l ruolo delle imprese multinazionali nel mercato globale
Carmine Giannì
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Il termine globalizzazione è stato proposto per la prima
volta da Levitt T. il quale affermava che: “Una forza di grande potenza, la
tecnologia spinge il mondo verso modelli sempre più uniformi e convergenti.
Questa forza ha reso accessibili a tutti le comunicazioni, i trasporti, i
viaggi. Essa ha fatto si che anche nei luoghi più isolati e fra le popolazioni
più povere sia finito il richiamo del mondo moderno. Praticamente ogni uomo
della terra desidera tutte le cose di cui ha sentito parlare o che ha potuto
vedere o sperimentare grazie alle nuove tecnologie. Da tutto ciò nasce una
nuova realtà commerciale e cioè l’emergere dei mercati globali per i
prodotti di consumo standardizzati di dimensioni inimmaginabili in precedenza”.
Con questo termine solitamente ci si riferisce alla crescente integrazione ed
interdipendenza delle economie nazionali che negli ultimi venti anni ha preso la
forma dell’apertura di mercati precedentemente protetti. Tale integrazione è
avvenuta non solo attraverso gli scambi commerciali, ma in misura crescente
attraverso gli investimenti diretti esteri, le fusioni e le acquisizioni
internazionali in un mondo che da gerarchizzato sotto gli Stati Uniti si è
trasformato in tripolare coinvolgendo anche l’Unione Europea ed il Giappone.
È proprio nello spazio geografico identificato con la triade Stati Uniti,
Unione Europea e Giappone che, a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta,
si è concentrata la maggior parte dei flussi di investimenti diretti
esteri [1].
Spostando l’attenzione da una dimensione nazionale ad una
dimensione aziendale al concetto di globalizzazione si fa assumere una nuova
valenza. Infatti con questo termine si usa definire l’allargamento degli
orizzonti d’interesse delle grandi imprese che sono passati da una scala
nazionale ad una scala internazionale, continentale e addirittura, in alcuni
casi, mondiale. Pertanto tale accezione è restauratrice del modello dell’impresa
multinazionale classica, che a sua volta si basa sul modello fordista. Infatti l’allargamento
all’infinito del mercato permette il perseguimento sia di strategie di
leadership di costo globale sia strategie di differenziazione. Con le prime,
attraverso una strategia di marketing indifferenziata e concentrata a livello
globale, si possono raggiungere delle economie di scala che non sono alla
portata delle aziende nazionali. Con le seconde, attraverso l’aggregazione di
segmenti di domanda presenti nei vari Paesi, le multinazionali sono in grado di
ottimizzare i propri investimenti, di bilanciare il rapporto qualità/prezzo, di
ottenere dei vantaggi negli investimenti in immagine. L’internazionalizzazione
così attiva il circolo virtuoso tra minori costi unitari, derivanti dalla più
ampia base di mercato raggiungibile, e il rinvenimento di risorse finanziarie
sufficienti per ulteriori investimenti finalizzati al rafforzamento del
vantaggio competitivo [2].
Un elemento caratterizzante dei mercati globali diviene
allora la propensione a stringere accordi ed a creare reti internazionali di
alleanze tra imprese, i cui rapporti di cooperazione [3] e di collaborazione si
articolano in architetture più o meno complesse. In questo contesto l’innovazione
tecnologica ha reso possibile il costituirsi di fitti reticoli di accordi e di
alleanze tra imprese e ne ha caratterizzato la competizione a livello
internazionale.
L’internazionalizzazione e l’inserimento dell’impresa
nell’economia globale fanno sì che le nuove multinazionali si trovino a
competere in un ambiente sempre più complesso. Tale contesto, caratterizzato da
una concorrenza sempre più acerrima, rende necessaria la prospettiva di una
competizione incentrata sull’innovazione. Le imprese sono costrette ad adottare
strategie di cooperazione con altre imprese e con le istituzioni per poter
accedere a nuove risorse e competenze esterne.
Nell’ambito dell’internazionalizzazione produttiva sono
due i fenomeni che hanno maggiore incidenza: la delocalizzazione produttiva ed
il raggiungimento o il mantenimento di determinate quote di mercato.
I primi processi di delocalizzazione produttiva risalgono
alla seconda metà degli anni settanta, quando forti conflittualità sociali e
la crisi petrolifera resero necessario il trasferimento di molte produzioni all’estero,
soprattutto nei settori ad alto contenuto di lavoro. Negli anni successivi il
continuo incalzare della soglia di competitività, a seguito dell’incessante
innovazione tecnologica e della globalizzazione dei mercati, ha comportato una
crescente mobilità dei fattori produttivi, in particolare del fattore capitale;
tale processo è stato favorito da una serie di eventi politici ed economici che
hanno caratterizzato l’ultimo decennio. In particolare possiamo considerare la
crescente apertura verso i mercati internazionali e la possibilità di sfruttare
i vantaggi, in termini di costo dei fattori produttivi e di imposizione fiscale,
provenienti dalle economie dei Paesi dell’Europa Centro Orientale [4].
Le motivazioni che spingono un’impresa a delocalizzare all’estero
una parte o l’intero processo di produzione non fanno capo esclusivamente alla
possibilità di ottimizzare il mix di fattori produttivi attraverso la ricerca
di manodopera a basso costo del lavoro, di Paesi con una bassa imposizione
fiscale o di un costo delle materie prime inferiore rispetto al mercato interno.
La delocalizzazione dipende da fattori strategici, manageriali e dalle politiche
di marketing, quindi coinvolge la gestione d’impresa a livello globale [5].
Si pone quindi il problema per l’impresa di dare una
struttura ben precisa all’organizzazione dei propri rapporti con il mercato
globale.
L’impostazione più frequentemente seguita, è quella del
mantenimento nella casa madre delle funzioni aziendali come marketing, ricerca e
sviluppo e tutto ciò che riguarda gli aspetti intangibili del processo
produttivo; parallelamente vi è un’apertura verso il mercato estero di gran
parte delle fasi di produzione.
Tutto ciò comporta una serie di vantaggi per l’impresa.
Infatti, con questa nuova organizzazione, l’azienda ha più possibilità di
dedicarsi alla cura del prodotto da un punto di vista qualitativo, grazie ad un
maggiore apporto della pubblicità e della conseguente acquisizione di un
marchio per il prodotto. In questo contesto diventano fondamentali i rapporti di
partnership tra le grandi multinazionali e le piccole e medie imprese. Infatti,
grazie a tali relazioni, le imprese di grandi dimensioni operanti nel mercato
internazionale, possono avviare politiche di diversificazione del prodotto e di
acquisizione di imprese di più piccole dimensioni, con il fine di affrontare
diversi segmenti di mercato con prodotti con un contenuto qualitativo e
tecnologico diverso, soddisfacendo al massimo le esigenze del consumatore. D’altro
canto, le imprese di più piccole dimensioni riescono ad affrontare il mercato
globale, caratterizzato da livelli di competitività e concorrenza più alti
rispetto a quello interno, grazie alla guida di una grande multinazionale [6]. Si viene così a creare
una vera e propria “rete internazionale” nella quale sono coinvolte,
attraverso rapporti bidirezionali, imprese di diverse dimensioni. Vediamo,
quindi, come si viene a creare uno stretto legame tra i processi di
delocalizzazione produttiva e le filiere internazionali che caratterizzano i
processi produttivi attuali.
Da un punto di vista geografico l’interesse per la
delocalizzazione delle imprese europee si è indirizzato prevalentemente verso
tre grandi aree: Unione Europea, Europa Centro Orientale e America Latina. La
scelta della destinazione geografica verso la quale indirizzare una parte o
l’intero processo produttivo dipende essenzialmente da fattori logistici, di
vicinanza geografica, di facilità di comunicazione, di trasporto e di controllo
della produzione e più in generale geoeconomico, ricerca di garanzie di
affidabilità e di autonomia.
In questo contesto risultano fondamentali le politiche di
privatizzazione, di liberalizzazione dei mercati, di protezione e promozione
degli investimenti diretti esteri che sono state avviate soprattutto nei Paesi
in procinto di entrare nell’Unione Europea come Polonia, Romania e Repubblica
Ceca [7].
La strategia che è alla base di questo tipo di operazioni è
data dalla sottoscrizione di accordi di subfornitura che rappresentano una vera
e propria leva strategica per la competitività dell’industria e per le
strategie d’innovazione delle grandi imprese. Il rapporto di subfornitura è
caratterizzato dalla specializzazione del fornitore nel portare a termine i
compiti che gli sono stati assegnati e dal rapporto di collaborazione più o
meno rigido che si è venuto ad instaurare tra fornitore e committente. La
subfornitura può essere, dunque, organizzata in molteplici modi a partire dall’esecuzione
di una determinata lavorazione fino ad arrivare alla delocalizzazione all’estero
di alcune fasi o dell’intero processo produttivo. Tale processo, se analizzato
da un punto di vista esclusivamente produttivo, è giustificato quando il costo
del lavoro per unità di prodotto è particolarmente alto e quando la produzione
è relativamente standardizzata e pertanto organizzabile per lotti abbastanza
grandi. Si può facilmente notare come la convenienza al decentramento non sia
inversamente proporzionale alla crescita degli standard qualitativi del
prodotto, bensì, spesso conviene decentrare quelle fasi del processo produttivo
richiedenti conoscenze e livelli organizzativi specifici e particolari.
Una delle principali modalità attraverso le quali si
concretizzano tali accordi di subfornitura e, di conseguenza, la gran parte
delle strategie di delocalizzazione produttiva è data dal traffico di
perfezionamento passivo.
Con tale termine si indica il regime doganale della
temporanea esportazione verso paesi esteri, per lavorazione o riparazione, di
merci da reimportare sotto forma di prodotti finiti o di semilavorati.
Generalmente vengono trasferite all’estero, in Paesi a basso costo del lavoro,
fasi della produzione precedentemente sviluppate nella casa madre [8].
Si tratta per lo più di operazioni a carattere manifatturiero, più facilmente
trasferibili all’estero e nelle quali l’incidenza di lavoro non qualificato
è maggiore e, quindi, vi è un vantaggio comparato in termini di costo dei
fattori della produzione, in particolare del fattore lavoro. Tuttavia, grazie
alle politiche di sviluppo che stanno coinvolgendo i Paesi in fase di
transizione, negli ultimi anni, la dotazione di lavoro qualificato a basso costo
non è scarsa, di conseguenza anche fasi che richiedono lavoro più qualificato
lentamente vengono trasferite all’estero [9].
La diffusione del traffico di perfezionamento passivo è
conseguenza del diffondersi rapido delle strategie di delocalizzazione da parte
dei produttori europei. Questa tendenza è dovuta sia a mutamenti sul versante
della domanda (i consumatori tendono a voler massimizzare il rapporto tra
qualità e prezzo) che su quello dell’offerta (aumento della concorrenza ed
incremento degli standard qualitativi).
Le principali aree geografiche coinvolte in questi flussi
sono l’Europa Centro Orientale (41,2%) e l’Unione Europea
(36,9%). In questo contesto il peso dei Paesi dell’Europa Centro Orientale è
legato a ragioni di costo, know-how e convenienza logistica. Inoltre, più di un
indizio fa supporre che in futuro intensi flussi di esportazioni temporanee
saranno diretti verso il Nord Africa e la Turchia.
Al fine di completare e di rafforzare i concetti esposti
nelle pagine precedenti, si ritiene utile illustrare i risultati ottenuti nella
parte applicativa e metodologica della tesi di laurea di chi scrive [10]. In questo lavoro sono
stati analizzati i dati di bilancio delle maggiori multinazionali operanti nel
mercato mondiale e quelli relativi ai flussi di investimenti diretti esteri e
delle fusioni ed acquisizioni oltre confine facenti riferimento alla triade di
potenze economiche individuata negli Stati Uniti, Unione Europea e Giappone.
Dopo aver analizzato il comportamento delle grandi multinazionali ed aver messo
in evidenza le differenti strategie attuate nelle politiche di
internazionalizzazione produttiva dalle imprese operanti in diversi settori ed
aree geografiche, si è ritenuto importante approfondire il discorso relativo
alla caratterizzazione delle performance aziendale in funzione dell’appartenenza
ad una determinata area geografica (effetto area geografica) o mercato
caratterizzante il core business (effetto settore).
[1] Cfr.: Vasapollo L.,”La geoeconomia dei processi di
internazionalizzazione post-fordista”, Relazione del Convegno internazionale
di Matanzas, Cuba, Marzo 2000.
[2] Cfr. Martufi R., Vasapollo L.: „ EUROBANG: La sfida del
polo europeo nella competizione globale: inchiesta su lavoro e capitale”,
Media Print Edizioni, Ottobre 2000.
[3] In tal senso la
cooperazione rafforza la capacità di competizione e lo sviluppo della
differenziazione tecnologica dei processi produttivi.
[4] Cfr.:
Vasapollo L.: “La Uniòn Europea: entre polo geoeconòmico y desarrollo
desigual”, Estratto dagli atti del Congresso Internazionale: VIII Conferencia
Internacional de Estudios Europeos, En Ciudad de la Habana (Cuba), dal 3 al 6
Ottobre 2000.
[5] Cfr.:
Unioncamere: “Delocalizzazione produttiva e investimenti all’estero delle
imprese manifatturiere lombarde” COLLANA STUDI, quaderno n.7, 1998.
[6] Cfr.:
Grandinetti R.: “Il marketing delle grandi e delle piccole imprese: dalla
separazione alla convergenza” da Economia e Politica Industriale, n.63 1989;
cfr. AA.VV. “No/Made Italy”, Media Print, 2002.
[7] Cfr.: Vasapollo L.: “La Uniòn Europea: entre polo geoeconòmico y
desarrollo desigual”, Estratto dagli atti del Congresso Internazionale: VIII
Conferencia Internacional de Estudios Europeos, En Ciudad de la Habana (Cuba),
dal 3 al 6 Ottobre 2000.
[8] Cfr.
A. Forti e F. Silva: “Deindustrializzazione e delocalizzazione pr0.1oduttiva”
da: La ricostruzione industriale, settimo rapporto CER/ISR sull’industria e la
politica industriale italiana, 1995; cfr. AA.VV.: “No/Made Italy”, Media
Print, 2002.
[9] Cfr.: Quaderni Cestes n.6: “Atti
del Seminario Internazionale: La integraciòn europea y las politicas sociales y
del trabajo:expectativas y confrontacion internacional”. A cura di Cestes
Proteo, 19 giugno 2001.
[10] “Le
strategie di internazionalizzazione produttiva nell’era della globalizzazione,
analisi di alcuni settori produttivi” Relatore: Prof. Luciano Vasapollo,
Correlatore: Prof. Roberto Zelli, Facoltà di Scienze Statistiche, Università
degli Studi “La Sapienza” di Roma, 5 marzo 2001.