

Il fatto è che ci siamo abituati a cercare di capire le cose che succedono ed a verificare da dove provengano i soldi utilizzati per fare le elemosine.

Abbiamo da tempo il sospetto che ai “loro poveri” gli elemosinieri tengano talmente da fare il possibile per aumentarne il numero.

Nel nostro caso dove vengano presi i soldi ce lo dice l’art. 23 della nuova legge.

Anzi, lo stesso articolo ci fa capire che intenzione del Governo (e, oggi, questa è la legge pubblicata) è quella di ottenere, in cambio del “patrocinio a spese dello Stato” per i non abbienti, una valanga di miliardi direttamente dai lavoratori dipendenti e dai pensionati.

Ci spieghiamo meglio.

Come sa chiunque abbia avuto a che fare con l’amministrazione della Giustizia, i costi dei processi sono spesso elevati.

Questi costi si possono dividere, per intenderci, in tre grandi categorie: i costi di avvocato (pagamento del lavoro dell’avvocato), i costi vivi (spese per i periti, eventuali visite mediche ecc.) e spese di giustizia, le somme, cioè, che lo Stato richiede per fornire il “servizio” giustizia.

Queste ultime spese assumono denominazioni diverse (bolli, iscrizioni a ruolo, notifiche, registro ecc.), vengono in larga parte anticipate e sono, in termini molto generali, proporzionali al valore, alla complessità e alla durata della causa.

Facendo una valutazione prudenziale, le sole spese di giustizia, per una causa di valore modesto e non troppo complicata, raggiungono le 600.000 lire.

Applicando un principio di civiltà previsto dalla nostra Costituzione, nel corso degli anni, sono state introdotte, per particolari tipi di cause, esenzioni dal pagamento di queste spese.

Le esenzioni riguardavano il diritto di famiglia, il contenzioso sull’equo canone e, soprattutto, le cause di lavoro e quelle previdenziali. In sostanza il lavoratore o il pensionato (pubblici e privati), indipendentemente dal reddito familiare, dal 1973, poteva “permettersi” di fare causa al proprio datore di lavoro o all’ente previdenziale senza, preventivamente, pagare una serie di “tasse” che invece dovevano essere pagate da chi, lavoratore dipendente o no, promuoveva (o subiva) cause per motivi extralavorativi.

Era il principio della “gratuità del processo del lavoro” che, più volte, è stato confermato dalla Corte Costituzionale e che ha permesso, sino ad oggi, di contenere i costi delle azioni giudiziarie in tutela dei diritti dei lavoratori.

Non bisogna dimenticare che il grosso delle cause riguardano la richiesta di riconoscimento di diritti elementari sicuramente tutelati dalla nostra Costituzione: impugnazioni di licenziamento, mancato pagamento di tutta o parte della retribuzione, pagamenti inesatti o mancati di pensioni, insinuazioni in procedure fallimentari per ottenere il pagamento di salari e TFR ecc.

Era un diritto, quello della gratuità del processo del lavoro, che seppur parzialmente applicato, in quanto l’esenzione riguardava, appunto, la sola quota “fiscale” delle spese. sembrava essersi consolidato.

Invece no.

La maggioranza con una mano ha “dato” ai più indigenti, quelli con reddito familiare lordo inferiore ai diciotto milioni, la gratuità per tutti i tipi di cause, con l’altra ha cancellato il diritto, sino ad oggi riconosciuto a tutti i lavoratori e pensionati, di agire nelle cause di lavoro senza pagare tasse e balzelli.

Con l’articolo 23 della nuova legge, infatti, tale diritto è stato semplicemente espressamente e sbrigativamente abrogato. Senza alcuna eccezione.

D’ora in poi il lavoratore licenziato, per poter discutere davanti ad un Giudice sulla legittimità del proprio licenziamento, dovrà, preventivamente, “pagare il giusto”.

Altrettanto l’invalido al 100% che chiede gli sia riconosciuta l’indennità di accompagnamento.

Entrambi, per potere anche solo avviare l’azione giudiziaria, dovranno pagare L. 600000, oltre alle spese successive.

Allo stesso modo il lavoratore licenziato la cui impresa sia fallita e che richiede al tribunale fallimentare il riconoscimento delle retribuzioni arretrate e del trattamento di fine rapporto, dovrà pagare le tasse dovute per “il servizio”.

È semplicemente vergognoso, tanto in termini di principio che in concreto. L’operazione, infatti, non solo evidenzia l’inaccettabile tendenza a sostituire ai diritti le elargizioni più o meno discrezionali (in quanto anche la gratuità per i più bisognosi viene vagliata e decisa, caso per caso, da una apposita commissione), ma pure rischia di essere vantaggiosa per i “conti pubblici” e per le imprese.

Tassando, infatti, i lavoratori e i pensionati che promuovono azioni giudiziarie si ottengono una serie di risultati “interessanti”.

Innanzi tutto, nell’immediato, si otterranno, per il fisco, entrate di molte volte superiori rispetto a quanto si prevede di spendere per la tutela dei non abbienti.

I lavoratori e i pensionati, cioè pagheranno molto di più di quanto lo Stato prevede di spendere per la tutela giudiziaria dei “beneficiati” dalla nuova legge.

In secondo luogo il pagamento certo e preventivo di quanto dovuto allo Stato renderà più difficile per i lavoratori fare valere i loro diritti.

È ovvio, infatti, che il lavoratore, affrontando un problema di tutela giudiziaria, dovrà, preliminarmente, stanziare, a fondo perduto, somme non indifferenti; con la conseguenza che i diritti saranno rivendicati solo quando “ne vale la pena”.

Solo quando, cioè, vi sarà l’assoluta certezza di ottenere un risultato favorevole e cospicuo.

In tutti gli altri casi diventerà più conveniente lasciar perdere, in quanto si rischierà di spendere più di quanto si ricava.

E così le piccole, per il singolo, ma grandi, se rapportate ad un gruppo consistente di lavoratori, illegittime decurtazioni di retribuzione saranno praticamente senza conseguenze per le imprese, in quanto nessuno, o quasi, si farà avanti per rivendicare i propri diritti.

Bel risultato per chi dichiara di voler tutelare i “non abbienti”. Gli unici a guadagnarci saranno gli imprenditori scorretti.

C’è da augurarsi che questa “riforma” non passi inosservata e si apra un dibattito forte che porti ad una mobilitazione dei consigli di fabbrica e delle organizzazioni sindacali dei lavoratori.

E ciò anche perché la brillante iniziativa della maggioranza rischia, altrimenti, di diventare un “delitto perfetto”.

È infatti noto che non possono essere sottoposte a referendum abrogativo leggi in materia fiscale; e ci sono fondati motivi per supporre che ci si trovi di fronte a questo tipo di norme.

Per cui l’abrogazione di questa “riforma” potrà venire soltanto o da un’iniziativa parlamentare o da un intervento della Corte Costituzionale che, però, per vari motivi, non potrà intervenire sulla questione prima di due-tre anni.