L’opposizione del sindacalismo di base ai progetti di privatizzazione
Emidia Papi
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Il furore delle privatizzazioni delle aziende pubbliche dilaga
anche in Italia. A guidarlo sono i soliti “noti” ambienti politici ed economici
Ma i dati ci dicono che privatizzazione ha significato solo distruzione di posti
di lavoro, peggioramento delle condizioni salariali e di lavoro dei dipendenti
ed altissimi profitti per i gruppi finanziari. Prodi prosegue l’offensiva iniziata
quattro anni fa e l’opposizione cede il passo alla privatizzazione della STET.
Poi toccherà all’ENEL, all’Alitalia , alle Ferrovie, ecc. A
vantaggio di chi ?
1. Il quadro generale
Dal governo Amato in poi la scelta delle privatizzazioni è
stato uno dei punti irrinunciabili dei programmi dei governi Ciampi, Berlusconi,
Dini. Con il governo Prodi la musica non è cambiata.
Prodi si è fatto vanto in campagna elettorale del suo ruolo
nella privatizzazione dell’IRI e nelle scelte strategiche del governo dell’Ulivo
ha ribadito la determinazione nel procedere con le privatizzazioni di tutte
le aziende pubbliche strategiche : STET, ENEL ed ENI innanzitutto ma poi si
arriverà anche agli altri servizi.
Ma non è solo lo Stato a svendere. Anche gli enti locali stanno
marciando speditamente verso la svendita e privatizzazione delle aziende municipalizzate.
A Genova è stata privatizzata l’AMGA (azienda comunale del gas); a Bologna le
farmacie comunali e adesso si sta passando anche agli asili nido; significative
-inoltre - le vicende parallele di Milano e di Roma nel procedere alla privatizzazione
delle aziende elettriche AEM e ACEA.
L’approvazione della privatizzazione della STET, chiarisce
ormai lo scenario delle scelte strutturali indicate dal governo del nuovo compromesso
storico. Rifondazione ha “scambiato” risultati congiunturali ed elettorali (le
100.000 borse- lavoro a termine per 800.000 lire al mese e il “rinvio” della
privatizzazione dell’ENEL) con scelte strutturali come la riforma del mercato
del lavoro prevista dal “Pacchetto Treu” (lavoro interinale, contratti d’area)
e il via libera alla privatizzazione della STET .
La posta in gioco dunque non è solo lo smantellamento dello
stato sociale ma la ridefinizione complessiva dei rapporti economici e sociali
nel nostro paese.
Il trasferimento di ricchezze, risorse e poteri dai redditi
dei lavoratori e delle famiglie verso i centri del capitale finanziario ha subìto
negli ultimi cinque anni una accelerazione profonda. Questa operazione di rafforzamento
del dominio capitale finanziario e di liquidazione dello stato sociale poteva
essere realizzata solo da governi autoritari come quello della Thatcher o quelli
sudamericani oppure da esecutivi che possono contare sulla tregua sociale e
la collaborazione dei sindacati . Dobbiamo ammettere che è il nostro caso.
La banca d’affari americana J.P. Morgan rivela in un suo rapporto
che nel 1997 in Europa ci sono state privatizzazioni per 53 miliardi di dollari.
La parte del leone è stata fatta dall’Italia che ha realizzato privatizzazioni
per quasi 20 miliardi di dollari (33mila miliardi di lire).
Il 56% delle privatizzazioni ha riguardato aziende delle telecomunicazioni
e dei servizi.
Dalle precedenti privatizzazioni - realizzate nel ‘93 e ‘94
- il governo ha incassato circa 26mila miliardi. Tra il ‘93 e il ‘94 sono state
privatizzate tre banche (Comit, Credit, IMI), una assicurazione (INA), un “gioiello
produttivo” come il Nuovo Pignone, il nocciolo della siderurgia pubblica (ILVA)
ed altre aziende industriali dell’IRI.
Secondo una graduatoria elaborata dall’OCSE, l’Italia è stato
il paese che tra il ‘93 e il ‘97 ha privatizzato di più rispetto agli altri
: più del doppio della Germania e della Spagna ed il doppio del Giappone.
Le ultime privatizzazioni riguardano invece servizi strategici
come le comunicazioni (STET); l’energia (ENEL e ENI) e tendenzialmente i trasporti
(Ente FFSS, Alitalia) ossia servizi ad alta tecnologia sempre più funzionali
alle imprese e sempre meno servizi “pubblici”. In questi anni la ristrutturazione
si è già abbattuta pesantemente su questi servizi puntando alla riduzione del
personale e del costo del lavoro. Di conseguenza i profitti (ma anche le tariffe)
sono cresciuti notevolmente . (vedi Tab. 1).
Da questi dati emerge come le aziende privatizzate producano
profitti ma distruggono posti di lavoro, fatta eccezione per la Cirio e la Banca
Commerciale che si appresta - appunto - a tagliare alcune migliaia di posti
di lavoro ritenuti “in esubero”.
2. Conseguenze sulle condizioni
dei lavoratori
delle aziende privatizzate
Le privatizzazioni delle principali aziende pubbliche non riducono
solo i posti di lavoro, ma provocano anche conseguenze rilevanti sulle condizioni
salariali e lavorative dei dipendenti.
All’aumento dei carichi di lavoro corrisponde parallelamente
il progetto di abbassare i salari anche ricorrendo a cambiamenti delle figure
contrattuali.
Nel settore delle telecomunicazioni la questione è lampante.
Il nuovo gruppo dirigente della Telecom privatizzata vuole cambiare il contratto
dei suoi dipendenti passandolo da quello dei telefonici (migliore) a quello
dei metalmeccanici (peggiore).
La questione non investe solo la Telecom ma anche i nuovi concessionari
della telefonia mobile come l’Omnitel che già applica il contratto dei metalmeccanici
e l’eventuale vincitore della gara tra Picienne e Wind per il terzo gestore.
Il divario salariale tra i due tipi di contratti
Contratto * Contratto
telefonici metalmeccanici
Operai specializzati
Minimi 12.867 11.266
Contingenza 13.022 12.990
Edr 260 260
Totale 26.149 24.516 Impiegati
Minimi 16.829 13.364
Contingenza 13.133 13.116
Edr 260 260
TOTALE 30.221 26.740
* applicato ai dipendenti Telecom, TIm e Telespazio. Sul contratto
dei metalmeccanici (applicato ai dipendenti della Omnitel) non è calcolato lo
scatto del minimo contrattuale previsto a febbraio di quest’anno.
3. La storia “recente”
delle privatizzazioni in Italia
Non tantissimi anni fa esistevano in Italia molte imprese pubbliche.
Pubblico significa, in sostanza, che l’obiettivo degli azionisti e dei manager
di queste società non è la massimizzazione dei profitti aziendali, ma la massimizzazione
del benessere sociale. Questo ovviamente avviene in teoria, giacché la vera
storia dell’industria e delle grandi aziende pubbliche italiane si identifica
piuttosto con le fortune di un ceto politico, primariamente espresso dalla “sinistra”
D.C., che ha costruito nel tempo il suo potere e le sue fortune su questa frazione
del capitalismo nostrano.
In Italia fu il governo Andreotti, ormai al lumicino,
ad approvare il 5 dicembre del ‘91 un decreto legge (il ministro del Tesoro
era Carli e quello del Bilancio Cirino Pomicino) che diventò la Legge n° 35
il 29/1/1992. Questo provvedimento fu il primo ad indicare un modo per trasformare
gli enti pubblici economici in Società per Azioni e dismettere le quote delle
società trasformate.
Solo pochi mesi più tardi, il 2 giugno del ‘92, uno dei più
noti tecnocrati del Ministero del Tesoro, Mario Draghi (siamo già nei mesi maledetti
del governo Amato) pronunciò un famoso discorso sulle privatizzazioni a bordo
del panfilo reale Britannia che fece molto discutere sia per l’insolita tribuna
che per l’assenza di alcun cenno alla nuova legge.
Il Governo Amato, con il Decreto Legge 11 luglio 1992, n° 333,
superò nei fatti la legge Andreotti - Carli - Pomicino, trasformando IRI, ENI,
INA, ENEL in S.p.A. le cui azioni venivano attribuite al Tesoro, e decidendo
di mettere mano, nel giro di due settimane, alla costituzione di due mega S.p.A.
(le famose superholdings) a cui conferire sia le azioni delle società di cui
sopra sia le partecipazioni nell’IMI e nella BNL.
4. Prodi, Maccanico, Cuccia:
i soliti noti
Ad aprile del ‘93 la “palla della privatizzazioni” passa a
Ciampi nominato Primo Ministro. Una delle prime decisioni del neo-premier è
la nomina a Presidente dell’IRI di R. Prodi, in sostituzione dell’andreottiano
F. Nobili, “finito temporaneamente nel carcere di S. Vittore”. Il problema più
urgente del capitolo privatizzazioni è sempre la vendita/svendita delle due
banche “gioielli di famiglia dell’IRI” ossia Credit e Comit, con la tesi che
sembra prevalere del modello delle Public Companies, ossia società ad
azionariato diffuso tipiche del sistema finanziario anglosassone. Pare che Prodi
stesso sia giunto a questa determinazione dopo aver cercato invano un “grosso
compratore”, tipo la Deutsche Bank, ma si scontra con un veto pesante : quello
di MedioBanca e di Cuccia.
Durante il governo Ciampi sottosegretario alla Presidenza del
Consiglio dei ministri era l’attuale Ministro delle telecomunicazioni Maccanico
(tra l’altro presidente di Mediobanca tra febbraio 1987 ed aprile 1988,
data in cui De Mita gli affida il Ministero per le riforme istituzionali).
Proprio in quel periodo De Mita e Prodi ordinano alle banche
IRI di cedere oltre la metà della loro quota in Mediobanca. Lo stesso Maccanico
ricorda questo passaggio : “Credo che Prodi abbia fatto molte cose serie
e positive per il risanamento dell’IRI, ma la cosa più importante credo sia
stata la privatizzazione di Mediobanca. Senza di essa non si poteva procedere
ad altre privatizzazioni. Fu De Mita ad averlo consentito.”
Nell’estate del ‘93 il quadro delle privatizzazioni è il seguente:
la Cariplo vuole comprare l’IMI ma per il governo Ciampi il prezzo offerto non
è conveniente; la Italgel della SME va alla multinazionale Nestlé; l’operazione
INA inciampa sul salvataggio della Tirrena; la privatizzazione di Nuovo Pignone
procede fino all’acquisto di questo “gioiello industriale” da parte della multinazionale
americana General Electric. Tra l’autunno del ‘93 e l’inverno del ‘94 vengono
privatizzate Credit e Comit.
Sul duello tra Cuccia - Prodi relativo alla privatizzazione
delle due banche strategiche Credit e Comit è significativo il commento di un
osservatore come Piero Ottone: “E. Cuccia e R. Prodi hanno una sola cosa
in comune: l’intelligenza. Ma nel grande duello per il controllo della Banca
commerciale e del Credito italiano Cuccia ha vinto e Prodi ha perso. Segno che
hanno adoperato la loro intelligenza in modo diverso.” La sconfitta della
linea Prodi sulle privatizzazioni è tutta riassunta in quel tetto azionario
del 3% che spalanca le porte ad ogni tipo di scalata. Fatto sta che entrambe
le banche pubbliche sono andate a finire sotto un nocciolo duro di finanza internazionale,
con la regia di Mediobanca. Fra i maggiori azionisti del Credit troviamo oggi
il gruppo Pesenti, la RAS-Allianz, Commercial Union, Nippon Life, il gruppo
Fiat, Société Générale, Berliner Bank; nella Comit troviamo invece Paribas,
Commerzbank, Creditanstalt, Allianz, Gemina, Ligresti, Burgo, Pirelli. In una
intervista a Famiglia Cristiana R. Prodi dichiara: “Su Comit e Credit abbiamo
perso, ma il grosso della partita si gioca sulla STET e lì non perderemo benché
da Milano e da Torino siano venuti a dire di non fare scherzi “.
Dunque la privatizzazione della STET è una vecchia ambizione
di Prodi che somiglia molto ad una rivincita contro alcuni ambienti finanziari
italiani ma anche - e soprattutto - alla sottrazione di un patrimonio pubblico
alla collettività e ad un regalo al capitale finanziario.
5. Esperienze contro le privatizzazioni.
I casi di Roma e Milano
A Milano, se le autorità comunali non opporranno altri ostacoli,
come fanno da due anni, i cittadini saranno chiamati a pronunciarsi sulla privatizzazione
dell’AEM, il “gioiello” delle aziende municipalizzate milanesi, in un referendum
popolare voluto dai lavoratori e dalla RdB dell’AEM che ha saputo costruire
una battaglia dai forti connotati sociali contro la privatizzazione dell’azienda.
Prima la giunta leghista ed ora quella berlusconiana, hanno cercato in ogni
modo di evitare questa verifica sulle loro scelte.
A Roma invece, le privatizzazioni di Acea e Centrale del Latte
di Roma, fortemente volute dalla giunta Rutelli hanno superato di un soffio
la prova di due referendum popolari nel giugno ‘97, voluti ed imposti da un
ampio fronte di forze sociali.
Il fronte del SI alle privatizzazioni (PDS,Verdi, PPI etc.)
ha vinto sul NO con uno scarto irrisorio (51% contro il 49%).
Dopo aver “silenziato” per mesi la campagna referendaria e
lo scontro sulla privatizzazione di Acea e Centrale del Latte, nei giorni precedenti
al referendum sono pesantemente entrati in campo la Confindustria (e tutto il
suo apparato); ministri come Bassanini (consorte dell’assessora del Comune di
Roma Linda Lanzillotta, punta di lancia del fronte privatizzatore) che ha addirittura
modificato le leggi in materia referendaria per abbinare i referendum romani
a quelli nazionali di Pannella ottenendo così un depotenzionamento dell’iniziativa;
quotidiani influenti a Roma come Repubblica e Messaggero hanno
apertamente appoggiato le privatizzazioni della Giunta Rutelli. Le stesse e
famigerate “regole e trasparenza” a cui spesso ci si richiama sono state forzate
oltre misura.
E’ indicativo il fatto che due mesi dopo la vendita della Centrale
del Latte ai privati - voluta fortemente da Rutelli, PDS e Lanzillotta e realizzata
poche settimane dopo il referendum - questa operazione sia finita al centro
di una inchiesta della Commissione Antitrust perchè sta producendo, come
denunciato dal Comitato per il NO, una concentrazione sospetta sul mercato del
latte fresco tra Cirio e Parmalat, quest’ultima neo-proprietaria della Centrale
del Latte. Infine, ad aprile, è stata la stessa Commissione Europea a denunciare
le irregolarità della vendita ai privati della Centrale del Latte.
Sul fronte del No alle privatizzazioni, occorre registrare
la rilevante esperienza del fronte che ha dato vita al “ Comitato Acea-Centrale
del Latte pubbliche” (RdB, Cobas, Unione Popolare, settori dei Verdi, PRC, Codacons,
comitati di quartiere ma anche i Cristiano-Sociali) che ha condotto e gestito
mesi e mesi di iniziativa nella città.
Questa esperienza ha accumulato un patrimonio utilissimo per
la ripresa complessiva dell’iniziativa di un sindacalismo di base allergico
al politicismo e alle compatibilità.
Nel Comitato si è rivelata infatti decisiva l’autonomia rispetto
al modello di relazioni tradizionali della “politica” che ha impedito “inciuci”
e disimpegni in tutte le fasi dello scontro con la giunta Rutelli.
La composizione sociale del voto referendario sulle privatizzazioni,
corrisponde ad una netta spaccatura della società in un segmento parziale ma
indicativo come quello della metropoli romana.
I dati dei referendum sulle privatizzazioni
La ricerca incrocia infatti i dati sul tipo di lavoro, di condizione
abitativa e il livello di istruzione degli abitanti delle varie zone. Sono indicazioni
che saranno sistematizzate e approfondite ma che consentono di avere un quadro
abbastanza realistico.
Il fattore indicativo è che la società - su un tema dirimente
come quello delle privatizzazioni - si è spaccata sulla base degli interessi
materiali (una volta si diceva di classe) ed in piena “autonomia dal politico”.
Le zone che hanno votato No alle privatizzazioni corrispondono
infatti ai quartieri popolari della città in cui è più elevato il numero di
operai, dipendenti pubblici e dei servizi a rete, disoccupati. Sono quartieri
con una lunga tradizione di presenza della sinistra ma in cui - negli anni più
recenti - sta penetrando anche la destra, soprattutto AN.
Il SI alle privatizzazioni ha invece prevalso nelle zone tradizionalmente
ricche e di media borghesia in cui la presenza della destra - che pure si è
detta contraria alle privatizzazioni - ha un radicamento storico e profondo.
Da questi dati estremamente sommari, emerge che il No alle
privatizzazioni è stato forte nei quartieri operai, tra i lavoratori pubblici
e dei servizi . Indicativi sono i dati delle zone Casilina e Tiburtina dove
c’è una forte concentrazione operaia e il maggior numero di disoccupati. i SI
e i NO sono stati praticamente equivalenti in zone come Ostia (dove c’è una
forte concentrazione di lavoratori dell’aereoporto di Fiumicino ma anche di
commercianti legati all’attività turistica e balneare) o come Montesacro dove
convivono quartieri popolari e quartieri ricchi.
Emblematica anche la vittoria del NO a Cinecittà dove c’è una
forte concentrazione di case degli enti previdenziali e di lavoratori del pubblico
impiego.
Sul fronte del SI è evidente il rapporto tra risultato e composizione
sociale (liberi professionisti, dirigenti) dei quartieri delle zone “ricche”
del Centro e di Roma nord.
In sostanza i lavoratori e i settori popolari da una parte
e la borghesia dall’altra, hanno espresso il loro punto di vista sulla base
dei propri interessi materiali e di classe e indipendentemente dagli orientamenti
delle forze politiche.
Il 14 giugno a Roma si è perso per un soffio un referendum
importante ma si sono verificate delle condizioni interessanti per la capacità
del sindacalismo di base di “misurarsi con il territorio” e con settori sociali
più ampi di quelli tradizionalmente organizzati sul posto di lavoro.