La presunta “fine” della questione meridionale nelle proiezioni volontaristiche di alcuni studiosi
Enrico Maria Mastroddi
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1. Una realtà sempre più problematica
I problemi del Mezzogiorno presentano oggi una tale
complessità da sospingere verso la ricerca di angolazioni analitiche nuove, che
tengano conto della possibilità e di indagare su quanto è stato fatto fino ad
oggi e di profilare delle proiezioni su quella che potrà essere un’azione
futura. Tra queste angolazioni ritengo assuma una portata del tutto particolare
quella che si incentra sul territorio, considerato “come la sede nella quale
si stabiliscono le collettività, e quindi come una realtà complessa che
registra e condiziona - ora immediatamente ora mediatamente -, le variabili
condizioni economiche e la dinamica sociale espressa dalle collettività stesse,
con le conseguenti tensioni politiche”.
Le parole sopra citate sono ricavate dal volume di Mauro
Fotia, Il Territorio Politico. Spazio, Società, Stato nel Mezzogiorno d’Italia [1]. Fin dall’inizio degli anni Ottanta si sono avuti studi che hanno
proposto un’interpretazione delle vicende economico-sociali e politiche del
Mezzogiorno secondo una chiave territoriale. Ma nessuno ha inteso il territorio
come fatto centrale e “fattore precipitante di una interpretazione che
vorrebbe inserire in esso una sollecitazione o istanza politica (...), per così
dire ultimativa” [2]. Fotia è il primo studioso italiano ad
assumere e sostenere che la conoscenza delle trasformazioni registrate dalla
società meridionale, soprattutto negli ultimi cinquant’anni, non può
avvenire all’infuori della dimensione territoriale. Il territorio è per lui
una realtà fatta non soltanto né principalmente di dati fisici e quantitativi,
ma anche e principalmente di processi economici, sociali e culturali.
Il secondo dopoguerra peraltro ripropone con forza il
problema della funzionalità sociale del territorio. Il progetto di sviluppo
dell’economia neocapitalistica ripropone infatti l’insieme degli
interrogativi posti dall’uso dello spazio in un modo così esplicito da non
lasciare adito alle assunzioni ideologiche che avevano dominato la cultura
urbanistica degli anni Venti e Trenta. E perciò, a partire dagli anni
Cinquanta, viene prendendo peso sempre maggiore un filone di studi
pluridisciplinari sul territorio, “studi che convergono operativamente nella
pianificazione fisica, intesa come disciplina della utilizzazione ottimale delle
risorse territoriali e urbane” [3]. L’evidenza di una tale
situazione sottolinea che gli studi sulla società meridionale contemporanea
debbano rivolgersi ad un sempre crescente dettaglio territoriale. L’articolazione
degli spazi meridionali appare ormai imprescindibile.
Occorre certo tenere costantemente presente il “filo rosso”
che tiene insieme il comune percorso di sviluppo delle varie regioni
meridionali. E qui il lavoro di Fotia sottolinea con forza come sia errata la
tesi di quegli economisti e sociologi secondo i quali oggi si profila una
pluralità di Mezzogiorni nel senso più rigoroso della parola. E tuttavia una
tale posizione non impedisce a lui di evidenziare che si riscontrano diversità,
anche di un certo rilievo, tra le molte aree geografiche che vengono a formare l’insieme
della realtà meridionale. Si possono aggregare, da un lato, Campania,
Basilicata e Calabria e, dall’altro, Abruzzo, Molise e Puglia; e cioè a dire,
un Mezzogiorno tirrenico e uno adriatico.
Lungo la direttrice adriatica appare in qualche modo
consolidato un allineamento di centri e di aree urbane di discreto livello
funzionale. La fascia costiera teramana ed il suo entroterra mutuano dalla
vicina realtà marchigiana non pochi modelli di comportamento imprenditoriale.
Così pure, più a Sud, appare irrobustito il distretto Pescara-Chieti,
caratterizzato dall’emergere di piccole e medie imprese in gran parte di
origine locale. Un tale insieme dinamico si estende sino al nucleo industriale
di Termoli mettendo insieme lungo decine di chilometri di costa valorizzazioni
turistiche ed iniziative industriali. Va aggiunta l’area emergente L’Aquila-
Sulmona - Castel di Sangro, la quale disegna una direttrice proiettata anche
verso Campobasso e Benevento e prefigurante una sorta di integrazione tra
sistemi locali del Mezzogiorno appenninico e aree urbane dei versanti adriatico
e tirrenico. Un tale processo positivo investe, come è noto, anche la Puglia,
dotata oltretutto di un’armatura urbana piuttosto soddisfacente. La direttrice
tirrenica invece presenta situazioni più problematiche. Il predominio dell’area
metropolitana di Napoli sull’insieme del territorio campano appare ancora
marcato, anche se l’area salernitana sta cercando di liberarsi dalla morsa
della metropoli. Cambiamenti sostanziali si registrano nel territorio interno
compreso tra le province di Avellino, Foggia e Potenza. A partire dagli anni
successivi al terremoto del 1980, un insieme di nuclei industriali è andato
formandosi lungo gli assi viari della A16 da un lato e dell’Ofantina bis dall’altro.
Né può tralasciarsi la considerazione dell’area del Vulture-melfese
caratterizzata dalla nota presenza dello stabilimento Fiat. La Calabria, all’estremo
della penisola, rimane invece la regione più problematica. Non soltanto si ha
una netta separazione tra spazio costiero e spazio interno, ma lo stesso spazio
costiero registra una notevole frammentazione. Resta da vedere se il recente
rilancio del porto di Gioia Tauro potrà rappresentare per l’intera regione
una risorsa per un riassetto territoriale ed economico complessivo [4].
Il Mezzogiorno insulare, infine - Sicilia e Sardegna -
presenta una realtà variegata, nel senso che ad aree sviluppate sul piano
industriale e del terziario turistico, particolarmente lungo le coste sarde,
unisce sacche di povertà e di arretratezza, che probabilmente si trascineranno
ancora per decenni.
2. Infrastrutture e dissesti idrici e ferroviari da Terzo
Mondo
La pesante situazione idrica esistente nel Mezzogiorno
investe sia le regioni dell’area tirrenica sia quelle della fascia adriatica.
Senza risparmiare le isole, in particolar modo la Sicilia.
Gravi sono al riguardo le situazioni infrastrutturali della
Basilicata la quale si presenta perciò come una regione in perenne sofferenza
nella sua agricoltura e nella zootecnia. In Calabria gli errori e gli sprechi di
denaro pubblico prodotti conducono ad una realtà intessuta di gravi disagi non
solo sul piano economico-produttivo ma anche sotto il profilo delle più
elementari esigenze della qualità di vita. La diga sul fiume Alaco, per fare un
esempio, prevedeva la data di completamento dei lavori al settembre del ‘97
con un costo preventivato di 7,6 miliardi di lire, ma ad oggi l’opera è
incompiuta. Nel frattempo sono stati spesi 103 miliardi di lire e per portare a
termine i lavori lo Stato dovrà spendere complessivamente 153 miliardi: venti
volte in più della cifra prevista in partenza. Analogo discorso va fatto per la
diga di Gioia Tauro costata 390 miliardi di lire a fronte dei 39 previsti. La
Puglia non si distanzia per quanto riguarda gli sprechi, gli investimenti
dissennati, dalle regioni tirreniche. Anzi, per riguardo agli sprechi, tra le
regioni del Sud sta al secondo posto. Al primo posto si colloca l’Abruzzo.
Come si vede, le due regioni meridionali celebrate come la punta di diamante
della linea adriatica, costitutiva di una immaginaria “terza Italia”,
presentano grandi contraddizioni e gravissimi ritardi rispetto al Centro.
Il noto acquedotto pugliese che eroga l’acqua in 429 Comuni
per 850.000 utenze appare come il monumento delle occasioni perdute. Da simbolo
del riscatto del Sud, esso è finito col disperdere metà dei 20.000 litri d’acqua
al secondo erogati. Eppure si tratta del più lungo acquedotto d’Europa, il
cui apparato burocratico amministrativo viene paragonato per peso ed importanza
ad un Ministero di prima fascia.
Disastrosa risulta la situazione della Sicilia. A metà
luglio del 2002 il Presidente della regione, nominato dal Governo Commissario
per la crisi idrica, ha commissionato all’Eni una prospezione del sottosuolo
dell’isola allo scopo di ricercare e captare bacini profondi. Al contempo egli
ha chiesto all’amministrazione centrale la moratoria di tasse, tributi,
ripiani di debiti, anticipazione per salvare agricoltura e zootecnia. Il giovane
governatore dimentica che i bacini d’acqua dolce sotterranei deve cercarli nel
suo archivio.
Alla fine degli anni Cinquanta l’Edison e subito dopo l’Agip,
con i soldi dell’erario, hanno eseguito le medesime ricerche da lui
commissionate. La prima individuò nella valle del Belice, epicentro della sete,
un “immenso mare dolce”, alla profondità di tremila metri ed alcuni fiumi
sotterranei. Perforando, l’acqua, per pressione naturale sarebbe risalita a
meno ottocento, le pompe avrebbero fatto il resto. La seconda indagine,
suddivisa in 12 faldoni e provvista di centinaia di carte geologiche è stata
consegnata quarant’anni fa dall’Agip alla Regione ed ai Comuni interessati.
Le indicazioni sono le stesse della ricerca Edison: l’acqua c’è, è dolce,
si sa dov’è; se ci verrà chiesto la porteremo in superficie. Non sono pochi
gli economisti, i sociologi, i politologi, gli opinionisti, i quali continuano a
chiedersi: c’è stata una logica in tutto questo? E la risposta è
affermativa. Captare un fiume sotterraneo ad una profondità di qualche migliaio
di metri costa a prezzi correnti tra 1 e 1,5 milioni di euro. Una diga costa
40-50 volte di più. Le dighe sono state gli affari d’oro degli anni Settanta
ed Ottanta. Le organizzazioni mafiose, tra subappalti e pizzo, hanno realizzato
ingenti profitti. Così si spiega perché non poche dighe dopo decenni risultano
ancora non collaudate. Dopo Amsterdam, Agrigento è la città più ricca d’acqua
d’Europa. Ma i laghi artificiali costruiti con le annesse dighe non sono
ancora collaudati o lo sono a metà. Quando piove, i laghi si riempiono e l’acqua
finisce a mare.
Il Sud appare fanalino di coda anche nel campo delle
infrastrutture ferroviarie. Per queste le FS hanno investito 19 mila miliardi di
vecchie lire, assai meno che al Centro e al Nord.
Certo la scelta della creazione di una grande rete
autostradale fatta dall’Italia ha ottemperato agli interessi delle grandi
industrie automobilistiche, della gomma e petrolifere. E ciò ha comportato il
sacrificio dei trasporti pubblici in generale e ferroviari in particolare.
[5] L’Italia ha un
doppio binario solo nel 39% della sua rete.
3. Carenza di fondazioni bancarie
Forte appare altresì lo squilibrio fra Centro-Nord e Sud nel
campo delle fondazioni bancarie: strutture operative di grande rilievo sotto
molteplici profili.
Delle ottantanove fondazioni di origine bancaria esistenti in
Italia solo undici operano nel Mezzogiorno. Dispongono di un patrimonio di 35
miliardi 399 milioni di euro, ma quelle meridionali mettono a malapena insieme 1
miliardo e 468 milioni di euro, il 4,1% del totale. Nel 2000 hanno erogato a
sostegno del volontariato e dell’assistenza, della ricerca scientifica, per la
conservazione del patrimonio artistico e per le altre attività culturali che
sono la ragion d’essere della loro esistenza, 1 miliardo e 18 milioni di euro.
Quelle del Sud solo 30 milioni di euro, pari al 3,2%.
E’ la fotografia di un’Italia spaccata in due anche nel
pianeta delle fondazioni, con un Nord e Centro ricchi di istituti e di risorse,
e un Sud povero di entrambi. Una situazione che ha radici lontane: nella storica
scarsa presenza di Casse di risparmio nel Mezzogiorno d’Italia, e nella
pessima gestione che ha caratterizzato alcune di queste. Così le fondazioni che
avevano come unica ricchezza le banche si sono trovate con il patrimonio
depauperato, se non addirittura azzerato. A metà degli anni ‘80 è saltata la
Carical (Cassa di risparmio della Calabria e Lucania), amministratori inquisiti,
commissariamento e la Banca d’Italia che fa intervenire la Cariplo per
salvarla, e garantire i depositi dei risparmiatori. Agli inizi degli anni ‘90
ancora la Cariplo “adotta” l’altra grande cassa di risparmio del Sud, la
Caripuglia, piena di perdite, che ripiana a più riprese. Passa solo qualche
anno e viene fuori la voragine dei conti del Banco di Napoli. La fondazione
viene liquidata con la sua quota con poco più di 60 miliardi di lire. Oggi il
più grande istituto di credito meridionale è del San Paolo di Torino. Cariplo
e Caripuglia del gruppo Banca Intesa di cui la fondazione Cariplo è azionista.
Il Banco di Sicilia è stato comprato dalla Banca di Roma, che ha tra i suoi
azionisti la fondazione Cassa di Risparmio di Roma.
Risultato: le grandi banche del Sud hanno oggi la testa nel
Nord. Sono state risanate grazie anche alla “legge Sindona”, quell’intervento
pubblico che ha garantito valanghe di crediti inesigibili accumulati durante le
crisi che hanno colpito l’economia del Sud più che nelle altre parti del
Paese. Oggi le fondazioni del Mezzogiorno devono accontentarsi di amministrare
quel poco che hanno realizzato dalla vendita delle loro partecipazioni. In
questa situazione si innesta la riforma Tremonti che, introducendo la riserva
dei due terzi delle poltrone degli organi di indirizzo delle fondazioni ai
rappresentanti degli enti locali, le mette automaticamente sotto il diretto
controllo di Regioni, Comuni e Province. Restringe l’ambito territoriale delle
attività degli enti ai rispettivi territori di riferimento, e impone il vincolo
di destinare almeno il 10 per cento del patrimonio alla realizzazione di
infrastrutture sempre nel territorio di propria pertinenza, quindi ciascuno a
casa propria, com’era nelle aspettative chiuse e retrive della Lega Nord.
4. Disoccupazione
Altri dati significativi sono quelli relativi alla mancanza
di lavoro e alla povertà.
Drammatica rimane nelle aree meridionali la realtà
lavorativa, soprattutto quella giovanile. L’Ocse ha affermato di recente che
la disoccupazione in Italia per i giovani tra i venti e i ventiquattro anni è
seconda solo alla Polonia. D’altro canto, è noto che la stragrande
maggioranza di tale disoccupazione si concentra nel Sud, toccando le punte più
alte in Calabria, Sicilia e Basilicata. Il disimpegno dello Stato e della
società a tale riguardo è pressoché totale. I giovani mostrano oggi l’attitudine
a rimboccarsi le maniche adeguandosi ai nuovi lavori. Mentre negli anni Ottanta
si chiudevano in casa, cedendo spesso alla depressione, oggi mostrano un vero e
proprio risveglio. E tuttavia le occasioni di lavoro continuano a scarseggiare.
In pratica solo il 38 % dei giovani al di sotto dei trenta anni riesce a vivere
senza chiedere aiuto alla famiglia. Occorre inoltre tenere presente i risvolti
negativi che il risveglio psicologico e l’adattamento dei giovani ad ogni tipo
di lavoro comportano sul piano degli equilibri psicologici e morali. Il
risveglio del quale parliamo comporta in realtà un grande spreco di risorse, la
perdita di valori e di culture di riferimento [6].
Non va dimenticato infine che in talune regioni meridionali,
quali la Sicilia, la Calabria, la Puglia e la Campania, si ha anche il fenomeno
del lavoro criminale. “Decine di migliaia di giovani disoccupati si arruolano
nei clan camorristici e nelle cosche mafiose dove molto spesso vengono adibiti
al ruolo di killer” [7].
Notevole è altresì nel Sud il lavoro sommerso. Esso assorbe
una parte rilevante dell’economia meridionale. La sola Basilicata presenta il
dato abnorme di una ricchezza complessiva sommersa che è dell’83%. Ad essa si
collega, come è ovvio, una rete di lavoro nero la cui entità appare smisurata,
anche se è difficile determinarne la precisa entità.
Il recente patto del lavoro, denominato “Patto per l’Italia”,
identifica un accordo sostanzialmente iniquo dal quale il Sud non potrà
derivarne speranze per il futuro lavorativo dei suoi giovani. Senza dire che la
filosofia di tale patto è quella di ingabbiare i sindacati, facendo di essi
degli enti parastatali o neocorporativi. Lo scopo finale è infatti quello di
eliminare i sindacati e di portare alla pratica di contratti individuali nei
quali ogni lavoratore instaura il suo rapporto da solo con il suo datore di
lavoro.
E’ palese che in un tale contesto i lavoratori meridionali,
i più deboli sulla scena nazionale, ed in particolare i lavoratori giovani,
saranno posti in una condizione di ulteriore servitù se non addirittura di
alienazione dalla loro dignità di uomini, prima ancora che di prestatori di
energie produttive [8].
5. Povertà
Nelle regioni meridionali cresce di conseguenza il numero dei
poveri, secondo i parametri noti dell’Istat. Trattasi di una povertà relativa
calcolata sulla spesa media mensile pro-capite per una famiglia di due
componenti. Ad essa si contrappone la povertà assoluta calcolata sul valore di
un paniere di beni e servizi indispensabili come cibo, sanità, abbigliamento.
Sempre per una famiglia di due persone.
La povertà relativa tocca nel Sud la percentuale del 24,3 %,
mentre al Nord si attesta al 5% e al Centro all’8,4%. La povertà assoluta
adegua nel Sud la soglia del 9,7 %, mentre nel Nord è pari all’1,3 % e al
Centro al 2,3%.
Come si vede, mentre la forbice tra Nord e Centro continua a
restringersi, quella tra Nord, Centro e Sud prosegue nella tendenza a dilatarsi.
Il 66% delle famiglie sotto la soglia della povertà relativa risiede nelle
regioni meridionali. In queste si registra altresì la maggiore concentrazione
delle famiglie assolutamente povere che sono il 71,1%.
Da ultimo, mentre a livello nazionale non fa nessuna
differenza se il capofamiglia è uomo o donna, la situazione cambia per il
Mezzogiorno, dove il 25 % dei nuclei familiari che hanno a capo una donna sono
poveri.
6. Divario Nord-Sud e perdurare dello sfruttamento
Rimane perciò il fatto che il Mezzogiorno nel suo insieme
presenta ancora forti elementi di distacco dal Nord. L’intervento
straordinario prima e quello ordinario, subentrato da alcuni anni, non solo non
hanno attivato un meccanismo di suo sviluppo autonomo, ma hanno addirittura
plasmato progressivamente un ambiente sociale sfavorevole allo sviluppo stesso.
Le ragioni fondamentali sono due. L’intervento pubblico, straordinario e
ordinario, anzitutto, assume carattere di sostegno dei redditi più che di
supporto a processi di sviluppo autonomo [9]. In secondo
luogo, si perpetua l’antica propensione a quella che Max Weber chiama “acquisitività
politica”, intendendo per essa la ricerca di un miglioramento di condizioni di
vita attraverso il controllo di risorse di potere politico sia legali che
illegali. Trattasi di una sindrome culturale perversa che coinvolge
imprenditori, professionisti, politici locali e nazionali e si apre alla
connivenza con le organizzazioni criminali [10]. Una tale sindrome sviluppa sia negli ambienti rurali [11] che in quelli urbani una conflittualità
non di rado vanificata nelle sue tensioni positive da un profondo senso di
frustrazione.
Non si può dunque consentire con chi parla della chiusura
della questione meridionale, ricorrendo addirittura alle espressioni di una “definitiva
fine” [12].
Semmai si può esser d’accordo con Gianfranco Viesti, il quale invita a
guardare al Sud come ad “un grande e differenziato laboratorio del
cambiamento, che può rivelare sorprese anche all’osservatore più attento e
che non merita didascalie sprezzanti o luoghi comuni di un passato ormai lontano”
[13].
Concetto questo presente peraltro in Mariano D’Antonio [14], e ancora più esplicitamente, in Mauro Fotia nel libro qui più
volte ricordato.
Il Mezzogiorno, in conclusione, resta un’area che appare
ancora oggi finalizzata ad un ruolo di sostanziale subalternità rispetto all’area
settentrionale del Paese. Soccorre dunque al riguardo la nozione di dipendenza
elaborata dalla sociologia e dall’analisi politologica per riguardo ai Paesi
del terzo mondo, in particolare per le nazioni del continente latino-americano.
L’incapacità strutturale della legislazione del secondo dopoguerra ad operare
un’autentica rinascita del Sud scaturisce dal condizionamento di ogni sua
forma di crescita “da parte di quel capitalismo monopolistico del Nord che ha
bisogno di estendere i suoi profitti dalle fabbriche a tutta la società ed in
particolare alle sue sezioni verticali ed orizzontali più deboli, integrandole
nei meccanismi di sviluppo complessivo ed introducendovi nuove contraddizioni”
[15].
[1] Esi,
terza edizione, Napoli, 1998, p.9 (del libro è annunciata la quarta
edizione).
[2] Ibidem, p.15.
[3] Ibidem, p.34.
[4] AA.VV.,
Percorsi a sud. Geografie e attori nelle strategie regionali del Mezzogiorno,
Fondazione Giovanni Agnelli, Torino, 1999, pp.2-7. Sull’argomento vedi ancora:
M.Fotia, Squilibri e governo del territorio nel Meridione d’Italia, “Sociologia
Urbana e Rurale”, 1982, n.8; L. Cafagna, Nord e Sud, Marsilio, Venezia,
1994.
[5] Cfr. di M.Fotia, Il Territorio politico, cit., lo stimolante paragrafo “Espansione
dell’industria meccanica e impoverimento del territorio”
[6] Cfr. M. Fotia, Il Territorio
Politico, cit., pp. 231-237.
[7] Ibidem, p.233.
[8] Sulle ragioni di fondo della disoccupazione nel Sud v. l’acuto
saggio di L.Cavallaro, La disoccupazione meridionale. Note per una ricerca, “Proteo”,
2002, n.1.
[9] C.Trigilia - I. Diamanti, Il mosaico
del Mezzogiorno, Fondazione Giovanni Agnelli, Torino, 1992, p.60.
[10] Cfr. l’analisi - rimasta
purtroppo, dopo numerosi anni amaramente attuale - di M. Fotia, Classe dirigente
e realtà socio-politica del Mezzogiorno, “ Rassegna Italiana di Sociologia”,
1974, n.4.
[11] Cfr. M.
Fotia, Conflittualità socio-politica nelle campagne calabresi, “Sociologia
Urbana e Rurale”, 1983, n.10-11.
[12] G.Fofi, Congedo: dopo la questione meridionale, in G.Fofi-A.Leogrande,
Nel Sud, senza bussola, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli, 2002, p.235.
[13] G. Viesti, Un Mezzogiorno diverso, “Il Mulino”, 2001, n.4, p.710.
[14] Il Mezzogiorno degli
anni Ottanta: dallo sviluppo imitativo allo sviluppo autocentrato, Angeli,
Milano, 1985.
[15] M. Fotia, Il Territorio Politico, cit. p.174.