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La transizione difficile

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Alessandro Mazzone
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Professore di Filosofia della Storia, Università di Siena

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La posta in gioco nell’Università

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Ma intanto, già qui si vede che il principio dell’infinità della ricerca, e quindi dell’Università come luogo della formazione di ricercatori, nella continuità delle generazioni, e quindi nella classica “unità di ricerca e insegnamento” (che esiste tuttora in ogni buon centro universitario di ricerca) - si vede, dico, che questo principio vale per il laboratorio come per l’archivio e la biblioteca “umanistica”. Vale per il chimico, il biologo, lo storico, il filologo, ovviamente con strumenti di lavoro diversi, ma restando e operando come identico principio della ricerca-e-critica infinita, del superamento nel contesto (che è il contrario della relativistica opinabilità!) di ogni risultato via via raggiunto.

Questo vale, beninteso, se il fisico come il matematico come il filologo come il filosofo sono davvero ricercatori. Se non è così, se si tratta di individui che usano le abilità apprese per cercarsi una nicchia di potere, onorificenze, compensi, ebbene, essi possono ovviamente “stare” nelle Università de facto, e ne pervertono la natura mentre ne sfruttano le strutture. Questi individui e gruppi ci sono. Essi possono servire i potenti dell’industria (farmaceutica, per es.); o della politica dipensiera di fondi; o ancora, cavalcare una moda intellettuale senza altra ambizione che “emergere” nel caleidoscopio delle “relazioni pubbliche” moderne, diventare opinion leaders. (Le forme del “tradimento dei chierici” sono mutate e diversificate dai tempi di Julien Benda...). Il senso comune tende a non accorgersi di questi slittamenti di individui e gruppi accademici verso una funzione del tutto diversa dalla ricerca della verità; e gli slittamenti vengono camuffati. Ma c’è di più: il senso comune tende a scambiare “sapere”, che se è “sapere” è universale per sua natura, e sta nel moto infinito della ricerca, con “saper fare certe cose” (le c.d. “competenze”, termine prediletto degli attuali antiriformatori della scuola e dell’Università); e per questa via finisce a piegarsi rassegnato all’assurdità, che i “signori professori” sono appunto - signori, come dice il linguaggio popolare italiano. Cioè, un’altra variante dei potenti, dei padroni. E per ogni volta che tocca nel segno, il senso comune ha mille volte torto: perché così, come “l’idea della veracità non diventerebbe falsa anche se tutti mentissero” (Kant), così anche l’idea dell’Università, del luogo della ricerca della verità, della sua “utilità” sociale proprio perché disinteressato, della sua indipensabilità per una vita collettiva moderna e libera, questa idea non diventa “falsa” per il fatto che, in determinate condizioni storiche, le Facoltà universitarie diventano ricche di profittatori, di sicofanti del potere e di giullari delle mode culturali.

Per questo il senso comune rassegnato, ma talvolta anche la denuncia “di sinistra”, hanno mille volte torto: perchè mettono in ombra il punto essenziale, quello di cercar di capire in quali, determinate condizioni storiche l’Università si perverte e rinsecchisce (come è nella sua storia: dopo la grande fioritura del tardo Medioevo, a cui molte venerande istituzioni universitarie notoriamente risalgono, non nell’Università prosperarono l’Umanesimo né il Rinascimento né la nuova scienza!)

Quelle condizioni storiche vanno indagate, e ovviamente son diverse di epoca in epoca, talora di Stato in Stato. Nell’età contemporanea sono sempre, però, condizioni in cui l’idea dell’Università, della ricerca infinita della verità e della formazione di ricercatori attraverso le generazioni, nella ricerca-insegnamento-ricerca, è rimessa in forse; e lo è, sempre, anche se in modi e congiunture diverse, da forze sociali cui non sono, non possono essere accetti il principio della ricerca infinita, dello spirito critico, e neppure dell’indispensabile contributo che essi apportano al formarsi di una consapevolezza, nei cittadini, della loro res publica, della loro società, del loro Stato. (È fin troppo chiaro, sia detto di passaggio, che senza una tal consapevolezza non solo diffusa, ma attiva, operante, progrediente, la res publica, la società, lo Stato NON sono “loro”, cioè “dei cittadini”, se non per modo di dire, o per finzione - una finzione che, nei tempi moderni, è diventata indispensabile ai potenti).

Bisognerà pur cercare di capire perché il nome vuoto di “democrazia” è indispensabile alla tirannide, oggi: non era così nel Medioevo, nello ancien régime, e neppure, in sostanza, nell’epoca borghese-liberale, senza suffragio universale e senza “Stato del benessere”. Ma oggi! Immaginate per un momento che tutti noi, cittadini italiani, sapessimo e potessimo fare, e facessimo, i cittadini per davvero, cioè davvero volessimo nel senso pieno, con impegno e perseveranza, e senza paura, la nostra Repubblica, come è nei principi della nostra Costituzione. È evidente che, in una tale ipotesi, l’avremmo subito, la “Repubblica democratica fondata sul lavoro”, il cui compito [permanente] è “rimuovere gli ostacoli” che si frappongono all’eguaglianza reale dei cittadini, con tutto quel che ne segue. Non ci sarebbe “nessuno” per impedircelo, o un’infima minoranza, data l’ipotesi. Ci metteremmo subito all’opera per perfezionare l’edificio, realizzare i sempre nuovi compiti ulteriori... - Ma una tale vera, fattiva, attuante “volontà” di tutti “noi”, “cittadini” per davvero, non è pensabile senza consapevolezza, spirito critico, trasparenza universalmente diffusi. Altre condizioni occorrerebbero ancora? Certo. Questa però, se pur non sufficiente, è condizione necessaria).

3. Ma torniamo all’Università. A che “serve” l’Università come luogo, non “delle scienze”, ma “della scienza”, della ricerca infinita? E chi può mai non volerla?

Orbene: proprio qui viene a galla quale è la posta in gioco oggi. Vediamo.

Primo. L’Università, che si realizzi secondo il suo principio, serve a produrre, riprodurre, ampliare costantemente l’ambito dello spirito critico. Innanzitutto nei suoi membri, certo; ma con ciò, per tutta la comunità, e tanto più, in quanto la sua attività è attività di ricerca disinteressata. Qui torna l’aspetto della discussione rigorosa di quel che è nello spirito pubblico, che non è e non può essere confronto politico, ma opera perché il dibattito politico sia politico davvero, sia cioè riferito a entità razionali, discutibili, oggettivabili in progetti per il corpo politico intero, con i pro e contro. (Senza di questo, e lo vediamo fin troppo bene in questi anni, non c’è “politica” se non nel senso dell’aggiustamento di gruppi tra i dominatori, e dello spettacolo esterno offerto ai dominati. Questa “politica-spettacolo”, che con le “cose serie” notoriamente nulla a che fare, è poi una versione moderna, e tecnicamente modernissima, dell’antico panem et circenses offerti alla plebe romana, quando divenne appunto miserabile e feroce plebaglia, campo di reclutamento di faziosi talvolta, soggetto politico mai più).

Secondo. Vi è però un altro servigio che l’Università vera, conforme alla sua idea, il luogo della ricerca infinita e disinteressata, della autoformazione dei ricercatori e dell’avanzamento della scienza, rende alla collettività. Questo servigio, che può esser reso solo alla condizione inderogabile della ricerca disinteressata, è indispensabile a causa della presenza delle scienze nel mondo moderno. Questa presenza è crescente ogni giorno, oggetto di cieca ammirazione e viscerali timori. Ammirazione ignorante e timori irrazionali che sono entrambi “utili” a chi vuol piegare la scienza a fini particolari, di guadagno e di potenza, che “devono” restare nascosti dietro vaghi discorsi e manipolabili emozioni. Per capire il servigio che l’Università rende, nel mondo della scienza moderna, bisogna anche rendersi conto del rapporto tra l’avanzamento scientifico e quella produzione permanente, per mille vie e rivoli, della consapevolezza civica, di cui si parlava, condizione irrinunciabile di ogni democrazia pensabile. Cioè chiedersi come sia possibile lo sviluppo e la promozione di tale consapevolezza, non in altre epoche e civiltà, ma nell’oggi, nel nostro mondo: che non è a sua volta pensabile senza la scienza.

4. Qui bisogna tornare un po’ indietro: cercheremo di farlo in breve.

In questo mondo moderno, la consapevolezza diffusa e operante della società in cui si vive, senza la quale (ripetiamolo) non ha senso parlare di “cittadini”, e di “democrazia”, non può avvenire grazie a una sintesi metafisico-religiosa come nel Medioevo cristiano europeo. Quella sintesi era nello stesso tempo teoria “del mondo” in generale, e rappresentazione di “questo mondo qui”, in cui ciascuno viveva, in cui c’è il bene e il male, il lavoro e l’ozio, la carità e la violenza - ma che in ogni punto, in ogni istante è, e resta parte coerente del “mondo vero”, cioè dell’Universo creato da Dio secondo la Sua indubitabile, attiva bontà e giustizia, e Dio è presente in ogni qui ed ora, già perché parla in ogni coscienza.

Una tal sintesi oggi non può operare. Non perché le religioni si siano “secolarizzate” (altra paroletta fuorviante). Non perché sia diventanto meno vero - tutt’altro! - che “una fede religiosa sinceramente sentita” può contribuire, nei suoi portatori, a difendere l’umanità dalla violenza che la minaccia e la invade, e certo non è solo bellica e atomica. Molto meno ancora a causa di quello che si fa credere (con una controeducazione pratica e diuturna) al povero Pierino relativista, che “vede” solo fatterelli e opinioni immediate, grezze, buttate avanti senza argomentazione razionale, e si raffigura il gran mondo a immagine e somiglianza di quel suo misero e sciocco particulare.

Si tratta di ben altro. Una sintesi come quella della civitas christianorum non può attuarsi praticamente, e dunque civilmente e politicamente, in un mondo essenzialmente non-statico, nel quale quel che valeva (in ogni campo, e innanzitutto conoscitivo) per i miei padri e antenati non può valere, è evidente, per me e i miei figli. Uno dei “motori” fondamentali di questo dinamismo, che cresce in momento e velocità, è - la scienza. (Non è il solo? Certo. Ma di scienza e scienze, e Università, trattiamo qui).

E allora? - Può la sintesi venire dalla scienza stessa? Si sa che questo fu un obiettivo cercato dal positivismo del secondo Ottocento. Quel positivismo, che Ludovico Geymonat chiamava, in un suo agile volumetto di storia del pensiero scientifico, “il rischio di trasformare la scienza in metafisica”. Ma non abbiamo bisogno di entrare, qui, nella storia della filosofia e delle idee. Ci basta tenerci al modus operandi della ricerca scientifica in generale: e al rapporto tra questa ricerca, l’Università come luogo della ricerca disinteressata, e la vita collettiva, o insomma la società tutt’intera.

Le scienze portano in luce ambiti di azione umana possibile. Sempre di nuovo, e sempre di più. Questo esse fanno come scienze, e non è poco! Lo fanno ininterrottamente, con estensione e rapidità crescente; lo fanno in tutto il loro processo, e ne offrono i risultati. Non di meno: e però, non di più.