5. Conclusioni
"In base alla riflessione marxiana gli unici tipi di società
che veramente non conoscono una distinzione fra privato e pubblico sono le società
semplici (cd. Primitive) e le società che Marx chiama "modo di produzione
asiatico. Tutti gli altri tipi di società conoscono, in qualche modo, una sfera
privata (del particolare) e una sfera pubblica) (...). Nella formazione sociale
capitalista, infine, la comunità (considerata da Marx essenzialmente come forma
di proprietà degli individui che lavorano in modo associato) viene radicalmente
distrutta, ed emerge l’anarchia del mercato, che conosce soltanto il singolo
borghese, il proprietario capitalista isolato, che produce ed agisce privatisticamente
dietro l’impulso del movente del profitto. Siamo qui all’atomizzazione della
società in attori puramente individuali, che agiscono secondo un calcolo esclusivamente
utilitaristico tendente alla massimizzazione del benessere privato" [1].
Il problema dei servizi pubblici è la proprietà pubblica delle
aziende che erogano il servizio ed il connesso diritto ad esercitare il servizio
in regime di monopolio. La soluzione proposta è quindi quella di privatizzare
le aziende pubbliche e introdurre la concorrenza, sicuri che in tal modo si
avranno servizi pubblici efficienti, ad un prezzo più basso, maggiormente aderenti
alle esigenze del "cittadi-no/cliente" e di alta qualità. Questa impostazione
produce comportamenti finalizzati a raggiungere livelli sempre maggiori di competizione,
individuando un sistema in cui il mercato sembra essere l’istituzione più aderente.
Le ideologie di stampo neoliberista vedono nella natura decentralizzata
delle decisioni economiche di un settore privato e nell’ambiente competitivo
in cui vengono prese l’humus necessario per l’affermazione di una efficiente
allocazione delle risorse. Da questo punto di vista l’intervento statale può
essere giustificato solo da qualche forma di fallimento del mercato.
L’intervento del governo è richiesto quando i benefici del processo decisionale
collettivo pesano più della perdita del processo decisionale decentralizzato
individuale ed è spesso giustificato da:
a) protezione dell’industria e di gruppi vulnerabili;
b) mercato del credito sottosviluppato;
c) esternalità positive legate all’educazione, alla salute,
alle infrastrutture;
d) ruolo redistributivo del settore pubblico [2].
La logica dell’intervento statale deve avere radici nell’assunto
che in alcune aree il mercato funzioni poco o male, o che la società si proponga
altri obiettivi oltre l’efficienza economica, come per esempio la distribuzione
della ricchezza. Tra le cause possibili di fallimento del mercato c’è quella
dell’esistenza di beni pubblici [3]. Possiamo quindi stabilire
tre requisiti necessari ai fini di in un intervento statale nell’economia:
1. La maggior parte dei mercati non sono pienamente concorrenziali,
per cui non si raggiunge un risultato efficiente;
2. L’efficienza che è la principale caratteristica dei mercati
concorrenziali, è solo una delle componenti del benessere sociale;
3. Il funzionamento del mercato può essere considerato non
auspicabile poiché ricompensa un tipo di comportamento ritenuto socialmente
indesiderabile. Il mercato favorisce la competitività e l’etica della sopravvivenza
del più forte a spese dell’iniziativa cooperativa e dei valori competitivi.
Quindi la partecipazione dello Stato alla riallocazione delle
risorse è giustificabile perché in alcune situazioni (quella dei beni e servizi
pubblici è da sottolineare) sono necessarie contemporaneamente:
- Equità, in quanto viene incoraggiata una distribuzione più
equa di beni e servizi tra i membri della società;
- Efficienza, poiché si promuove l’efficienza in situazioni
di fallimento del mercato.
Il prodotto tipico dell’amministrazione pubblica cioè quei
beni e servizi che hanno effetti su tutta la collettività è formato da beni
pubblici; rendere disponibili tali beni è uno dei principali scopi dell’intervento
pubblico e, nello specifico, dell’identificazione di meccanismi atti ad ottimizzare
le scelte collettive [4].
"Creare le condizioni per una concorrenza efficace non
è compito facile e la privatizzazione e la deregulation indiscriminate rappresentano
scorciatoie tutt’altro che raccomandabili. È possibile allargare gli spazi per
l’operare di imprese private, ma anche nulla garantisce che il mercato lasciato
a se stesso dia luogo a soluzioni economicamente ed allocativamente efficienti
per gran parte dei servizi pubblici" [5].
"In tutti i paesi del capitalismo occidentale contemporaneo
abbiamo di fronte non semplicemente una maggior complessità sociale ma anche
novità radicali come ad esempio processi di privatizzazione per quanto riguarda
i consumi di cittadinanza. Sinteticamente matura con grande accelerazione nella
condizione del lavoro e nella condizione sociale una nuova "questione sociale"
in tutti i paesi dell’occidente capitalistico e la necessità di una nuova politica
sociale che vada al di là dell’antica dicotomia Stato/Mercato: politica che
assuma come fondamento il diritto all’inserimento, come obiettivo permanente
l’integrazione, come dimensione la persona e la territorialità, come cultura
un’idea di cittadinanza non puramente lavoristica, come modalità l’economia
sociale e cooperativa, come perno il ruolo del pubblico come stratega, come
consumo il passaggio dai consumi privati di massa ai consumi sociali, ai cosiddetti
beni relazionali" [6].
"Secondo un documento del FMI", ci fa notare il Giannone,
"il perseguimento di una politica dell’equità favorisce direttamente o
indirettamente lo sviluppo economico. Ed infatti una maggior spesa per la salute
o per l’istruzione più che con la concessione di sussidi o l’applicazione di
imposte progressive, rafforza nel lungo andare lo sviluppo economico che a sua
volta contribuisce ad alleviare la povertà. Infine, non vi è dubbio che interventi
governativi intesi a diminuire la diseguaglianza della distribuzione dei redditi
rafforzano la coesione sociale e diminuiscono i rischi di conflitti sociali.
È anche vero però che questa politica ha bisogno di un largo sostegno, senza
escludere, inoltre, che alcuni interventi governativi come, ad esempio, la privatizzazione,
accrescano nel breve termine la disoccupazione o peggiorino la distribuzione
delle risorse" [7].
Quando si punta il dito contro i processi di privatizzazione
non si vuole certo negare la validità di alcune affermazioni, come ad esempio
quella che vuole il trend di cambiamento dei prossimi anni centrarsi sullo sviluppo
anche della qualità delle infrastrutture, sviluppo che costituisce senz’altro
un elemento chiave per la sopravvivenza del sistema economico [8].
Così come è vero che l’inefficienza delle infrastrutture causata da mancato
sviluppo e da inadeguata manutenzione costituisce un grave deficit per un Paese
e riflette anche una scarsità di investimenti di capitale, di solito in prevalenza
pubblico; la Pubblica Amministrazione chiamata istituzionalmente ad assicurare
servizi per lo sviluppo della società ha un peso fondamentale nella determinazione
dei costi di transazione, intesi questi ultimi come costi del processo di negoziazione
per procurarsi le risorse (umane, finanziarie, tecnologiche, temporali e spaziali)
ritenute indispensabili per realizzare gli obiettivi scelti [9]. Viene però spontaneo chiedersi
se la qualità e l’efficienza passino solo e necessariamente attraverso un approccio
"privato" delle gestioni o se, invece, accanto ad esse non debba considerarsi
appunto un terzo fattore: quella politica dell’equità a cui accennava Giannone.
Una lettura del DPEF 2000-2004 non fa poi altro che aumentare i dubbi e le riflessioni
quando afferma che "il Governo ipotizza che una parte significativa dei
nuovi investimenti in infrastrutture di interesse pubblico nel 2002, 2003 e
2004 possa essere finanziata direttamente da capitale privato" e continua
"migliorare l’efficienza e la qualità dei servizi è possibile liberalizzando
e privatizzando i mercati nei settori aereo, marittimo, ferroviario e autostradali".
Questa tendenza a livello centrale non fa altro che propagarsi alle strutture
decentrate di gestione locale che abbagliate dall’ottica di una concorrenza
che tutto può e tutto rimedia, perde di vista quell’elemento fondamentale dell’equità,
a danno di un welfare che dovrebbe realizzare un reale sistema di protezione
sociale che si fa carico dei vari disagi sociali, anche e soprattutto a partire
dai servizi basilari della collettività. Vero è che la concorrenza è un processo
di "distruzione creativa" caratterizzato dal ruolo di nuovi imprenditori
e nuovi imprese, ma tale attività innovativa si associa a costi crescenti degli
investimenti in ricerca e sviluppo e ad un’elevata rischiosità dei progetti,
portando al predominio delle imprese più grandi e all’innalzamento di barriere
all’entrata [10].
Una politica per l’efficienza dei servizi pubblici non è poi senza costi: l’efficienza
allocativa infatti richiede infatti una struttura tariffaria uniforme e non
rispettosa dei costi marginali effettivi. Eventuali fini redistributivi andrebbero
in tal caso perseguiti con altre forme intervento che aumenterebbero i costi
totali [11].
Per questo si può affermare che i processi di privatizzazione
hanno costituito lo strumento più efficace di distruzione dei servizi sociali
e ciò è avvenuto purtroppo anche con il consenso di gran parte dell’opinione
pubblica che, bollando come incapaci, parassiti e nulla facenti i lavoratori
ha accolto con favore la concessione al privato della gestione diretta dei servizi
pubblici.
[1] Donati
Pierpaolo, Pubblico e privato. Fine di un’alternativa?, Nuova universale Cappelli,
1978.
[2] Huther J., Roberts
S., Shah A., Public expenditure reform under adjustement lending. Lessons from
World bank experiences, WORLD BANK discussion paper n. 382, 1997.
[3] Stokey Edith, Zeckhauser Richard, Introduzione
all’analisi delle decisioni pubbliche, FORMEZ, 1988.
[4] Stokey Edith, Zeckhauser Richard, Introduzione all’analisi
delle decisioni pubbliche, FORMEZ, 1988.
[5] Antonio Di Majo (a cura), "Le
politiche di privatizzazione in Italia. 3° Rapporto CER/IRS sull’industria e
la politica industriale italiana", Il Mulino, 1989.
[6] Agostini Luigi, "Welfare locale - Assessorato sociale
- Sindacato", Impresa Sociale, 46/1999.
[7] Giannone Antonino, "La convergenza delle economie
delle regioni italiane", Studi e Note di Economia, 2/2000.
[8] Billia Gianni,
"Un sistema lento condiziona la competitività", L’Impresa, 4/1998.
[9] Billia Gianni,
"Un sistema lento condiziona..., op. cit.
[10] "Concorrenza, sviluppo e sistema bancario", intervento
di Antonio Fazio, Bollettino Economico della Banca d’Italia, n. 35, 2000.
[11] Antonio Di Majo (a cura), "Le politiche di privatizzazione in Italia.
3° Rapporto CER/IRS sull’industria e la politica industriale italiana",
Il Mulino, 1989.