Capitale, capitale intellettuale e risorse umane
Augusto Ricci
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“Non esistono storie irrilevanti.
Tutto è connesso con tutto.
Dovunque si cambi qualcosa, il cambiamento riguarda il tutto”.
da la “Morte della Pizia”.
F. Durrenwatt.
1. “Al povero va sempre male”
Non so Voi, ma a me capita sovente di leggere, magari di
corsa, qualcosa che ti colpisce, allora ritagli il giornale e metti l’articolo
da parte. Poi la vita ti prende e quasi lo dimentichi, ma in un angolino della
testa ci rimugini sopra, lo vai a verificare con il tuo quotidiano e con il tuo
capitale-sapere, grande o piccolo che sia, e può capitare che ti comincia a
tornare sempre più in mente, in maniera sempre più, per così dire
piacevolmente ossessiva, come “quel motivetto che mi piace tanto e che fa zum
zum zum” come dice la canzone.
A quel punto ti viene il desiderio di dare una realtà a
tutto ciò, come dire: dare il nome alla canzonetta dell’esempio.
Per essere più seri ed andare nel classico è null’altro
di quello che G.B.Vico descrive nelle “degnità”: “Gli uomini dapprima
osservano senza avvertire, quindi avvertono con animo perturbato e commosso,
infine ragionano con mente pura”. Comunque sia, la metti sul “faceto”
o sul “serio”, la musica è la stessa.
Qualche mese fa ho letto, su “Il Messaggero”, un articolo
di Antonio Golini dal titolo “Cambia il lavoro, è guerra tra generazioni”
il cui “occhiello” (che costituisce, essendo sopra il titolo, l’elemento
introduttivo dello stesso) esplicita molte cose recitando “Capitale umano e
capitale sociale”.
In questo scritto il Golini, in poche righe, magistralmente
compie un’analisi della nostra Società evidenziandone possibili tensioni,
legate vuoi al processo di individualismo, vuoi al cosiddetto scontro
generazionale giovani-anziani: “il processo di individualismo è irrefrenabile
e potrebbe portare al conflitto individuo contro società, che si aggiungerebbe
al conflitto giovani contro anziani”.
Le cause sono da lui individuate nel processo di un capitale
umano individualizzato fortemente crescente, in una maggiore attenzione dell’individuo
verso sè stesso, anche nella cura del proprio fisico e dell’immagine, ed
infine nella tesaurizzazione del patrimonio familiare “sicché anche un
giovane può contare, già nel presente, ed avendo un’aspettativa certa per il
futuro, su un patrimonio familiare di gran lunga maggiore di quello su cui
potevano contare quelli di una generazione fa”.
Il motivo potenzialmente detonante di tale situazione sono i
veloci e radicali mutamenti del contesto sociale: da un lato un ritmo di vita
per così dire rallentato relativo alle esigenze primarie dell’individuo
tutelato in qualche modo dall’ambito familiare, dall’altro lato un ritmo
esterno, o sociale sempre più velocizzato a motivo di una società sempre più
velocemente consumistica.
Interessanti mi sono apparse alcune apparenti contraddizioni:
da un lato, quello sociale, la generazione anziana diviene la parte aggredita da
quella dei giovani che vedo in un’immagine, impetuosi come le onde del mare
contro la diga del porto; dall’altro lato, la stessa generazione anziana nel
contesto familiare diviene invece il porto sicuro del giovane in una tutela,
forse più dannosa che efficace, a lungo potratta negli anni e nell’offerta di
una sicurezza economica, spesso modesta quale può essere la forza economica di
un genitore, spesso pensionato, alla quale il giovane attinge più per vivere la
sua vita che non per capitalizzarla per un suo inserimento sociale. Mi sembra di
assistere ad un passaggio dal Welfare State ad un Welfare family in un contesto,
alla fin fine, di Welfare dei Miserabili come ben detto da Rita Martufi e
Luciano Vasapollo.
Scontro generazionale si presenta anche sul problema delle
pensioni, perchè si crea, quasi, un senso di colpa negli anziani, stato che
coincide, quasi sempre, con quello di genitori, spesso di nonni, i quali
avvertono dall’informazione dei mass media di avere il torto di sopravvivere
troppo a lungo così che i giovani, coincidenti con il ruolo di figli e nipoti,
sono appesantiti dal fardello degli oneri per il pagamento delle pensioni.
Come se ciascuno con le proprie trattenute, nel periodo
lavorativo, non pre-pagasse la propria pensione!
“Al povero va sempre male”
Fasti 1, 218 - Ovidio
Al di là di un discorso etico: da che l’uomo è divenuto
un essere sociale, cioè da sempre, i giovani sono stati coinvolti, in maniera
talora del tutto personale, talora più collettiva, a costituire l’assicurazione
sociale della sopravvivenza delle generazioni anziane. Non dimentichiamoci che,
prima dell’Istituzione della pensione di Invalidità e Vecchiaia, del
Mussolini socialista, l’anziano che smetteva li lavorare, o che si ammalava,
se non aveva il sostegno dei figli, faceva, nel senso più letterale del
termine, la fame.
Da qui derivava la necessità dell’alto numero di figli,
ciascuno dei quali, appena autosufficiente per sè e la propria famiglia,
disponeva di una plusvalenza economica modesta che, solo se unita a quella di
tanti altri fratelli e sorelle, permetteva la sopravvivenza degli anziani.
Forse, per questi versi, si arriverà a pensare all’etica
dell’eutanasia ad una certa età ? Caro Nerone, non sei mai stato compreso!
Una curiosità su tutto ciò: visto che le donne vivono più a lungo degli
uomini, perchè si mandano in pensione prima che quest’ultimi?
Misteri, forse, di una tardo-galanteria?
Facezie a parte, si è comunque ribaltato, o si cerca di
ribaltare, un rapporto solidaristico intergenerazionale, che rinsalda i legami
affettivo-sociali, trasformandoli in un disagio tra generazioni che può
potenzialmente sfociare, come dice Golini, in un “conflitto giovani contro
anziani”.
Anche se i legami solidaristico-affettivi, alla fine,
riemergono sempre anche se racchiusi nell’ambito familiare anzichè in quello
sociale.
2. C’è Capitale e Capitale
Se per Capitale esprimiamo, tout court, “accumulo”,
allora c’è un solo modo di intenderci su tale vocabolo.
Come al solito, i “distinguo” avvengono quando apriamo il
capitolo, o, se volete, i files, che il vocabolo racchiude e guardiamo i
vari paragrafi : Capitale nell’accezione marxiana e marxista sta per accumulo
del plus valore della merce-lavoro non retribuito.
Capitale, come accumulo, è, però, anche quello
intellettuale che, secondo T.A. Stewart (1) “è tutto quel materiale
intellettuale-sapere-informazione, proprietà intellettuale, espressione che
può essere messo a frutto per creare ricchezza”.
È quello, per definizione dello studente che acquisisce
conoscenza: accumula sapere, per poi fruirne nel lavoro. È perciò tipicamente
“capitale umano” definito (abbiamo parlato di lavoro e pertanto rimaniamo in
tale ambito) da R. Martufi e L. Vasapollo (2, pag 116): “Capitale umano
intellettuale” che “è rappresentato da tutte le capacità delle persone
che agiscono in funzione delle logiche d’impresa e che sono in grado di
offrire soluzioni ai bisogni aziendali”.
Stewart (1, pag 234) ci dice però che “Le aziende non
sono proprietarie del capitale umano e del capitale clienti... esse condividono
la proprietà di questi patrimoni con i dipendenti, nel caso del capitale umano...”.
Questo capitale umano non solo appartiene, ma caratterizza,
quindi, l’individuo nei suoi due aspetti inscindibili di sé stesso e di
essere sociale, pertanto egli deve tendere per la sopravvivenza del suo sé ad
una sorta di imperativo etico di valorizzazione del suo capitale umano .
Esempi: Fichte quando afferma che l’io pone sé stesso e
che quando l’io pone il non io, pone di nuovo sé stesso; L’Osservatore
Romano quando pone a lato del suo titolo “ unisquisque faber fortunae suae
est”, ciascuno è artefice della propria sorte; quando si legge che il Mc
Donald, capostipite della omonima catena di punti di ristorazione, afferma che
preferisce cervelli medi che mettano in atto ciò che sanno piuttosto “che un
cervellone chiuso in una stanza” anche se qui mi ritorna in mente, come la
canzonetta, un’altra frase che per dignità del personaggio e schiettezza mi
piace infinitamente di più: “fate, fate e nun parlate” di Jacopone da Todi.
Tutti esempi che, seppur messi alla “rinfusa”, vorrebbero supportare la tesi
che sto cercando di esporre secondo la quale l’accesso alla conoscenza è non
solo un dovere dell’essere umano, ma è anche un suo preciso diritto da
salvaguardare non solo come patrimonio personale, ma anche come patrimonio della
intera Società, costituendo per questa una inesauribili risorsa che nasce
immateriale, ma non può, essendo comunque una forma di “energia”, che
tradursi in atti concreti, cioè quantizzabili.
La conoscenza non può non passare attraverso l’accesso all’informazione
che, pertanto, deve essere multipla, libera, corretta ed ad accesso universale,
poiché solo così l’essere umano può attualizzare il libero arbitrio, che a
mio avviso, lo caratterizza come tale, in una logica imprenditoriale del sé
alla Schumpeter in funzione della valorizzazione della propria libertà
individuale e di una azione sociale più ricca e compiuta.
Perché questo capitale umano non rimanga solo allo stato
potenziale e si attualizzi, in un sistema industriale, deve divenire (2, pag
117), secondo Martufi e Vasapollo un “ Capitale strutturale intellettuale”
che “è ciò che diffonde ed amplifica la potenzialità ed il valore del
capitale umano intellettuale e consente che venga usato e riusato per creare
valore, nuovo patrimonio aziendale”.
È a questo punto, nel contratto tra azienda e lavoratore che
si inserisce il concetto di rapporto oggettivato del lavoro che, divenuto merce,
e perciò soggetto al valore di scambio, può produrre plusvalore e dar luogo al
concetto di Capitale secondo Marx.
3. Sindacato si, sindacato no, quale sindacato?
Parlando di rapporto oggettivato del lavoro non si può non
parlare di contratto, e, conseguentemente, di quella forma storica di tutela dei
lavoratori che si identifica nel sindacato.
Oggi ha, però, ancora senso parlare di forma- sindacato del
‘900?
In una società che va sempre più destrutturandosi e
valorizzando le risorse immateriali a scapito di quelle materiali, un sindacato
inteso come l’“avvocato dei poveri” come titola un capitolo del suo libro
Cofferati (3, pag 157) che non tenga conto di questa realtà rischia di
divenire, od essere confinato, nella “riserva indiana”, come dice Trentin,
limitandosi solo all’area dell’industria.
Questa fino al recentissimo passato è, in effetti, stata l’emblematico,
se non l’unico, modello economico caratterizzante un periodo storico che
prende il nome; in essa si sono presentati più acutamente i problemi; in essa i
lavoratori hanno trovato la capacità, dovuta anche alla co-presenza fisica in
un luogo di tante persone ed alla forza numerica, di collettivizzare e quindi
poter esporre le proprie richieste ad una controparte anche essa fisicamente
rappresentata, e lì il sindacato nasce ed agisce come forza collettiva di
rappresentanza democratica a tutela dei lavoratori.
Il sindacato confederale ha, negli anni, un notevole sviluppo
raggiungendo traguardi notevoli, tra i quali mi sembra di poter annoverare la
Legge 300 del ’70 più nota come “Statuto dei Lavoratori”, come uno dei
momenti di massima collettivizzazione; Legge che oggi viene messa in discussione
sul, divenuto famoso, Art 18. È così che si ha il raggiungimento di cifre di
iscritti così numerosi da superare quelle di tutti i partiti politici, infatti,
per la Triplice, si parla di dieci milioni di iscritti (3, pag 172)
Una forza organizzata così fatta è, però, in crisi tanto
che nascono i sindacati autonomi, le rappresentanze di base etc, ed a ben
analizzare gli iscritti si nota che i pensionati costituiscono sempre di più la
parte numericamente preponderante.
Perché tanta disaffezione al Sindacato storico classico?
Tanti, e, certamente, molto meglio preparati e più
autorizzati a parlare di ciò che non il sottoscritto, sono al capezzale di
questo ammalato.
Mi si concedano alcune riflessioni: osservando i gruppi
sociali strutturati, dalla famiglia per arrivare a quelli dei lavoratori dei
più vari settori e in particolare nelle varie caratterizzazioni del terziario,
il fatto di vivere all’interno di questi gruppi può creare fisiologicamente
momenti di disagio interrelazionali tra i vari individui e parti sociali.
Aumentano le tensioni che oggi, sono, però, esponenzialmente esasperate a causa
della spinta della società a far chiudere in sé l’individuo ed a creare
repentini cambiamenti di stile di vita ampiamente radicati, e per questo
rassicuranti; vedi uno per tutti: la stabilità del posto di lavoro. Tutto ciò
fa si che non si riesce ad uscire da tali tensioni proprio perché, chiusi prima
in sé e poi nel gruppo, il malessere si vive in modo più soggettivo e,
perciò, emotivo, così che finisce per travalicare il “fatto” oggettivo
della causa del conflitto iniziale che molto spesso, nella realtà, può anche
essere addirittura banale.
Tale malessere inserito e radicatosi nel solo vissuto emotivo
giganteggia nel disagio esistenziale in questa società sicuramente perfettibile
che facendosi chiudere sempre più in noi stessi realizza il passaggio da “Società
reale” a “Società astratta”, secondo il concetto di F. Viola (4).
La tensione a questo punto divenuta totalmente immateriale
non potrà avere soluzioni oggettivate, cioè reali: la società molto attenta
al valore economico delle risorse immateriali è “stranamente” disattenta
all’importanza del valore del disagio esistenziale immateriale.
L’essere umano finisce, così, per render solo personali i
suoi disagi e li orizzontalizza, trasformandoli in una microconflittualità che
diviene perenne.
Il conflitto che nasce oggettivo, diviene emotivo e ciò non
ci permette di dar soluzione alla causa oggettiva, ma si tenta di risolverlo
agendo solo sull’emotività, cioè sull’effetto e non la causa.
Ciò facendo il problema non potrà che essere senza
soluzione e tendere non solo a perpetuarsi all’infinito, ma ad aumentare d’intensità
e si finirà per perdere completamente di vista il motivo che l’ha generato.
La cosa peggiore, però, è che, in questo mondo che ci isola sempre più, si
finisce per cercare di dare un senso al nostro vivere trovando una sorta di
auto-realizzazione proprio in questa micro-conflittualtà quotidiana,
frammentata e globalizzata allo stesso tempo (pure essa!) che possiamo definire
“da vicino di casa” e qualunquisticamente “Io, incompreso, solo contro
tutti”, poiché ciò finisce per essere l’unico momento emozionale ed
emotivo, non importa se negativo, per, in qualche modo, avere rapporti sociali
umanizzati, in altre parole per sentirci “in carne ed ossa”, come dice
Viola.
Se ciò vale per la sfera individuale, quando ci si inserice
in quella sociale si ha solo un altro modo di interagire: partecipare alle “mode”,
cioè ai riti di ri-tribalizzazione che la società consumistica del “villaggio
globale” ci offre, non importa a cosa siano riferiti, ma che ci ricreano quel
“sentir comune” che ci fa sentire nel “branco” rassicurandoci con la
partecipazione collettivizzata a fenomeni che traducono in moneta, cioè risorsa
materiale, il bisogno immateriale di partecipazione sociale; esempi possono
essere: i megaconcerti, i telefonini, fenomeni di collezioni tipo quelli degli
orologi Swatch, lo sport osservato e commentato, ma non praticato etc.
Caro nemico mio (non avversario!), vicino di casa, di lavoro
o di metropolitana, non importa, sei l’unico modo per sentirmi vivo e vero,
non scomparire!
Nel terzo quaderno dal carcere Gramsci riporta una frase da
“La vie de Goya” di Eugenio d’Ors: “Ci sono due modi di uccidere: uno
che si designa chiaramente con il verbo uccidere, l’altro che lo racchiude
invece dentro questo delicato eufemismo: “render la vita impossibile”. È
il modo d’assassinare lento ed oscuro che coinvolge una folla d’invisibili
complici” (Traduco direttamente la frase scritta in francese).
Quando leggo questa frase, pensando al luogo ed al motivo
della citazione, sento in me un gelo notandone oltretutto, purtroppo, la sua
attualità.
Il sindacato non può non tener presente questa realtà
sociale ed ad essa adeguarsi, per cui diviene imperativa la trasformazione da
“sindacato d’industria” tipico del mondo fordista-taylorista a sindacato
di “impresa diffusa nel sociale”.
È, comunque, come sempre, la struttura, nel nostro caso,
quella sindacale, che si deve adattare ai bisogni e non viceversa.
Quali sono i bisogni di chi si rivolge od iscrive ad un
sindacato?
Senz’altro dei bisogni materiali o primari: la tutela del
posto di lavoro, della categoria, il salario etc, ma poiché il concetto di
benessere sempre più implica una migliore qualità della vita e questa chiama
in causa dei beni immateriali è ad essi che occorre porre sempre più
attenzione e dare risposte valide.
Dare spazio maggiore “alle attività di servizio,
soprattutto quelle rivolte agli iscritti. I servizi fiscali e legali, ma forse
anche servizi di organizzazione del tempo libero o di assistenza sanitaria,
scolastica, professionale sia gestendoli direttamente sia fungendo da tramite
tra l’utenza e la strutture pubbliche e private presenti sul mercato”. ( 3,
pag 187).
Già in questa lunga citazione si vede la necessità d’intervenire
per rispondere a delle esigenze diverse da quelle che il sindacato ha intese
come di sua pertinenza; bisogni che esprimono l’esigenza di un miglioramento
della qualità della vita “in toto”, cioè anche fuori dell’attività
lavorativa. Anche qui, però, mi sembra che residui il modo di pensare in
termini di posizioni che entrano nella logica di mercato né più né meno alla
stregua di una terziarizzazione di servizi.
Leggo con molto più piacere....“Fungere da tramite”.
Meglio ancora sarebbe, per me, avere maggiore coraggio e far
sì che il sindacato s’interessi della persona che lavora come è nella più
piena accezione marxiana, e valorizzare i suoi bisogni immateriali, mai
accettandone la trasformazione in merce: guardandone, cioè, comunque, il valore
di scambio, ma dando “valore contrattuale” al suo valore d’uso.
Stranamente la monetizzazione, che dà il senso della
realtà, di un valore immateriale in una Società consumistica, non fa che
renderlo, invece, astratto, cioè ancora più immateriale, sempre secondo Viola,
poiché non gli dà “la giusta paga”: è come se ad un mercato volessimo far
barattare due oggetti dei quali i due proprietari non sanno, vicendevolmente,
che farsene. È un dialogo tra sordi!
Forse, veramente, in questa fase neo-sindacale nella quale la
quantizzazione che comunque occorre fare delle risorse immateriali per avere un
parametro di confrontabilità il più, possibile oggettivo e che, pur dando
soddisfazione al singolo, permetta un confronto di istanze collettive di base,
forse sarebbe meglio, per l’immateriale, contrattare in termini di baratto,
anziché di monetizzazione.
In questo caso posso scambiare un bene immateriale con un
altro bene anch’esso immateriale anche in una Società che monetizza tutto .
Gramsci scrive (6, Pag 160): ...occorre... “cioè che il
proletariato abbia coscienza di essere il protagonista di una lotta generale che
investe tutte le questioni più vitali dell’organizzazione sociale, cioè
abbia coscienza di lottare per il socialismo”
“A ciascuno il suo mestiere” dice Cofferati (3), ma da
cittadino e da lavoratore posso esprimere i miei bisogni individuali ai quali al
sindacato spetta il compito d’individuare quelli più generali per
collettivizzare le richieste.
Mi piacerebbe che il sindacato s’interessasse delle risorse
immateriali del tipo: la qualità ed i contenuti della formazione che non vorrei
solo finalizzati ad una mia produttività materiale immediata, ma che vada a
valorizzare il mio capitale intellettuale.
Ciò sia che io sia già inserito in un contesto lavorativo,
sia che sia studente: non è possibile che l’industria entri nella formazione
per il lavoro ed il sindacato non tuteli il pre-lavoratore!
Ciò non certo facendo corsi alternativi: una conflittualità
permanente stanca chi, come prima detto, è già immerso in una conflittualità
quotidiana.
L’eccesso e la polverizzazione degli impegni ai quali siamo
chiamati di persona, vedi per esempio il condominio, la scuola, il lavoro, il
comitato di quartiere, il sindacato e partito etc, fanno accadere la stessa cosa
che si verifica per l’informazione: oltre che fornire una informazione
deviata, il sistema più efficace per disinformare è bombardare, sommergere con
l’informazione, in quella che è ben definita da Ramonet come “censura
democratica” (7, pag 31).
Si dovrebbero rinvenire i bisogni immateriali
collettivizzandoli e valorizzandoli per es con il “baratto”, evitando, al
possibile che si divida il mondo del lavoro, come si assiste oggi, ove ci sono
categorie di lavoratori che godono di benefit materiali profondamente
diversificati ed ingiusti rispetto ad altri, più o meno mascherati da
riconoscimento monetizzato di vere, o presunte tali, cause immateriali.
Trovare il “bisogno-denominatore comune”, fosse per es.
il disagio esistenziale dell’isolamento, e tentare una risposta collettiva,
anche curando l’informazione e la comunicazione, evitando lo “spontaneismo”
ed il “volontarismo” (ben diverso dal volontariato!) cioè il “bergsonismo”
di Gramsci descritto ben ottanta anni fa in “L’ordine nuovo” del 2 Gennaio
1921 e ripreso nel Terzo quaderno dal carcere (6).
4. Riflessioni a margine...
“Il denaro parla, ma non pensa;
...le macchine eseguono...,
ma non inventano”. T. A. Stewart 1999
Oggi in una Società che si sta globalizzando,
flessibilizzando sempre più rapidamente con il concetto d’azienda che si va
modificando sempre di più nel “concetto d’impresa diffusa socialmente
nel tessuto territoriale” (8, pag 28) nella quale la cultura aziendale va
passando da un modello, più occidentale, di risorse tangibili, verso uno di
tipo più giapponese, basato maggiormente su quelle intangibili, prime fra tutte
l’informazione e la comunicazione si intravede così un momento
storico-sociale nel quale l’articolo di Golini mi induce ad avanzare un
momento speculativo che mi piacerebbe confrontare con i suggerimenti e le
critiche di chi stà leggendo.
*“Il vero viaggio di ricerca non consiste
nel cercare nuove terre,
ma nel guardare con nuovi occhi”. Marcel Proust
Vi ricordate il Piccolo Principe di Antoine de Saint-Exupery
quando chiedeva cosa rappresentasse il disegno che a prima vista sembrava un
cappello, ma che invece era il boa che aveva ingoiato l’elefante?
La lezione che ci vuol dare è che dobbiamo vedere “dentro”
le cose, magari con “nuovi occhi”, come dice Proust.
Ebbene, in tale visione, posso pensare che la Società
Capitalistica nata nell’800 stia partorendo al suo interno la presenza di un
profondo mutamento in senso democratico.
Una Società capitalistica che diffonde il suo pensiero
shumpeteriano portandolo a livello dell’agone quotidiano del singolo creando
tutti i presupposti perché il mercato del lavoro offra una minore resistenza,
vuoi per le difficoltà dell’accesso al lavoro stesso, per la mutata scelta
del capitale dal lavoro-sicurezza al lavoro-flessibile, e perciò mutevole e non
stabili, per la difficoltà in cui vivono anche le più classiche forme di
tutela di lavoratori, i sindacati confederali, storicamente nati e più
strutturati per una Società aziendalizzata e strutturata per classi
contrapposte, una società che trova resistenze affettivo-istintive di cui un
esempio è l’arroccamento nel Welfare familiare; che inventa continuamente “
parcheggi” per allungare l’ingresso nel mondo del lavoro di intere classi di
età, “parcheggi” che consistono essenzialmente in un prolungamento della
scolarizzazione per chi deve entrare nel mondo del lavoro e, per chi già c’è,
nella necessità di una formazione continua, che è alla base del lavoro
flessibile, tutto ciò, per quanto lo si possa, comunque, rendere “annacquato”
rappresenta pur sempre un maggior momento cognitivo che non può non portare ad
un aumento del Capitale Umano.
L’unico modo di sterilizzare tale capitale, impedendogli
che poi si possa realizzare in una azione individuale nel sociale, è quindi
collettivizzare l’operazione di “astrazione” che la Società può mettere
in atto.
Filippo Viola (4) con questo concetto intende la Società
astratta “non nel senso che è una società irreale, ma nel senso che fa
astrazione della realtà sociale” tale che sia la attività lavorativa sia la
vita di relazione, in sostanza la vita reale di ogni individuo, si definiscano
in termini di “indeterminazione sociale” scollegata dalle “donne ed uomini
in carne ed ossa”.
Tale modello di Società è formalmente democrazia, ma lo è
difficilmente nel concreto, e si esprime in Istituzioni che privilegiano il loro
valore di scambio (vedi Sylos Labini che dice che nella Pubblica Amministrazione
impera il concetto: “Prima Charitas, Charitas mei est”), rispetto a
quello d’uso, poiché questo apparterrebbe al mondo del concreto e del reale.
Un Capitale sociale, un accumulo, che aumenta nel tempo e nel
valore non può non creare tensione là dove non trovi il suo successivo,
fisiologico, corso attuativo, soprattutto se è Capitale Umano, nonostante tutti
i tentativi di fornire cognizioni settorializzate, finalizzate ad una conoscenza
limitata, nozionistica più che fornitrice di una metodologia di studio che
permetta successivamente un’autoattivazione sia speculativa sia di impiego di
risorse. Quasi che si lasci che la gente sappia, o presuma di sapere, senza
instillare il maieutizzante e stimolante momento di ricerca socratico del “so
di non sapere” che è alla base della ricerca continua, del momento critico e
che non può che condurre al momento dialettico del confronto.
Tuttavia, per fortuna, parliamo di esseri umani, perciò
pensanti poiché, come Viola mette all’inizio del Suo libro citato la seguente
frase di Karl Marx: “Presuppongo, naturalmente lettori che vogliano
imparare qualcosa di nuovo e che quindi vogliano anche pensare da sé”.
Più conoscenza si fornisce, più, prima o poi, questa non
può che indurre a pensare costituendone il pabulum predisponente ed essenziale,
come dice Dante, riferendosi all’Amore: “Amor che a nullo amato amar
perdona”, mentre gli antichi Greci parlavano della mitica fonte del
sapere, della conoscenza: la fonte Aretusa. Chi beveva la sua acqua era sempre
più assetato e sempre meno ne poteva fare a meno.
* “Chi non s’aspetta l’inaspettato
non scoprirà la Verità”. Eraclito
Non dimentichiamo che una delle motivazioni della Rivoluzione
Francese fu la compressione del Terzo Stato, il quale pagava le tasse, e non
aveva benefici, era interdetto alla gestione dello Stato, non poteva accedere ai
comandi militari.
Una compressione delle esigenze reali, un’astrazione troppo
spinta così come nella gestione delle risorse materiali avviene nelle per la
finanziarizzazione dell’economia, così come, parimenti, sta sempre più
avvenendo nei riguardi delle risorse umane non può che creare tensione in una
platea sempre, oltretutto, più preparata. Tanto più compressa, tanto più
preparata perché si sceglie la via dell’accumulazione, per quanto deviata e
deviante, ma che pur sempre basata sul il capitale intellettuale. La rottura
può avvenire quando tale capitale raggiunge il punto critico senza poter
divenire risorsa sociale. È come l’acqua in una diga, può divenire forza
motrice o sopra un certo limite rompe la diga.
* “Mentre un tempo, il fattore decisivo
della produzione era la terra
ed in seguito il capitale...
oggi il fattore decisivo
è sempre più l’uomo stesso,
cioè il suo sapere
Centesimus Annus, Joannes Paulus II, 1991
Tra le tante citazioni questa mi sembra altamente
significativa se anche la Chiesa, che ha sempre storicamente guardato, per lo
meno con diffidenza, al sapere dell’uomo, ne riconosce il valore definendolo
il “fattore decisivo”.
Le strategie di divisione, operate mediante tentativi di
chiusure individuali, tensioni tra generazioni, divisioni tra visioni
integraliste che sembravano appartenere solo al passato e che riemergono, non
devono farci cedere nel trabocchetto delle divisioni. Un’intervista a Michael
Hardt, autore con Toni Negri di “Empire”, pubblicata su Panorama del
13/9/2001 alla domanda sulla nuova situazione globale dice:
“Dal mio punto di vista, le proteste contro la “globalizzazione”
sono lotte per la libertà” - in che senso? Chiede l’intervistatore -
“contrariamente a ciò che dicono molti mass media, queste proteste non
sono rivolte contro la globalizzazione, dunque a favore di una globalizzazione
in generale, ma contro l’attuale forma di globalizzazione, dunque a favore di
una globalizzazione alternativa, che abbia come caratteristiche fondamentali l’uguaglianza
e la devianza. Mi rendo conto che si tratta di un obiettivo difficile, perfino
difficile da concepire.” (scusate le ripetizioni, ma riporto integralmente
la frase).
Se di primo acchitto l’idea non è assurda,
non avrà alcuna speranza. A. Einstein
La frase di Einstein sembra essere nello stesso tempo
risposta ed auspicio a quanto detto da Hardt che mi trova, su quanto sopra
esposto, d’accordo rispetto ad una società che diffonde il concetto d’impresa
nel sociale, la globalizzazione, che accumula e sfrutta capitale intellettuale,
che induce al consumismo di risorse materiali ed immateriali, che è all’opposto
dei valori dell’Umanizzazione poichè conduce all’astrazione, v. Viola,
delle “persone in carne ed ossa”, che rende il capitale sempre più
immateriale tramite la finanziarizzazione, il quale, comunque, ha i suoi effetti
materiali, in particolare negativi, assolutamente reali.
Riferimenti bibliografici
1) Stewart, T.A. Il Capitale intellettuale. La nuova
ricchezza, Ed. Ponte alla Grazie, Varese 1999
2) Martufi, R. - Vasapollo, L. Comunicazione
deviante, Ed. Mediaprint, Castel Madama, RM 2000
3) Cofferati S. - Sateriale G. A ciascuno il suo
mestiere, Ed. Arnoldo Mondadori, Milano 1997
4) Viola, F. La Società astratta, Edizioni
Associate, Roma 1991
5) Mc Luhan, M. Gli strumenti del comunicare,
EST. Milanostampa, Cuneo 1997
6) Cantucci, A.A. Gramsci. Le Opere. La prima
antologia di tutti gli scritti, Editori Riuniti, Pioltello. MI 1997
7) Ramonet, I. La tirannia della comunicazione, Ed.
Asterios. Trieste 1999
8) Martufi, R. - Vasapollo, L. Profit State, Ed.
La città del Sole, Napoli 1999