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1. Il punto, la pratica, il progetto

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Arturo Salerni
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Associazione Progetto Diritti; Membro del Comitato Scientifico del Centro Studi Trasformazioni Economico-Sociali (CESTES) - Proteo

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Europa, i diritti, il movimento sindacale

Europa, i diritti, il movimento sindacale

Arturo Salerni

Con questo intervento intendiamo aprire la riflessione ed il dibattito - coinvolgendo innanzitutto le forze del sindacalismo di base ed indipendente - sull’influenza che il percorso di integrazione europea determina - e con ogni probabilità può determinare - sulle dinamiche delle battaglie e dell’organizzazione sindacale e sui processi di aggregazione e di iniziativa dei movimenti sociali che si battono per la difesa degli interessi e l’affermazione dei diritti delle classi meno abbienti.

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1. Un argomento appare difficilmente discutibile: ovvero che il processo di integrazione europea ha compiuto negli ultimi anni passi da gigante e tumultuose accelerazioni (non facilmente immaginabili anche poco tempo addietro) e che esso è destinato ad andare avanti, sia pure tra immense contraddizioni ed in modo non lineare, anzi tortuoso.

Non è possibile oggi prevedere i tempi, le modalità e gli sbocchi finali di questo percorso: quando e cosa si costruirà, quali saranno le aree del Vecchio Continente inserite nelle strutture dell’Unione Europea, che tipo di ordinamento verrà fuori, quale grado di contraddizione e conflitto il processo di integrazione innescherà con altre aree forti del globo, ed in primo luogo con gli Stati Uniti d’America, quanto questo elemento condizionerà forme e sviluppo della nuova entità europea.

Certo è che l’ingresso definitivo della moneta unica a partire dal gennaio 2002 - sia pure non in tutti i paesi che oggi costituiscono l’Unione Europea - costituirà un potente fattore di integrazione - anche “culturale” - che attraverserà un territorio vastissimo coinvolgendo centinaia di milioni di persone. Dobbiamo avere la lucidità di cogliere la grande portata di questo passaggio, dobbiamo riuscire a leggerne le possibili conseguenze sul piano degli assetti sociali ed i riflessi sul terreno dell’organizzazione e dell’azione sindacale.

2. Il processo di integrazione europea procede parallelamente all’intensificarsi di un fenomeno (che non è solamente italiano), ovvero quello dell’ampliamento nei confronti dello Stato nazionale centrale delle competenze delle entità regionali, locali e municipali.

In tal senso si collocano, ad esempio, il processo di devolution che ha caratterizzato la Gran Bretagna di Blair e la riforma costituzionale varata sul finire della precedente legislatura in Italia (riforma che all’inizio dell’autunno sarà sottoposta a referendum confermativo ai sensi dell’art.138 della Costituzione, ed ai cui contenuti abbiamo dedicato ampio spazio nei due precedenti numeri della rivista - n.3/2000 e n.1/2001).

Più in generale si può affermare che i processi di integrazione internazionale dei mercati e l’omologazione culturale che caratterizza questo scenario ha generato negli ultimi anni e continua a generare conflitti profondi - ed anche in alcuni casi particolarmente cruenti e sanguinosi - derivanti dall’arroccamento (spesso tinto da connotazioni reazionarie, fondamentaliste, xenofobe) nel localismo più esasperato, con una esaltazione acritica delle peculiarità culturali ed etniche - spesso inventate di sana pianta - e con una ricerca di sicurezza ed identità, che si pone da contraltare al terremoto prodotto dalla cosiddetta “globalizzazione”.

Ed un altro fenomeno si muove parallelamente: quello per cui la forza e lo spazio della politica, la capacità di governo “politica” dell’economia e dei fenomeni sociali, l’ambito della cosa pubblica cedono il passo di fronte alla forza dirompente, incontrollata, deregolata dei mercati, dei poteri economici e finanziari.

Il vecchio Stato che eravamo abituati a conoscere appare come assediato dalla globalizzazione dei mercati e della finanza, dalle regole imposte dai grandi potentati economici, dalla richiesta di spazi più ampi che viene dai municipi e dagli enti locali e regionali, dalla cultura del superamento del welfare, dall’insofferenza verso i “lacci e laccioli” con cui la sfera pubblica tende a condizionare il “libero” svolgersi delle dinamiche economiche e le “naturali” leggi del mercato, dalla riduzione del grado complessivo di rappresentanza degli interessi che la semplificazione del gioco democratico - il mix sempre crescente di principio maggioritario e presidenzialismo - tende a produrre.

3. La prima domanda che occorre rivolgersi è questa: ma la costruzione di uno Stato continentale (e, più esattamente, di una entità federale europea realmente forte ed incidente) è elemento che in qualche modo può contrastare il processo di deregulation globale, ovvero quel processo che i poteri economico-finanziari rivendicano come soglia di civiltà più avanzata? La risposta, ovviamente, non può essere semplicistica, perché in questo scenario convivono - e si intrecciano spesso contraddittoriamente - due fattori: da un lato l’esigenza del grande capitale in qualche modo legato al polo europeo di dotarsi di strumenti forti per condurre le proprie battaglie sul terreno della competizione globale e per contrastare l’egemonia statunitense (si pensi alla contrapposizione dell’euro al dollaro), dall’altro il tentativo di far sì che questo processo venga segnato da standards di partecipazione democratica e di contenuto sociale i più limitati possibili.

Certamente - sia pure in via teorica - si può affermare che l’esistenza di un potere pubblico forte (e forte anche in quanto rapportato ad un territorio adeguato rispetto ai processi di integrazione dei mercati) significa, o può significare, qualcosa d’altro - e di diverso - rispetto al processo iper-liberista che tende ad affermarsi su scala planetaria. Ma altrettanto sicuramente si può affermare che la qualità, il senso e la direzione di un forte peso del potere politico mutano in considerazione del grado di permeabilità di tale potere da parte della partecipazione dei cittadini, della democraticità delle sue istituzioni, della vivacità e visibilità di una reale dialettica politica, dell’esistenza di forme di conflitto sociale.

4. L’Unione Europea, l’Europa che sta nascendo, non appare certamente caratterizzata da livelli avanzati di partecipazione democratica. Essa invece è tutta segnata dal peso di una tecnocrazia completamente subalterna - sul piano ideologico e della produzione normativa - alla filosofia liberista ed al condizionamento dei “poteri forti”.

Sul piano istituzionale abbiamo un Parlamento - sia pur eletto a suffragio universale - che conta pochissimo, il potere diviso tra il Consiglio (espressione degli esecutivi dei quindici stati aderenti all’Unione) e la Commissione presieduta da Prodi (le cui direttive ormai incidono nella normativa dei paesi dell’Unione in termini di grande rilevanza e che sono sempre più segnate dall’imposizione del principio assoluto della “libera concorrenza”), un ruolo enorme - ed incontrollato - della Banca centrale. Inoltre su una serie vastissima di materie è richiesto il consenso unanime degli Stati aderenti (che tenendosi stretto il diritto di veto vogliono mantenere porzioni di sovranità nazionale): ciò rende lento e affannoso il processo di integrazione. Il peso dei tecnocrati europei - assolutamente svincolato da ogni controllo di tipo democratico - e la loro possibilità di imporre regole aventi portata di carattere generale rischia in questa situazione di diventare incontrollato.

5. A Nizza - sul finire dell’anno 2000 - è stata approvata dai governi dei paesi aderenti la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea. Sulla vincolatività della Carta si è molto discusso, senza arrivare a conclusioni certe. Ma l’esistenza stessa della Carta ha comunque un significato ed un valore, perché in essa sono contenuti alcuni principi che non possono essere violati dai paesi aderenti all’Unione Europea e dagli altri paesi che in essa aspirano ad entrare (Slovenia, Estonia, Lettonia, Lituania, Slovacchia, Polonia, Ungheria, Romania, Repubblica Ceca, Cipro, Turchia, Malta, Bulgaria).

La Carta contiene, oltre ad un preambolo ed ad una parte dedicata a disposizioni generali, distinti capi così titolati: Dignità, Libertà, Uguaglianza, Solidarietà, Cittadinanza, Giustizia. Sul valore e la portata (innovativa o regressiva) della Carta si è ampiamente discusso prima di Nizza ed in occasione dei dibattiti parlamentari che hanno preceduto nei diversi paesi il vertice europeo. Non è in questo spazio che intendiamo aprire il dibattito sulla specifica questione del contenuto della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea. Va soltanto ricordato che - a mente dell’art.53 della Carta - “nessuna disposizione della presente Carta deve essere interpretata come limitativa o lesiva dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali riconosciuti, nel rispettivo ambito di applicazione, dal diritto dell’Unione dal diritto internazionale, dalle convenzioni internazionali delle quali l’Unione, la Comunità o tutti gli Stati membri sono parti contraenti, in particolare la convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, e dalle costituzioni degli Stati membri”.

Per ciò che concerne i diritti dei lavoratori, sia pure nelle forme spesso vaghe, generiche e sfuggenti utilizzate dai compilatori della Carta, il Capo IV della Carta enuncia tra le altre cose il diritto dei lavoratori e dei loro rappresentanti all’informazione e alla consultazione nell’ambito dell’impresa (art.27), il diritto di negoziazione e di azioni collettive (la formula usata dall’art.28 appare sicuramente debole, con la formulazione del diritto “di ricorrere, in caso di conflitti di interessi, ad azioni collettive per la difesa dei loro interessi, compreso lo sciopero”), la tutela in caso di licenziamento ingiustificato (art.30) ed il diritto a condizioni di lavoro giuste ed eque (art.31), il divieto del lavoro minorile (art.32), il diritto di accesso alle prestazioni di sicurezza sociale e ai servizi sociali (art.33, di cui va richiamato in particolare il terzo comma che afferma: “Al fine di lottare contro l’esclusione sociale e la povertà, l’Unione riconosce e rispetta il diritto all’assistenza sociale e all’assistenza abitativa volte a garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongano di risorse sufficienti”).

6. Poste queste sintetiche premesse e svolti i richiami ad alcuni passaggi ormai verificatisi, dobbiamo porre a noi stessi (centri studi, sindacalismo di base, aree del pensiero critico, associazionismo democratico) altre domande ed aprire su questi interrogativi - che ormai non è più possibile eludere - una discussione anche aspra ma necessariamente approfondita.

* Sono indifferenti i modi e le circostanze attraverso cui nasce un nuovo organismo statale (sovranazionale) per coloro che si organizzano per la tutela dei diritti del lavoro e per l’affermazione dei diritti sociali?

* È concepibile mantenere l’orizzonte delle lotte rivendicative (sul piano normativo e retributivo) dentro i confini dello Stato nazionale?

* La determinazione degli standards delle prestazioni sociali
 con riferimento al quadro che si delinea ed all’accentramento di alcuni poteri in mano ad istituzioni europee - può avvenire, ed abbiamo interesse che avvenga, nell’ambito dei singoli paesi dell’Unione?

* L’affrontamento di alcune questioni di grande rilevanza sociale - si pensi per esempio alla questione dei diritti dei migranti o l’istituzione di forme di Reddito Sociale Minimo - può ormai prescindere dallo scenario europeo?

Le risposte che verranno a queste domande, o a domande simili, determineranno la fissazione degli obiettivi e le modalità di svolgimento del movimento sindacale, ed in particolare dell’esperienza - che in Italia ha un tratto peculiare - del sindacalismo di base.

7. Alcune considerazioni - a nostro avviso - possono essere da subito sviluppate, e su esse sarà bene da subito sviluppare il dibattito, esplicitare il dissenso, fornire apporti costruttivi.

È interesse del mondo del lavoro che si costruisca un quadro istituzionale “democratico” del nuovo soggetto sovranazionale.

Dire NO all’Europa dei banchieri e dei grandi potentati economici significa innescare un movimento per una “costituzione europea”, ovvero un movimento per la costruzione di un sistema costituzionale, che fissi un insieme di diritti che il legislatore europeo e le legislazioni degli stati nazionali non possono in alcun modo violare.

Ovvero, occorre andare al di là delle carte dei principi e del sistema dei trattati.

Si tratta - è questo il punto - di andare alla fissazione dei principi propri di un sistema costituzionale avanzato, che parta dalle enunciazioni più significative contenute nelle costituzioni europee, e non certo di accontentarsi della determinazione di un standard minimo. Si tratta di battersi per coniugare i diritti di matrice liberale classica con i diritti a contenuto sociale affermatisi con le costituzioni del secondo dopoguerra.

Costruzione di un sistema costituzionale europeo significa fissazione di principi e delineazione di un ordinamento in cui innazitutto il potere legislativo sia affidato ad una assemblea parlamentare eletta dai cittadini con un sistema elettorale che garantisca la rappresentanza delle diverse istanze presenti su un territorio così vasto come quello dell’Unione, ma anche - ad esempio - che il governo sia eletto dal Parlamento e che ad esso risponda, che esista un organo di giustizia costituzionale, che si realizzi un sistema giudiziario indipendente, che sia garantito un grado di autonomia per le realtà regionali e locali di cui il territorio europeo si compone.

Oggi - nella disarticolata e poco democratica costruzione dell’Europa, nel perdere di peso degli stati nazionali, nel disordinato e contraddittorio espandersi del potere delle autonomie locali - manca il luogo della mediazione del conflitto e della determinazione delle politiche complessive di governo dei fattori economici e sociali. Lo spazio dello Stato nazionale è ormai inadeguato (come erano ormai inadeguate e ristrette le entità territoriali esistenti a metà dell’ottocento prima dell’unità italiana o dell’unità tedesca, a fronte dell’affermarsi di un mercato nazionale), la sua capacità di governo e di distribuzione delle risorse ormai pressocchè inesistente, la sua politica fiscale, monetaria e di programmazione economica talmente condizionata dai vincoli imposti dall’esterno (e non solo dalla Banca Centrale Europea) da risultare simile a quella di un ente locale.

8. È evidente peraltro che i tempi ed i termini di un processo costituente, ove si determinasse in Europa una spinta democratica e sociale unitaria in tal senso ed una forza tale da spingere verso la costruzione di uno Stato costituzionale federale - nella reazione al sentimento di ineluttabilità di una globalizzazione iperliberista che uccide le possibilità della politica di governare e guidare, o comunque condizionare e correggere, i processi storici -, saranno comunque determinati dall’ampiezza e dai tempi dell’allargamento dei confini dell’Unione.

E qui si impone un altro difficile interrogativo: è nell’interesse di un eventuale movimento democratico-sociale per la costituzione europea l’allargamento ad Est dell’Unione (tale da comprendere anche gli stati dei Balcani e la Turchia)? La risposta non è certamente semplice, ma è indubitabile che l’affermazione di standards unitari - sotto il profilo dei diritti, delle prestazioni sociali e delle dinamiche salariali - che avvicinino i diversi paesi del vecchio continente può essere un elemento di contrasto alla politica di differenziazione delle condizioni normative e retributive del lavoro, e cioè a quella dinamica concorrenziale tra le condizioni di offerta del lavoro che determina una spinta al ribasso delle condizioni di vita complessive dei lavoratori subordinati e comunque eterodiretti.

9. Solo in un’Europa indipendente è possibile far vivere un processo di costruzione costituzionale nel solco della tradizione dell’affermazione dei diritti sociali (che non sono storicamente diritti concessi, ma sono stati conquistati - a prezzo di dure lotte, di aspri conflitti e di faticose mediazioni - dai movimenti democratici, sindacali e sociali).

Europa indipendente, e perciò anche democratica e sociale, vuol dire oggi soprattutto una cosa: la costruzione di un sistema libero dai vincoli imposti dall’alleanza atlantica. Ovvero la costruzione di un Europa con una propria politica estera, non condizionata dalla presenza delle basi militari americane e delle basi della Nato: perché è vero che un movimento verso un’Europa libera e sovrana viene impedito, condizionato, deviato dall’evidente interesse americano al mantenimento di un sistema integrato e di fatto piegato agli interessi economici e strategici degli Stati Uniti.

Il conflitto nei Balcani è stato l’ultimo esempio della pesante e nociva ingerenza degli interessi politico-militari degli U.S.A. in Europa.

L’autonomia nelle scelte è condizione indispensabile per imporre (almeno in parte) nuove politiche di pace tra i popoli, di cooperazione internazionale, a partire dall’area mediterranea, e di sviluppo sostenibile sotto il profilo sociale ed ambientale.

10. Se solo alcune delle considerazioni che abbiamo indicato corrispondono ad una lettura realistica del quadro attuale e se solo alcuni degli obiettivi che abbiamo indicato - come obiettivi che dovrebbero essere fatti propri dai movimenti democratici, sindacali e sociali - appaiono contrassegnati da una certa dote di realismo si pone come attuale la questione della contrattazione a livello europeo delle condizioni di lavoro. L’obiettivo dei contratti collettivi europei di lavoro va nel senso della difesa della capacità effettiva di acquisto dei salari e degli stipendi nell’epoca della moneta unica e dell’avvio - almeno con riferimento a paesi come l’Italia
 di una dinamica migliorativa dei trattamenti retributivi e previdenziali. È evidente il gap esistente tra le retribuzioni esistenti nel nostro paese e quelle riscontrabili nei paesi più forti dell’Europa ed è altresì evidente che - per usare il linguaggio dei commissari europei - tale dumping salariale genera condizioni di inquinamento della libera concorrenza tra produttori.

La battaglia per la contrattazione unica europea delle diverse categorie produttive e dei servizi deve - è questa una delle ipotesi che sottoponiamo alla discussione collettiva ed in primo luogo al dibattito del sindacalismo indipendente e di base - divenire progressivamente la bandiera in questa fase storica del movimento dei lavoratori.

Una scelta unitaria dei lavoratori europei si scontra innanzitutto con una grande difficoltà: molti settori, spesso tra i più determinati e combattivi, delle organizzazioni operaie, delle forze di sinistra, del sindacalismo e dell’associazionismo critico si schierano - nella scelta di combattere l’Europa liberista, quella dei parametri di Maastricht - nel campo dell’opposizione netta alla costruzione dello Stato federale europeo, per difendere i diritti acquisiti nelle legislazioni dei loro paesi, per proteggere una identità culturale, nazionale o locale che sia, minacciata dai processi di integrazione. Ed allora la difesa dei patrimoni culturali, delle specificità nazionali e regionali, deve divenire necessariamente - se non si vuole peccare di una visione astratta e sganciata dal reale modo di sentire e di vivere delle popolazioni del continente - parte del processo di costruzione di una nuova entità sovranazionale federale, indipendente, democratica e connotata da un forte contenuto sociale. E cioè occorrerà dire che la difesa del patrimonio storico di ognuno, delle lingue, delle culture, delle tradizioni, non può voler dire differenziazione dei diritti individuali e sociali e che la differenziazione solo apparentemente (ed in modo transitorio e parziale) crea situazioni di maggior favore per i ceti meno abbienti di alcuni paesi o di alcune regioni, ma che anzi - in presenza di un mercato unico che già esiste e rispetto al quale non si torna indietro - essa determina un complessivo e sempre maggiore indebolimento della forza contrattuale e della capacità vertenziale sul piano delle condizioni retributive e normative del lavoro subordinato ed eterodiretto, delle prestazioni sociali, del grado di partecipazione democratica alle grandi scelte politiche.

Non è pensabile e realistico rincorrere le chimere di isole felici ed autarchiche, di municipi liberati, di aree non condizionate dagli assetti macro-economici e dalle dinamiche generali.

Proprio ora, a fronte delle dinamiche disgregative in atto dei vecchi equilibri statuali, è semplice constatare che ciò che si frantuma è la capacità della politica di attestarsi su livelli tali da governare o comunque condizionare i processi economico-sociali e che la disgregazione degli assetti istituzionali e la rottura dell’uniformità dei diritti lasciano il campo libero allo scorrazzare senza vincoli dei capitali, alle scelte non condizionate dei grandi potentati finanziari, alla rottura delle garanzie, al più penetrante attacco alle conquiste dei lavoratori, tale da porre in discussione l’esistenza stessa delle loro forme di organizzazione e delle possibilità di conflitto sociale.

11. Alcuni elementi sono stati tracciati: un quadro, alcuni obiettivi astrattamente giusti. Ma tali obiettivi non possono vivere indipendentemente dalla costruzione di una “soggettività” adeguata, dalla costruzione - anch’essa terribilmente difficile e sicuramente tortuosa - di processi organizzativi che vadano oltre lo stretto scenario nazionale. Significa trovare interlocutori credibili e radicati nel tessuto sociale degli altri paesi dell’Unione, intrecciare rapporti, collocarsi nel dibattito a più lingue che fatica a crearsi tra le forze democratiche, sindacali, alternative, popolari, antagoniste dell’Europa. Un percorso di ricerca, di dialogo, di organizzazione, di iniziativa politica e sindacale di cui è oggi difficile individuare anche il punto di avvio. Ma un percorso che non può essere eluso, e neanche ritardato all’infinito.

Ci piaccia o no, in Europa ci siamo, l’Europa condiziona e determina le nostre regole, i nostri stili di vita, limita le nostre possibilità autonome di scelta, e determinerà già da domani i meccanismi di scambio, il quotidiano rapporto con la moneta e con le merci. L’Europa che sarà dipende anche da noi, dalla nostra capacità di far vivere ad un livello adeguato le nostre battaglie, la nostra capacità di organizzazione e di iniziativa.