Sinistra plurale e ricompattamento del capitale in Francia: 1997- 2000
Joseph Halevi
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1. Introduzione
In una dichiarazione del 3 settembre l’associazione Attac,
l’organizzazione moderata che crede di risolvere l’instabilità finanziaria
con una piccola tassa sui movimenti internazionali di capitale, ha duramente
criticato Lionel Jospin per aver proposto, nell’intervento televisivo del 28
agosto, di considerare positivamente l’introduzione della Tobin tax
demandandone però il compito al Fondo Monetario Internazionale, da sempre
opposto a tali misure. [1] Molto giustamente Attac sostiene che
il primo ministro non ha mai avuto l’intenzione di scostarsi dal suo programma
neoliberale e che investire il Fondo Monetario dell’ eventuale attuazione
della Tobin tax significa firmarne la condanna a morte. L’episodio è
emblematico di tutta la vicenda politica della sinistra plurale francese la
quale elettoralisticamente fa credere una cosa ma in realtà sostiene una
politica neoliberista che la destra non avrebbe potuto attuare. Infatti se all’accettazione
propagandistica della Tobin tax si accompagna immediatamente la sua evacuazione,
viene definitivamente soppressa l’idea di introdurre una tassa sul gasolio,
già richiesta a gran voce dai Verdi. In questo contesto il programma effettivo
della sinistra plurale si articola ormai prevalentemente sull’austerità di
bilancio, sulla continuazione delle privatizzazioni - nel cui ambito quelle
afferenti ai servizi pubblici permetterebbero di ridurre la spesa e di
proseguire verso l’alleggerimento fiscale - e sull’uso delle 35 ore come
strumento per aumentare la flessibilità e l’intensità del lavoro dipendente.
A ciò si deve aggiungere la sistematica pressione, esercitata in particolare
dal ministro delle finanze Laurent Fabius, di aprire il sistema pensionistico ai
fondi privati. Complessivamente si ottiene un quadro politico non molto
differente da quello di Schroeder in Germania. Sul terreno concreto non vi è
pertanto alcuna specificità francese rispetto alla trasformazione neoliberista
dei partiti della sinistra istituzionale degli altri paesi europei. Rispetto all’Italia
la differenza consiste principalmente nel fatto che l’operazione viene
condotta imbarcando l’insieme della sinistra presente all’Assemblea
Nazionale. È proprio questo quadro “programmatico” ad aver permesso ai
socialisti d’oltralpe di agire come la forza politica che garantisce il
ricompattamento del capitalismo francese alla luce della crisi strutturale della
destra parlamentare [2].
2. La crisi strutturale della destra
La destra istituzionale francese entrò in crisi perchè non
riusciva più a coordinare gli interessi del capitalismo d’oltralpe rispetto
alla dinamica europea da un lato e a quella nazionale dall’altro finendo per
entrare in conflitto con se stessa. Tanto sul piano parlamentare quanto sul
piano presidenziale (Chirac) la destra era andata al potere sull’onda della
campagna per il No al Trattato di Maastricht nel referendum del 1992. La
campagna venne diretta e gestita soprattutto dall’allora Presidente dell’Assemblea
Nazionale Philippe Séguin. Personaggio dotato di una forte capacità a
sviluppare argomentazioni logico-istituzionali, Séguin riuscì ad unificare il
discorso sul vuoto di democrazia formale insito nel Trattato - mostrando anche
con successo come il concetto di sussidiarietà non poteva ovviare a tale vuoto
con il discorso ancora incipiente sulla frattura sociale. I temi svolti da
Séguin vennero ripresi, ancorchè in forma populista, da Jacques Chirac durante
la campagna presidenziale del 1995. A questi il candidato socialista Jospin
oppose, in pubblico, un confuso discorso tecnocratico arrivando perfino ad
ingarbugliarsi su astrusi quanto improbabili effetti di sostituzione in caso di
aumenti salariali. Tuttavia una volta al governo la destra seguì una linea di
rigore finanziario, fondata anche su aumenti impositivi, e di passività
assoluta nei confronti della Bundesbank malgrado la sistematica crescita della
disoccupazione.
La Germania aveva ormai perso le eccedenze nei conti correnti
con l’estero e la Bundesbank perseguiva una politica di alti tassi di
interesse volta sia ad imporre ristrutturazioni alle imprese sia a racimolare
capitali per sostenere gli obiettivi di investimento estero delle sue
multinazionali e di espansione verso l’est europeo. Volendo mantenere la
parità del franco francese con il marco le autorità di Parigi non potevano che
aumentare a loro volta i tassi di interesse nazionali. Tale politica, che
implicava una forte rivalutazione tendenziale del franco francese rispetto alle
monete di paesi con produzioni altamente concorrenziali come l’Italia (la lira
allora si stava svalutando) finì per non essere più accettata da molti
industriali d’oltralpe. Fu un vecchio esponente della destra, ma di fatto
fuori dalla politica attiva, a convogliare il sentimento di protesta degli
industriali. Nel 1996 l’ex Presidente Giscard d’Estaing organizzò una vera
e propria lobby presso il governo tedesco - appoggiato in questo anche da quei
settori che in Germania venivano maggiormente penalizzati dalla crescita del
costo del denaro e dalla rivalutazione del marco - con l’obiettivo di
arrestare l’ascesa del marco e di imporre una svolta in senso inverso nel
quadro di una accelerazione dell’unione monetaria. La svolta si effettuò
nella seconda metà del 1996, troppo tardi per salvare il governo Juppé ormai
impegnato in uno scontro frontale con i dipendenti del settore pubblico, il cui
status giuridico ed economico il governo intendeva modificare per aprire la
strada a programmi di privatizzazione non molto dissimili da quelli poi attuati
dal governo della sinistra plurale diretto da Jospin [3].
La congiuntura europea in cui operava il governo Juppé
significò che quest’ultimo non riusciva più a coordinare gli interessi delle
forze economiche che avrebbero dovuto appoggiarlo, mentre la pesantezza fiscale
ne disarticolava la base sociale in un contesto di aperto scontro di massa con i
pubblici dipendenti sostenuti apertamente, a riprova di quanto detto, dalla
maggioranza della popolazione.
3. La resurrezione socialista
La crisi interna della destra ed il suo scollamento non
potevano trovare una soluzione in un semplice rimpasto ministeriale risultante
in un cambiamento di premier. Quello che accadde in Francia nell’inverno del
1996 fu un vero e proprio movimento di massa, imperniato è vero sul settore
pubblico ma massicciamente e disciplinatamente sostenuto nel paese, contro la
privatizzazione dello Stato ove confluiva anche la protesta contro la
precarizzazione e la frattura sociale. Qualsiasi politico di destra con un
minimo di lungimiranza sapeva benissimo che, in tali circostanze, la crisi
politica e sociale della destra stessa non poteva essere risolta
burocraticamente con un puro movimento di personale. Da questo punto di vista il
Presidente Chirac non ebbe torto a chiamare le elezioni anticipate da cui uscì
vittoriosa la coalizione della sinistra plurale, socialisti in testa [4]. Tuttavia
i socialisti non avevano contribuito molto al movimento, anzi erano ancora in
uno stato di torpore dovuto sia alla sconfitta di Jospin alle presidenziali del
1995 sia alla dilagante delegittimazione politico-morale del personaggio
Mitterrand. Furono quindi la congiuntura in cui aveva operato il governo Juppé
e lo scontro sociale da esso provocato a rilanciare i socialisti.
In realtà durante la campagna elettorale della primavera del
1997 le compagini della futura coalizione della sinistra plurale ripresero la
maggioranza dei temi lanciati da Chirac nelle presidenziali. Si parlò della
frattura sociale - su cui la destra ormai squalificata dal galoppare della
disoccupazione non poteva più aprir bocca - e della revisione dei parametri di
Maastricht. Vi si aggiunse la solidarietà contro i licenziamenti, il rilancio
dell’economia attraverso il consumo. In quest’ultimo caso ebbe luogo un
gioco della parti tra socialisti e comunisti. I primi, Jospin, parlavano di
rilancio del consumo che poteva significare solo una riduzione delle aliquote
fiscali. I secondi parlavano di aumenti salariali. Nessuno si preoccupava di
porre in evidenza che le due cose sono completamente diverse sul piano dei
rapporti economici di classe. Parlarono di tutto questo e anche delle
occupazioni di prossimità e via dicendo. Con i massimi dirigenti politici in
testa, marciarono - in Belgio - in solidarietà con le migliaia di operai della
Renault licenziati dopo la chiusura dello stabilimento a Vilvoorde. Queste ed
altre epiche gesta fecero.
4. Il ricompattamento del capitale
Fatto il governo la sinistra plurale si mise al lavoro. Di
Vilvoorde non ne volle più sentir parlare. Ad una delegazione di operai Jospin
disse che non c;era nulla da fare. Ad Amsterdam dopo aver sommessamente chiesto
se era il caso di ridiscutere i parametri Jospin firmò il Trattato che
incorporava i patti di stabilità varati a Dublino nel dicembre del 1996. Quest’ultimi,
molto più che i parametri di Maastricht, sono le vere clausole capestro del
sistema europeo. Essi impediscono qualsiasi politica fiscale e di bilancio
attiva sottomettendola completamente al rigore monetario. Inoltre i patti
contengono una promessa d’oro ai mercati finanziari. Un governo il cui deficit
va oltre quello dei parametri non ha alcuna facoltà legale di rifinanziarlo.
Esso è obbligato richiedere prestiti ai mercati privati di capitale.
Per Jospin e la sinistra plurale la situazione stava in
effetti cambiando favorevolmente già da prima delle elezioni politiche. Una
volta al governo, quindi, non sentivano più l’esigenza di muoversi, anche
verbalmente, sulla falsa riga dei discorsi elettorali. La svolta nella politica
della Bundesbank indotta in gran misura dall’azione di Giscard d’Estaing si
faceva sentire in termini di saggi di interesse in discesa ed in termini di
riallineamento sul marco di altre monete europee, della lira italiana in
particolare. La svolta era stata effettuata nel segno di una rapida convergenza
verso l’unione monetaria. Tuttavia se dell’unione monetaria se ne era
convinto il cancelliere Kohl non ne era convinta la Bundesbank e nemmeno la
potente democrazia cristiana bavarese [5]. Il mantenimento della svolta dipendeva da
una corsa al rispetto delle rigidità dei parametri. In altre parole i dubbi e l’ostilità
della Bundesbank si traducevano in una richiesta di assoluta fedeltà ai
parametri. Gli altri paesi dovevano impegnarsi a rendere le proprie monete tanto
preziose quanto il marco. Per la Francia questo non costituiva ormai un problema
ma lo era per l’Italia e per la Spagna. In nessun caso Jospin avrebbe voluto
veder riapparire lo spettro del periodo post 1993, la congiuntura
Balladur-Juppé, con il marco che sale, il franco (ed il saggio di interesse)
che segue, la lira e la peseta in calo. Per beneficiare del calo dei tassi di
interesse e del calo del marco (franco francese) rispetto alle altre monete,
alla lira in particolare, bisognava assolutamente avvinghiare la Germania alla
svolta cioè al quadro dell’unione monetaria. Il riallineamento delle parità
sul marco e la riduzione dei saggi di interesse non solo facevano balenare
la possibilità di una ripresa degli investimenti e di un rilancio delle
esportazioni sul piano intraeuropeo ma permettevano anche di sfruttare con
maggiore efficacia la crescita Usa che avveniva in un contesto di rivalutazione
del dollaro.
Sul piano economico il mutamento della congiuntura non fu
dovuto alla politica di Jospin, tale mutamento era in atto dalla fine del 1996.
Per la sinistra plurale il problema era semmai come cavalcare la nuova
situazione. In primo luogo era necessario stabilire una forte osmosi tra il
governo e la banca centrale intorno alla politica di rispetto dei parametri. Il
peso di tale disciplina ricadeva ovviamente sul ministero delle finanze con
conseguente durissmo rigore in materia di bilancio su cui Verdi, comunisti e
sindacati non dovevano in alcun modo aprir bocca. In un clima di rigore assoluto
nel campo della spesa pubblica, l’aggiustamento reale ricade sul lavoro
dipendente. Memore dell’esperienza Juppé e conspevole della genuina
dimensione di massa delle lotte del 1996 il governo Jospin concretizzò verso
sindacati una proposta che, pur mettendoli in difficoltà, non potevano
rifiutare: le 35 ore lavorative settimanali. Una grande conquista di civiltà si
disse, soprattutto nella sinistra italiana manifesto compreso.
Con le 35 ore il governo ottenne il silenzio dei sindacati
ufficiali in materia di bilancio macroeconomico, ottenne la loro adesione alle
normative concernenti la flessibilità (la seconda fase della legge Aubry),
ottenne anche il risultato di vederli solo mugugnare, piuttosto che di
lottare, contro le privatizzazioni. Si può quindi dire che la politica
occupazionale attiva del governo si sia prevalentemente concentrata nel
presentare le 35 ore come il rimedio principale alla disoccupazione con l’aggiunta
di politiche ad hoc come il programma di impiego per giovani, lavori di
prossimità eccetera. Questi sono impieghi in genere assai precari e temporanei
di dubbie prospettive nel campo della quailficazione professionale. Inoltre non
incidono in maniera significativa sul fenomeno dell’esclusione sociale.
Comunque questi programmi hanno apportato un contributo non secondario alla
diminuzione della disoccupazione. Se si opta per la visione non analitica
secondo cui qualsiasi diminuzione della disoccupazione è meglio che niente i
programmi hanno avuto un certo successo [6]. Alternativamente queste forme
occupazionali, data la loro dimensione aleatoria, possono essere viste a giusto
titolo come portatrici di precarietà e marginalizzazione ossia come una forma
istituzionalizzata di esercito del lavoro di riserva. In altri termini, una
componente della spesa pubblica sociale - attuata in condizioni di austerità di
bilancio - viene di fatto destinata ad ampliare l’area di precarietà del
lavoro.
[1] La Tobin tax è buona nelle intenzioni ma inefficacie
in pratica. L’ipotesi alla base dell’elaborazione di Tobin consiste nel
credere che i capitalisti siano degli investitori che, operando in concorrenza
con produtttività marginali decrescenti, massimizzano i profitti in base alla
scarsità relativa dei fattori produttivi. Il loro comportamento li porterebbe
quindi ad avere saggi di rendimento di equilibrio compatibili con la piena
occupazione dei suddetti fattori. Tuttavia il mondo, sostiene Tobin, non è
popolato solo da onesti massimizzatori ma anche da persone che cercano di farla
franca, cioè da speculatori. Questi sono una minoranza e per farli rientrare
nei ranghi basterebbe una piccola tassa sulle transazioni internazionali di
capitale. Tuttavia nel moderno capitalismo esiste un’integrazione completa tra
le grandi società e le istituzioni finanziarie, non si tratta affatto di
speculatori ai margini. Ne consegue che l’imposizione per essere efficacie
dovrebbe essere altissima ma allora converrebbe nazionalizzare del tutto le
istituzioni finanziarie e rendere illegali i movimenti di capitale a breve. Sul
piano politico il fatto che la moderatissima Tobin tax susciti una così feroce
opposizione mostra l’impossibilità di azioni anche larvatamente riformiste in
un contesto di privatizzazione globale.
[2] Come vedremo più avanti tale stratagia è entrata in una
crisi - ancora irrisolta - all’inizio di quest’anno.
[3] Era troppo tardi per
beneficiare politicamente di eventuali effetti positivi, la cui manifestazione
richiede tempo, della riduzione dei tassi di interesse e del valore del marco
(quindi del franco francese) rispetto alle altre monete europee.
[4] Chirac
venne poi preso continuamente in giro per essersi dato la zappa sui piedi
proclamando le elezioni anticipate. Ma questa visione delle cose è molto
superficiale: la destra al governo era ormai una nave senza timone.
[5] In questa storia vi è un grosso gioco di
interessi e non è detto che i procedimenti giudiziari in corso attualmente in
Francia riusciranno a fare luce.
[6] Da questo punto di vista è allora
preferibile l’esperienza olandese.