Neocorporatismo nazionale e le relazioni industriali europee
Luigi Cavallaro
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1. Ho la sensazione che ci sia della sostanza nell’attacco
senza precedenti che il Governo e la Confindustria hanno sferrato contro il più
grande sindacato confederale e che, al momento, ha prodotto la spaccatura fra le
tre centrali sindacali, con la Cisl e la Uil che, dopo molte
"resistenze" hanno firmato il "Patto per l’Italia". Una
sostanza che non è esclusivamente riconducibile al mai tramontato desiderio di
sbarazzarsi di ogni istanza sindacale e che, al contrario, cerca di fare i conti
seppure alla maniera padronale, cioè per le spicce e unilateralmente - con il
mutato scenario determinato dall’adesione alla moneta unica. Con la
conseguenza che la (giusta) prova di forza dello sciopero generale potrebbe non
essere sufficiente al sindacato per rispondere alle provocazioni
confindustrial-governative con le stesse parole che Fidel Castro pronunciò
davanti ai giudici che lo accusavano per l’assalto alla caserma del Moncada:
"La storia mi assolverà".
Una precisazione appare preliminare. Affrontando in un unico
contesto il mutato scenario determinato dall’adesione alla moneta unica e l’assalto
confindustriale al sistema delle relazioni industriali fin qui consolidato non
sto legando arbitrariamente vicende reciprocamente indifferenti. Al contrario,
essendo il denaro "capitale" (seppure dynámei, "in
potenza", come scriveva Marx) ed essendo il profitto (cioè il reddito del
capitale) in rapporto inverso col salario, è inevitabile che di valore della
moneta non possa parlarsi senza discutere del livello dei salari. I problemi,
caso mai, affiorano quando si cerca di spiegare in che modo le due variabili
sono connesse: qui le risposte divergono e questo non è precisamente uno di
quei campi in cui si possa dire bene della grande confusione che regna sotto il
cielo.
Schematizzando grossolanamente, comunque, sembra di poter
dividere il campo teorico fra due diversi paradigmi. Secondo il primo di essi,
il livello dei salari è determinato da forze economiche "oggettive"
(e precisamente dalla produttività marginale del lavoro), che i sindacati non
solo non possono modificare, ma addirittura sbagliano a contrastare. Ad avviso
dei suoi sostenitori, qualora i salari fossero spinti al di sopra del livello
concorrenziale, si innescherebbe una spirale inflazionistica, dovuta al
tentativo degli imprenditori di recuperare gli erosi margini di profitto
mediante aumenti dei prezzi. Ne seguirebbe l’aumento dei tassi d’interesse
da parte dell’autorità monetaria, che indurrebbe a sua volta una contrazione
del livello di attività delle industrie e una riduzione della domanda di
lavoro, finché l’accresciuta disoccupazione non facesse cadere il monte
globale dei salari; la pressione dell’esercito dei disoccupati alla ricerca di
un lavoro farebbe il resto e così i salari ritornerebbero presto o tardi al
livello precedente.
A questa tesi può obiettarsi - e storicamente è stato
obiettato - che, se anche fosse vera, non ne seguirebbe affatto che quello
concorrenziale sia un livello dei salari imposto dall’ordine naturale delle
cose e nemmeno che esso rappresenti il contributo dato dalla classe lavoratrice
alla società, se non nel senso generico che questa è la valutazione che un
mercato concorrenziale ha dato di esso in una data serie di circostanze [1]. In altre parole, anche se fosse vero che l’innalzamento
dei salari oltre un certo livello determina disoccupazione, sarebbe giusto tanto
affermare che causa di questa disoccupazione risiede negli alti salari, quanto
il dire che essa è dovuta all’elevato saggio di profitto che gli imprenditori
esigono per la remunerazione del loro capitale. Tanto più che un aumento dei
salari a scapito dei profitti, pur potendo determinare in astratto una
contrazione della capacità d’investimento della classe proprietaria, non
sarebbe necessariamente destinato a comportare effetti negativi sulla produzione
e sull’occupazione: i capitalisti, infatti, potrebbero investire una
proporzione del proprio reddito maggiore di quella precedente per compensare,
sotto forma di accresciuto consumo futuro, la diminuzione del consumo presente.
Secondo i critici, pertanto, il livello dei salari - e dunque
il suo reciproco, il valore della moneta - non è dato da alcuna forza
"oggettiva", bensì dai rapporti di forza fra capitalisti e salariati.
Tuttavia, la consapevolezza che il salario possa teoricamente variare "da
zero a uno" (come scrisse Sraffa) [2] non li
induce a ritenere possibile che il salario possa appropriarsi interamente del
sovrappiù: non solo perché in questo caso si dovrebbe rinunziare a qualsiasi
investimento, ma soprattutto perché la "variabile indipendente", in
un sistema capitalistico, non è il salario, ma il profitto, essendo
suscettibile di essere determinato da circostanze esterne al sistema della
produzione, e particolarmente dal livello dei tassi d’interesse. Ciò,
naturalmente, conduce ad attribuire una rilevante importanza alla politica
monetaria, giacché attraverso la manovra sulla liquidità la banca centrale
viene, di fatto, a gestire il conflitto di classe.
In un certo senso è sterile interrogarsi su quale di queste
teorie sia "giusta", l’evidenza empirica potendo essere piegata (e
storicamente essendo stata piegata) a giustificare ora l’una ora l’altra:
"se voi torturerete i dati abbastanza a lungo, essi confesseranno",
scrisse ironicamente Mayer (1980). Più opportuno può essere riflettere sul
fatto che esse, in buona sostanza, riflettono i due assetti delle relazioni
industriali che abbiamo sperimentato a partire dalla seconda metà del secolo
scorso: quello "americano", che non conosce la contrattazione
collettiva se non a livello aziendale e affida esclusivamente alla politica
monetaria la determinazione del valore della moneta (e la conseguente
distribuzione del reddito di pieno impiego) e quello "europeo", che al
contrario incarica la contrattazione collettiva nazionale della determinazione
di una distribuzione del reddito fra salari e profitti non inflazionistica e
lascia alla politica monetaria il più limitato compito di tenere il tasso d’interesse
sufficientemente basso per consentire alla spesa privata e a quella pubblica di
mantenere il sistema al livello di piena occupazione. (A scanso di equivoci,
preciso che quelli tracciati sono "modelli stilizzati": come i
"fatti stilizzati" di Kaldor, servono solo a comunicare rapidamente
certe cose prossime al vero senza perdersi in una pletora di dettagli.)
Così stando le cose, mi sembra evidente il motivo per cui
Confindustria (e il suo comitato d’affari, vale a dire il governo) ha sferrato
un così pesante attacco all’intero sistema delle relazioni industriali. Con l’istituzione
della moneta unica, gli Stati membri dell’Unione Europea sono stati privati
della leva della politica monetaria, essendo stata questa accentrata a
Francoforte. In mancanza di una contrattazione collettiva di livello
sovranazionale, e in presenza di rilevanti differenziali salariali fra paese e
paese, una politica monetaria rigida (o monetarista tout court) diventa pertanto
l’unico modo per garantire una distribuzione del reddito fra salari e profitti
non inflazionistica e omogenea a quella vigente negli altri paesi aventi
standard monetario analogo a quello dell’Unione. In questo quadro, un
contratto collettivo nazionale non serve più: è solo un impaccio, che obbliga
gli imprenditori a negoziare due volte sulla distribuzione dei redditi senza
averne alcuna contropartita in termini di bassi tassi d’interesse. Meglio
allora lasciare al livello aziendale la determinazione del salario e conservare
al livello nazionale il negoziato sulla sola "parte normativa" dei
contratti (o al massimo la determinazione di un "salario minimo", da
usare come parametro per la tutela giurisdizionale).
Si tratta, com’è chiaro, di un vero e proprio mutamento di
paradigma: la politica monetaria serve adesso a regolare la domanda per
prevenire l’inflazione, mentre il negoziato fra le parti sociali (ancorché
spacciato per "politica dei redditi") assolve al compito di perseguire
quella distribuzione del reddito fra (bassi) salari e (alti) profitti idonea a
realizzare il pieno impiego. Poco importa se si tratta di impiego precario e di
salari da fame: per gli imprenditori la domanda (di merci) è un dato non
modificabile e la loro risicata domanda di lavoro ne è effetto. Chi non ci sta
e pretende salario e diritti si arrangi: ci sarà sempre un Milton Friedman (o
un Michele Salvati o un Paolo Sylos Labini, per restare a casa nostra) pronto a
dire imputet sibi.
È dunque necessario mettere in guardia da semplificazioni
del tipo "l’euro è il benvenuto, il problema è il Patto di
stabilità": oggi il valore dell’euro dipende strettamente dal Patto di
stabilità, nel senso che una politica monetaria restrittiva è, allo stato, l’unica
garanzia circa la permanenza di un assetto distributivo fra classi
capitalistiche e classe salariata non solo non inflazionistico, ma soprattutto
conforme (seppure tendenzialmente) a quello vigente negli Stati Uniti, che oggi
detengono il ruolo di "direttore dell’orchestra internazionale". Non
si sottovaluti il problema: come spiegò Keynes (1930), in regime di libertà di
movimento dei capitali, i salari devono tendere ovunque allo stesso livello,
altrimenti i prestiti all’estero da parte di un paese in cui i salari siano
relativamente elevati tenderanno a eccedere la bilancia internazionale del paese
stesso, richiedendo così una deflazione dei profitti a salvaguardia del cambio,
finché non segua, attraverso la pressione della disoccupazione, una deflazione
dei redditi ed i salari non si portino allo stesso livello che altrove.
Una risposta "di sinistra" a questo stato di cose
potrebbe essere una "contrattazione collettiva europea", che tolga
alla Bce il compito di assicurare la stabilità dei prezzi e torni a scambiare
con il potere politico in termini di diritti e welfare. Ma su che basi? Quelle
esistenti, codificate nel Trattato di Amsterdam, offrono un valido punto di
partenza? E come si ripartiscono le forze sociali e politiche in campo rispetto
ad un obiettivo del genere? E, per contro, quali possono essere le conseguenze
di un rilancio del conflitto distributivo in un quadro come quello vigente?
2. Di contratti collettivi il Trattato di Amsterdam parla in
due norme, gli artt. 138 e 139, i quali disegnano due forme di negoziazione tra
le parti sociali, una volontaria e l’altra "indotta" dalla
Commissione. Entrambe possono portare alla stipula di un "contratto
collettivo comunitario": se esso viene effettivamente concluso - precisa l’art.
139 - la sua attuazione è rimessa o agli Stati membri (secondo le procedure e
le prassi vigenti in ciascuno di essi) o, se il contratto concerne taluna delle
materie di cui all’art. 137, ad una decisione del Consiglio dei ministri,
adottata su proposta della Commissione europea.
Già la previsione di siffatte "modalità di
attuazione" costituisce una spia significativa della non riconducibilità
del modello delineato nel Trattato alle prassi vigenti al livello degli Stati
membri fin dal sorgere delle moderne relazioni industriali. Pur con le
differenze fra common law anglosassone e diritto civile continentale, dottrina e
giurisprudenza europee sono state sostanzialmente concordi, infatti, nell’inquadrare
gli accordi collettivi nell’ambito del diritto comune dei contratti, spiegando
la conformazione dei rapporti di lavoro individuali al dictum del contratto
collettivo in virtù della delega a negoziare trattamenti economici e normativi
che i datori di lavoro e i lavoratori conferiscono alle organizzazioni sindacali
cui appartengono e che li vincola all’osservanza dell’accordo raggiunto,
così come il mandante è astretto dal contratto stipulato per suo conto dal
mandatario. Vero è che tale ricostruzione lasciava inspiegato quel fenomeno che
l’OCSE ha denominato "excess coverage", vale a dire l’estensione
di fatto dei trattamenti economici e normativi fissati dai contratti collettivi
anche ai non iscritti (si ricordi che, nonostante il declino del numero degli
appartenenti al sindacato, in Francia, Spagna e Germania l’excess coverage
riguarda più di due terzi dei lavoratori, poco meno del 50% in Italia) e che,
storicamente, ha rappresentato il presupposto per l’uso della contrattazione
collettiva per fini di politica economica generale; ma, quale che fosse il
meccanismo giuridico tramite il quale si perveniva all’estensione del
contratto ai lavoratori non sindacalizzati, un punto era ritenuto ormai
acquisito, e cioè la possibilità per un lavoratore o per un datore di lavoro
di invocare l’applicazione di clausole normative o salariali contenute in un
contratto collettivo sottoscritto da un’organizzazione sindacale della quale
egli fosse affiliato (non è un caso il paradigma comune alle relazioni
industriali europee sia stato elaborato da un giuslavorista che cumulava in sé
l’esperienza continentale e quella anglosassone, e cioè Sir Otto Kahn-Freund,
il quale - formatosi nella Germania weimariana - esercitò il magistero dell’insegnamento
a Londra e a Oxford, dov’era scappato durante il delirio nazista).
Questa possibilità è adesso preclusa per ciò che concerne
il "contratto collettivo europeo". Nella sua forma "pura" di
accordo fra la CES (Confederazione Europea Sindacale) e l’UNICE e il CEEP (che
raggruppano i datori di lavoro), esso non è infatti applicabile negli Stati
membri: occorre pur sempre la sua "traduzione" in accordi nazionali,
da stipularsi secondo le procedure e le prassi vigenti in ciascuno di essi. Il
che, ovviamente, è destinato a incidere negativamente sulla possibilità che si
possa usare lo strumento della negoziazione collettiva comunitaria per produrre
il "lavoratore comunitario" come soggetto dotato di eguali poteri,
eguali obblighi ed eguali diritti: senza il recepimento di siffatti accordi, i
giudici non potranno darvi ingresso nelle dispute portate innanzi a loro (Lo
Faro 1999). E posto che tale recepimento dipenderà dagli effettivi rapporti di
forza fra padronato e sindacati all’interno di ciascun paese, è possibile
che, invece di funzionare come strumento di unificazione delle tutele, il
contratto collettivo europeo possa risultare un veicolo di differenziazione
delle stesse, specie in un contesto come quello odierno, pesantemente
influenzato da una teoria economica che tende a riportare la disoccupazione ad
errati comportamenti dei lavoratori.
Diverso discorso (ma solo in parte) va fatto per quegli
accordi che si traducono in una decisione del Consiglio dei ministri. Se infatti
non può essere negata la loro attitudine a conformare le relazioni industriali
e i rapporti di lavoro individuali, anche qui va notata una duplice differenza
rispetto al modello prevalente in campo nazionale: da un lato, l’efficacia
conformativa si ricollega propriamente non all’accordo, ma al provvedimento
consiliare, per giunta adottato su proposta della Commissione (e proprio questo
potere di "proposta" ha dato modo alla Commissione europea di
arrogarsi discutibili potestà di controllo preventivo e successivo sul
contenuto dei contratti); dall’altro lato, gli accordi suscettibili di
tradursi in una decisione del Consiglio dei ministri possono concernere
esclusivamente le materie di cui all’art. 137 del Trattato e, non figurando
tra queste la materia salariale, resta escluso che per loro tramite possano
essere perseguiti obiettivi di politica dei redditi.
Tutto ciò rende evidente che, nonostante la situazione
normativa attuale valga a configurare la Commissione europea come principale
interlocutore della CES, siamo ben lungi da qualunque forma di neo-corporatismo
"progressivo" (à la Tarantelli, per intenderci) [3]. Innanzi tutto, perché l’esclusione della materia salariale dal
novero di quelle su cui può intervenire un accordo dotato (o meglio,
"dotabile") di efficacia vincolante esclude in radice che la
contrattazione collettiva europea possa fondatamente assumersi come obiettivo
una distribuzione del reddito non inflazionistica. In secondo luogo, perché la
Commissione non è dotata di risorse finanziarie che il sindacato possa
"scambiare" con il consenso ad una politica di stabilità dei prezzi,
onde la rinuncia alla lotta salariale non potrebbe avere come contropartita
alcun beneficio in termini di reddito "reale" (tale intendendo quello
al netto delle imposte e al lordo dei servizi sociali: scuola, sanità,
pensioni, trasporti pubblici, sussidi per la casa ecc.).
Secondo molti "antagonisti", il modello
neo-corporatista, associato alle "concessioni" del welfare state,
sarebbe stato lo strumento principale per comprimere le rivendicazioni dei
lavoratori entro moduli funzionali all’arricchimento dell’avversario di
classe. Se ciò fosse vero in assoluto, gli Stati Uniti dovrebbero avere il
welfare più progredito del mondo, sindacati confederali fortissimi e una banca
centrale per nulla interessata alle sorti dell’inflazione. Poiché così non
è, sorge il dubbio che simili spiegazioni non funzionino. Di fatto, oggi è il
padronato ad avere il maggior interesse a non replicare su scala europea i
modelli di relazioni industriali affermatisi nel secondo dopoguerra ed è per
questo che le organizzazioni datoriali "flirtano" pressoché ovunque
con i partiti nazionalisti: non esiste miglior pretesto di un mercato unico
senza un unico Stato per sbarazzarsi di quei vincoli che la tutela dei diritti
dei lavoratori e dei cittadini in genere ha posto alla libertà di fare impresa.
Uno studioso del calibro di Wolfgang Streeck, al riguardo, ha significativamente
parlato di "affinità elettiva" fra nazionalismo e liberismo [4]: sarebbe questo connubio (storicamente non inedito, in verità)
a impedire l’evoluzione della Comunità europea verso qualcosa di simile ad
uno Stato federale o ad una confederazione di Stati.
Se ciò è vero, la difesa delle sovranità nazionali e l’accelerazione
del processo di integrazione sotto la spinta dell’unificazione monetaria
rappresentano le due facce della medaglia della restaurazione conservatrice
(altro che "riformismo"!): ci si appella all’Europa per richiedere
flessibilità, salvo invocare "specificità nazionali" nei rari casi
in cui la regolazione europea è migliorativa di quella vigente (esemplare la
vicenda del decreto legislativo 626/94 sulla sicurezza nei luoghi di lavoro).
Un quadro del genere pone ovviamente grossi problemi di
strategia per quelle forze politiche e sociali che non ritengono che lo
smantellamento dei diritti e delle tutele dei lavoratori sia una conseguenza
incontrovertibile dell’adesione alla moneta unica. Ma, prima di tutto,
dovrebbe indurle a rivedere il proprio giudizio sul capitalismo attuale, che non
è espansivo e modernizzante, ma debole e pericoloso.
3. Nei fatti, comunque, se poche sembrano essere le speranze
per un’evoluzione delle relazioni industriali europee verso una qualche forma
di corporatismo "progressivo", non pochi indizi sembrano spingere il
quadro sociopolitico dell’Unione verso la restaurazione di forme
"regressive" di corporatismo, in cui cioè il mantenimento di istanze
di contrattazione centralizzata (ma a livello nazionale) assolve al ben diverso
obiettivo di assicurare una moderazione salariale sufficiente a garantire al
sistema delle imprese una distribuzione del reddito idonea a immunizzare gli
investimenti industriali dalle crescenti pretese della rendita finanziaria. Lo
conferma la lettura di due corposi rapporti scritti da un folto gruppo di
economisti, politologi e sociologi di diversi paesi (tra cui Lars Calmfors,
Michael Burda, Jelle Visser, Bernhard Ebbinghaus, Richard Freeman e i nostri
Daniele Checchi, Agar Brugiavini e Pietro Garibaldi), presentati in occasione di
un seminario promosso qualche tempo fa dalla Fondazione Rodolfo Debenedetti, poi
pubblicati nel 2001 dalla prestigiosa Oxford University Press e adesso tradotti
in un ricco volume per i tipi della Università Bocconi Editore [5].
Il punto di partenza da cui muove l’analisi dei due
rapporti è il declino del tasso di sindacalizzazione in tutta Europa, trascorso
dal picco del 45% raggiunto alla fine degli anni Settanta ad un più modesto
32-33% nel 1998 (in Italia, nel medesimo periodo, la percentuale di adesione ai
sindacati è calata di dodici punti percentuali, passando dal 50% della forza
lavoro attiva al 38%). Si tratta, secondo gli estensori del primo dei due
rapporti, di un trend pressoché irreversibile, a causa dell’aumento dei
lavoratori precari e degli addetti a settori in cui il sindacato è
"assente o invisibile", come il commercio, i servizi alla persona e,
in generale, le piccole imprese. Non solo, ma - considerato che la capacità di
reclutamento del sindacato è correlata positivamente al grado di
centralizzazione della contrattazione collettiva - è possibile che l’evoluzione
delle relazioni industriali verso un modello che privilegia la contrattazione
aziendale (come quello proposto da lunga pezza dalla Cisl) [6] finisca con l’espellere
il sindacato dalla maggior parte dei settori produttivi, concentrandone la
presenza all’interno delle imprese transnazionali e del (ridimensionato)
settore pubblico.
Il problema è che la decentralizzazione delle relazioni
industriali, per quanto attivamente ricercata dal sistema delle imprese, reca
per esse un pericolo. Un sindacato "aziendalista", infatti, non è
particolarmente incline a farsi carico del perseguimento di obiettivi di
carattere generale, come ad esempio una distribuzione del reddito non
inflazionistica. E in un contesto in cui tutti gli attori del sistema delle
relazioni industriali sono troppo "piccoli" rispetto all’autorità
monetaria, questa tendenza (come spiegò vent’anni fa Mancur Olson) [7] può generalizzarsi, nel senso che nessun sindacato si
preoccuperà del fatto che le sue richieste salariali, traducendosi in un
innalzamento dei prezzi delle merci finite, comportino l’innesco di spirali
"salari-salari" e "salari-prezzi": si moderino gli altri,
diamine!, perché proprio io?
Un’eventualità del genere, però, è seriamente
preoccupante per gli industriali europei, che hanno già compreso cosa vuol dire
il rigore nella conduzione della politica monetaria e sanno che ci vuol poco
perché la Bce rilevi pericoli d’inflazione e rialzi i tassi, frustrando le
loro aspettative di profitto a vantaggio della rendita. Ciò significa che essi,
pur privilegiando in assoluto la decentralizzazione delle relazioni industriali,
possono favorire l’istituzione di forme più elastiche di coordinamento, come
quella sperimentata nei "patti sociali" degli ultimi anni. Un simile
coordinamento, infatti, può consentire alle imprese di recuperare quanto
perduto a causa del trasferimento in sede europea delle decisioni di politica
monetaria, perché garantisce quella flessibilità dei salari monetari che si
pone come equivalente funzionale della svalutazione: quanto meno crescono i
salari monetari, tanto meno cresceranno i prezzi delle merci finite, sicché il
tasso d’inflazione vigente in ciascun paese dell’Unione finisce con il
rappresentare l’indice più evidente della sua capacità di
"invadere" con le proprie merci i mercati "amici".
Se è chiaro l’incentivo dei governi nazionali a promuovere
simili forme di accordi (di fatto, essi rappresentano l’unico succedaneo
disponibile di politica economica, dati i vincoli che alla politica fiscale
discendono dall’adesione al Patto di stabilità), meno evidente è l’interesse
che possono avervi i sindacati, per i quali il contenimento dei salari nominali
è un obiettivo che non solo comporta notevoli tensioni con la propria
"base", ma per di più - come ha scritto Colin Crouch (1998) - fa sì
che essi debbano accollarsi per intero lo stress e i conflitti che questa
singolare forma di "svalutazione competitiva" genererà (e sta già
generando) fra i lavoratori dell’Unione, con gli italiani chiamati a fare
sacrifici per compensare la minore inflazione tedesca, gli spagnoli per la
minore inflazione italiana e così via.
Come fare, allora, per indurre il sindacato ad accettare una
prospettiva del genere? Una risposta emerge netta nel volume ed è collegata all’adozione
di un particolare sistema di gestione dell’indennità di disoccupazione, il
cosiddetto "sistema Gand" (dal nome della cittadina belga dove esso fu
introdotto per la prima volta nel 1901). Si tratta di un programma di
assicurazione pubblica contro la disoccupazione di carattere volontario, ma
sostenuto dallo Stato e gestito direttamente dai sindacati o da fondi da essi
controllati. Un sistema del genere, si legge nel secondo dei due rapporti,
"potrebbe contrastare la tendenza alla formazione di un’economia duale,
in cui un numero crescente di lavoratori occupati con contratti a tempo
determinato si ritrova escluso dalla sfera di influenza del sindacato e dai
programmi di assicurazione forniti dallo stato sociale"8. I dati forniti,
infatti, suggeriscono che, nei paesi dove esso è vigente (Danimarca, Finlandia,
Svezia, Belgio), i tassi d’iscrizione al sindacato sono elevati non solo tra i
lavoratori regolari, ma anche tra i precari, sicché - prosegue il rapporto
citato - una misura del genere potrebbe rappresentare "un modo per
stabilire un contatto istituzionale tra sindacati e lavoratori precari, dato che
questi ultimi probabilmente sono molto interessati all’assicurazione contro la
disoccupazione" [8].
Un "sistema Gand", in effetti, assicurerebbe i
sindacati dal rischio di vedere scemare sempre più il numero dei propri
iscritti, il che lo rende ipso facto desiderabile da soggetti che - per dirla
ancora con Colin Crouch - temono in sommo grado la marginalizzazione subita dal
sindacato negli Usa e nel Regno Unito e sono disposti a consistenti sacrifici
pur di vedersi riconosciuto "un posto al tavolo" quando si discute di
affari legati all’economia nazionale [9]. Del resto,
considerando che le condizioni istituzionali necessarie perché si dia un’elevata
adesione al sindacato sono la possibilità di accesso nei luoghi di lavoro, un
elevato grado di centralizzazione della contrattazione collettiva e l’amministrazione
dell’indennità di disoccupazione, è verosimile attendersi che, a misura che
perde rilevanza la seconda di esse, il sindacato scommetta tutto sulla terza,
che - secondo le stime econometriche eseguite sui dati disponibili - favorirebbe
addirittura l’instaurarsi di una correlazione positiva fra tasso di
disoccupazione e tasso di sindacalizzazione.
Ma un "sistema Gand" favorirebbe indubbiamente
anche il governo, dal momento che il sindacato non potrebbe non farsi carico dei
vincoli di bilancio implicito nel finanziamento dell’indennità di
disoccupazione. E per questa via, la moderazione salariale necessaria ad
"anticipare" il rigore della Bce potrebbe raggiungersi senza ambagi,
derivandone ovvi benefici anche per la finanza pubblica, che ha tutto da perdere
(in termini di maggior servizio del debito) dal rigore dell’autorità
monetaria.
Era questa, in fondo, l’idea del povero Marco Biagi, prima
trasfusa nel Libro Bianco e adesso consacrata nel "Patto per l’Italia",
le cui "prime misure" in materia di welfare to work prevedono proprio
"programmi formativi a frequenza obbligatoria per i soggetti che
percepiscono l’indennità [di disoccupazione]" e la sperimentazione
"a livello provinciale" di "prime forme di bilateralità che
concorrano a definire l’orientamento formativo". E si comprende, alla
luce di quest’idea di fondo, che gli autori del volume in rassegna si
attendano che il sindacato del futuro assuma una configurazione che combinerà
quattro distinti ruoli - fornitore di servizi, controparte nella negoziazione
del salario a livello d’impresa (e, in misura minore, di settore), partner
dell’impresa all’interno di "coalizioni locali per la
produttività" e movimento politico e sociale a livello nazionale [10]. Così come si giustifica il drastico incipit
della prefazione di Tito Boeri al volume: i sindacati "sono spesso
considerati come un elemento fisso e immanente del panorama istituzionale
europeo, qualcosa come le Alpi o il Tamigi. Ma non è affatto detto che [...]
manterranno la loro influenza e il loro ruolo anche nell’Europa del futuro.
Non si può neanche essere certi che continueranno a esistere" [11]. Certo, non così come li abbiamo conosciuti, almeno quelli di noi che
sono nati dopo il fascismo.
Bibliografia
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1998 The Internationalisation of Industrial Relations in Europe: Prospects
and Problems, in "Politics and Society", vol. 26, n. 4.
Tarantelli, E.
1986 Economia politica del lavoro, Torino, UTET.
Appendice
Dal Trattato di Amsterdam
Art. 138
1. La Commissione ha il compito di promuovere la consultazione delle parti
sociali a livello comunitario e prende ogni misura utile per facilitarne il
dialogo provvedendo ad un sostegno equilibrato delle parti.
2. A tal fine la Commissione, prima di presentare proposte nel settore della
politica sociale, consulta le parti sociali sul possibile orientamento di
un’azione comunitaria.
3. Se, dopo tale consultazione, ritiene opportuna un’azione comunitaria, la
Commissione consulta le parti sociali sul contenuto della proposta prevista. Le
parti sociali trasmettono alla Commissione un parere o, se opportuno, una
raccomandazione.
4. In occasione della consultazione, le parti sociali possono informare la
Commissione della loro volontà di avviare il processo previsto dall’art. 139.
La durata della procedura non supera nove mesi, salvo proroga decisa in comune
dalle parti sociali e dalla Commissione.
Art. 139
1. Il dialogo fra le parti sociali a livello comunitario può condurre, se
queste lo desiderano, a relazioni contrattuali, ivi compresi accordi.
2. Gli accordi conclusi a livello comunitario sono attuati secondo le
procedure e le prassi proprie delle parti sociali e degli Stati membri o,
nell’ambito dei settori contemplati dall’art. 137, e a richiesta congiunta delle
parti firmatarie, in base ad una decisione del Consiglio su proposta della
Commissione.
3. Il Consiglio delibera a maggioranza qualificata, salvo che l’accordo in
questione contenga una o più disposizioni relative ad uno dei settori di cui
all’art. 137, paragrafo 3, nel qual caso esso delibera all’unanimità.
N.B.: i settori contemplati dall’art. 137, par. 3, sono i seguenti:
sicurezza sociale e protezione sociale dei lavoratori,
protezione dei lavoratori in caso di risoluzione del contratto di lavoro,
rappresentanza e difesa collettiva degli interessi dei lavoratori, compresa
la cogestione, fatto salvo il paragrafo 6,
condizioni d’impiego dei cittadini dei paesi terzi che soggiornano
legalmente nel territorio della Comunità,
contributi finanziari volti alla promozione dell’occupazione e alla
creazione di posti di lavoro, fatte salve le disposizioni relative al Fondo
sociale europeo.
Il paragrafo 6 dell’art. 137 dice:
Le disposizioni del presente articolo non si applicano alle retribuzioni, al
diritto di associazione, al diritto di sciopero né al diritto di serrata.
[1] Cfr.
Dobb 1959, trad. it., p. 131.
[2] Cfr. Sraffa 1960, p. 28.
[3] Cfr. Tarantelli
1986.
[4] Cfr.
Streeck 1998.
[5] Cfr. Boeri et
al. 2001.
[6] Per una critica del
quale cfr., eventualmente, Cavallaro 2001, pp. 93 sgg.
[7] Cfr.
Olson 1982.
[8] Ibid.
[9] Crouch 1998, p. 78.
[10] Boeri et
al. 2001, trad. it., p. 174.
[11] Ibid., p.
IX.