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Privatizzazioni e mercati finanziari

Le parti che di seguito si presentano sono tratte da L. Vasapollo “Il sistema finanziario. Mercati e Prodotti”, Edizioni Lavoro, 1994, pagg. 87-89 e pagg.117-125.

Scopo di questo box informativo, come dell’altro curato da R.Martufi e L. Vasapollo, è quello di fornire delle definizioni di base che si ritengono utili per poter meglio comprendere alcune tecniche e strumenti riguardanti le operazioni sul capitale di rischio utilizzate nei processi di privatizzazione.

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Operazioni sul capitale di rischio

L’attualità in tema di privatizzazioni legato al riassetto della finanza pubblica, al risanamento e rilancio dell’attività d’impresa, ha portato a rifocalizzare l’attenzione, in particolare da parte degli operatori finanziari, su alcuni strumenti che facilitano l’acquisizione di partecipazioni di società di capitali.

Qualsiasi forma di finanziamento porta in sè l’elemento del rischio, che corrono tutti coloro che a titolo diverso conferiscono capitale all’azienda. Le operazioni finanziarie a pieno rischio sono quelle che riguardano in maniera specifica l’intervento sul capitale sociale o meglio sui mezzi propri.

Il capitale di rischio, o proprio, è la componente alla base della stessa attività aziendale e su questo poggiano le strategie di sviluppo sul mercato e l’intera pianificazione in termini economici, finanziari e produttivi. Ma una solida struttura in tutti gli elementi costituenti il patrimonio netto necessita di una significativa diversificazione nell’effettuazione degli interventi finanziari sul capitale di rischio, sia per quanto riguarda i prodotti e le modalità d’attuazione sia per ciò che concerne le figure di finanziatori e di intermediari.

I cosidetti finanziamenti a rischio pieno possono essere di origine interna: quando riguardano la formazione o l’incremento dei fondi di riserva del patrimonio netto che provocano l’afflusso di capitale fresco (come per esempio la funzione finanziaria svolta dal fondo di riserva sovrapprezzo azioni, o in modo indiretto il fondo rivalutazioni per conguaglio monetario); quando i finanziamenti a pieno rischio sono di origine esterna riguardano tutte le operazioni sui mezzi propri aziendali effettuati, appunto, da finanziatori esterni tramite interventi sul capitale azionario e le varie attività connesse al risck capital.

Per risk capital si intende un investimento finanziario in titoli azionari che ha come fine quello di apportare nuova “linfa vitale” ad una azienda già avviata; tale intervento finanziario si concretizza non solo accrescendo la disponibilità di capitale proprio dell’azienda ma anche mettendo a disposizione l’esperienza in campo finanziario del risk capitalist, al fine di creare per l’azienda nuove possibilità di finanziamento sul mercato dei capitali. L’obiettivo dell’operatore finanziario è quello di smobilizzare al momento opportuno il proprio investimento realizzando un capital gain.

Le modalità e le tipologie di acquisizione di capitale di rischio da fonti esterne sono molteplici in funzion delle diverse ipotesi e delle diverse finalità ed implicazioni connesse e caratterizzanti le varie fonti; si va dall’aumento diretto di capitale sociale, all’emissione di prestiti obbligazionari convertibili, a strategie di alleanze per far affluire capitali freschi, alla richiesta di prestiti finalizzati con garanzie reali ipotecarie, etc.

Il primo tentativo è sempre quello di canalizzare nuove risorse attraverso sottoscrizione di aumenti di capitale sociale. Le società quotate in Borsa sono favorite in tal senso dalle enormi possibilità che offre il mercato, mentre le società non quotate, né in Borsa né al ristretto, devono ricorrere a negoziazioni private al fine di acquisire nuovi soci, oppure di far apportare nuovi conferimenti ai vecchi.

Nel nostro Paese negli ultimi anni si è sviluppata una intensa attività di merchant banking che si è concretizzata nell’intervento in imprese ad alto potenziale di sviluppo con l’acquisizione temporanea di pacchetti azionari di minoranza anche per sostenere l’accesso in Borsa, in attività di consulenza e in varie attività di sollecitazione del mercato dei capitali ai fini di stimolare lo sviluppo aziendale. A tali iniziative se ne sono affiancate molte altre a carattere innovativo, che si vedranno nel seguito, e per le quali sono le società finanziarie, o più spesso gli istituti di credito e le società parabancarie, a ricoprire un ruolo centrale nell’intervento finanziario, oppure nella consulenza e assistenza.

Tecniche e prodotti innovativi per l’intervento sul capitale di rischio

In questi ultimi anni si vanno sempre più diffondendo nei mercati finanziari delle tecniche e dei prodotti ad alto contenuto innovativo e ad elevato rischio che hanno come obiettivo quello di intervenire sul capitale di rischio.

La merchant bank è una società di intermediazione finanziaria che si è molto sviluppata nei mercati anglosassoni al fine di effettuare investimenti nel capitale di rischio in aziende svolgenti perlopiù attività industriale e per effettuare attività di consulenza e collocamento di titoli azionari ed obbligazionari.

Con la delibera del CICR del 6/2/87 viene regolata anche nel nostro Paese l’attività di merchant banking svolta da intermediari creditizi (ad es. Mediobanca) che operano per la consulenza ed assistenza finanziaria alle imprese, per il reperimento fondi e l’organizzazione dell’emissione titoli, relativi al capi5tale proprio e al capitale di terzi. La banca d’affari può anche assumere temporaneamente obbligazioni e partecipazioni azionarie di imprese, per poi cederle nel mercato finanziario realizzando spesso consistenti guadagni in conto capitale (capital gains).

Gli interventi di merchant banking in Italia dovrebbero essere rivolti alle medie imprese non con finalità di salvataggio ma per favorire il loro ingresso nei mercati finanziari ufficiali. La banca d’affari non deve quindi mai agire come ente di gestione né favorire particolari aziende, poichè il proprio intervento deve essere improntato su criteri di redditività dell’investimento e frazionamento del rischio.

Le società finanziarie che svolgono attività di mechant banking (ormai in Italia sono molte sia di origine bancaria, sia più direttamente legate a grandi gruppi industriali) devono avere un capitale sociale non inferiore a 50 miliardi e non possono svolgere l’attività bancaria tradizionale; il servizio svolto per il reperimento del capitale di rischio ha carattere finanziario e non deve portare ad ingerenze nella gestione dell’azienda.

Ad alcune delle possibilità operative e dei servizi collaterali forniti dalle società finanziarie svolgenti attività di merchant banking, possono essere ricondotti altri strumenti che favoriscono il finanziamento per l’acquisizione di impresa e l’investimento in capitale di rischio.

Per Merger & Acquisition (M&A) si intendono tutte quelle operazioni di finanza straordinaria che portano alla fusione di due o più società. Merger è la fusione vera e propria e con tale operazione le società partecipanti alla fusione cessano la loro esistenza giuridica per far confluire i loro patrimoni in una nuova società. L’Acquisition è una forma di fusione per incorporazione in cui una società (l’incorporante) mantiene la propria identità giuridica annettendo altre società che cessano di esistere; in questo caso quindi non nasce una nuova società.

Molti sono i motivi che possono indurre le aziende a ricorrere ad operazioni di M&A che vanno da quelli di natura commerciale al fine di combattere la concorrenza; all’ottimizzazione del ciclo tecnologico e della potenzialità ed efficienza produttiva; fino a giungere a sempre più frequenti motivazioni legate al risanamento e consolidamento finanziario, come l’ottimizzazione della gestione di tesoreria, la determinazione di un corretto equilibrio fra mezzi propri e capitale di terzi, oppure per favorire l’accesso alla quotazione nei mercati mobiliari ufficiali.

Le peculiarità del nostro sistema economico-finanziario ed in particolare la non raggiunta maturità della nostra Borsa, la scarsa trasparenza e l’inadeguata informativa societaria, non hanno ancora permesso nel nostro Paese l’affermazione di una organizzata attività di M&A, che necessita anche di uno sviluppato e diversificato sistema di intermediazione finanziaria.

Investment banking: è un insieme di attività posto in essere dalle “banche di investimento” o da specifici settori delle banche commerciali per fornire a particolare clientela (wholesale, cioè investitori istituzionali, enti pubblici, grandi imprese) un insieme di servizi che vanno dal curare la sottoscrizione di azioni ed obbligazioni nel mercato primario, all’intermediazione sul mercato secondario dei titoli privati e pubblici, alle operazioni riguardanti prodotti di tesoreria e valute, fino ad effettuare consulenza in operazioni di finanza straordinaria come il Merger & Acquisition (fusioni e acquisizioni). Le “banche di investimento” svolgono un ruolo di primaria importanza nello sviluppo dei mercati e dei prodotti finanziari derivati e nel diffondere la “cultura” dell’innovazione finanziaria.

Venture capital: è un investimento effettuato da una società finanziaria, rivolto ad aziende giovani o da costituire, che si estrinseca in una partecipazione azionaria finalizzata al finanziamento in attività ed investimenti ad alto contenuto innovativo. Con il termine Venture capital può anche indicarsi una particolare società finanziaria specializzata in investimenti in capitale di rischio per il finanziamento di innovazioni senza il fine specifico di acquisire partecipazioni azionarie a fini strategici di controllo. Una volta lanciata e consolidata la nuova “idea-attività industriale” la società finanziaria cederà ai risparmiatori e/o investitori la propria partecipazione realizzando significativi guadagni in conto capitale.

Il Venture capitalist investe quindi in una idea-affare (business ideas) ad alto rischio e a carattere speculativo, con alte prospettive di reddito. La realizzazione di un capital gain avviene, una volta realizzati gli obiettivi, mediante la vendita del pacchetto azionario acquistato in precedenza. L’attività di venture capital è molto sviluppata negli USA, ma trova difficoltà di espansione in molti paesi europei ed in Italia, in particolare, dove le aziende preferiscono ricorrere all’autofinanziamento e all’indebitamento tramite prestiti bancari.

Ma il sostegno finanziario attraverso il canale bancario male si adatta alle società di nuova costituzione o quelle di piccola e media dimensione che basano il loro sviluppo su investimenti ad alta tecnologia e in settori particolarmente innovativi. In tali situazioni il sostegno finanziario può e deve avvenire ricorrendo perlopiù ad operazioni sul capitale di rischio. In tal senso bisognerebbe ricorrere ad operazioni di venture capital quando necessita un apporto di capitale di rischio (assumere cioè partecipazioni azionarie) in aziende di piccole e medie dimensioni, con forti possibilità di espansione, attuando strategie (nelle cui definizioni e attuazione il venture capitalist gioca un ruolo attivo) in cui prevalga l’attuazione di progetti innovativi ad alta tecnologia, tali da permettere al venture capitalist elevati guadagni in conto capitale realizzati tramite la vendita delle azioni quando l’azienda si sarà ben sviluppata.

Leverage buyout (LBO): è una tecnica di acquisto d’impresa che tende a minimizzare l’esposizione in capitale azionario, sfruttando la possibilità di indebitamento aziendale; a tal fine si ricercano finanziamenti garantiti dal valore patrimoniale delle attività aziendali. Praticamente si tratta di una operazione di acquisizione di un’azienda da parte di investitori che non hanno disponibilità finanziarie immediate e quindi fanno ricorso essenzialmente al capitale di prestito fornendo in garanzia la consistenza patrimoniale dell’azienda acquistata, e puntando con la nuova gestione a realizzare alti e rapidi risultati operativi in modo da poter far fronte in breve termine all’indebitamento assunto. Se l’acquisto dell’azienda è effettuato dal management dell’impresa interessata allora si ha il Management buyout (MBO). In quest’ultimo tipo di operazioni spesso interviene una società finanziaria che svolge compiti di assistenza, consulenza e finanziamento a managers che vogliono acquistare la società da loro diretta (o altra), attraverso operazioni di leverage buyout.

Essenzialmente si distinguono tre tipi di Leveraged/management buy-out financing, ed in tutti i casi gli operatori economici interessati all’acquisizione aziendale utilizzeranno operazioni di leveraged buy-out, avvalendosi, quindi, di varie forme di indebitamento, con un minimo ricorso al capitale di rischio e puntando su significativi flussi di reddito al fine di rimborsare i debiti. Si parlerà di Management buy-out propriamente detto se l’assunzione del pacchetto di maggioranza avviene da parte di managers o altri dirigenti interni all’azienda; nel Management buy-in i managers diventano imprenditori di una società di nuova costituzione, oppure l’acquisizione avviene da parte del management appartenente ad altra azienda (può essere anche costituito appositamente e comunque esterno all’impresa da acquistare); infine si ha il Family buy-out quando l’assunzione del pacchetto di maggioranza avviene da parte di alcuni membri (in sostanza gli altri membri vengono liquidati) della famiglia che era già proprietaria.

In merito alle Public Companies non esiste ancora in Italia una definitiva legislazione in materia.

Il 24 Settembre 1993 è stato effettuato il primo passo legislativo concreto in tema di privatizzazioni; in tale data infatti il Consiglio dei Ministri ha approvato un decreto legge che fa partire il processo di dismissione delle partecipazioni azionarie del Ministero del Tesoro, ponendo le basi per le privatizzazioni attraverso la nascita di public companies, puntando sull’azionariato diffuso realizzato con offerta pubblica di vendita (OPV) di azioni, con quote di partecipazione del singolo azionista che non devono superare una percentuale molto bassa del capitale sociale. Oltre ai limiti al possesso delle azioni, favorendo il piccolo azionista con le OPV e con la possibilità di concambio con i titoli di Stato, il decreto legge prevede per tutte le società da privatizzare (nella pratica si tratterà di ridefinire il profilo di molti dei colossi economici del Paese) clausole statutarie che ben si adattano alle public companies come: il “voto di lista che consente la rappresentanza nel consiglio di amministrazione delle minoranze, che possono così meglio controllare l’operato dei soci di maggioranza; norme semplificatrici per favorire fusioni, scorpori che possano precedere la dismissione vera e propria; inoltre sia nei quattro settori strategici dell’economia (difesa, trasporti, energia e telecomunicazioni), ma anche nelle banche e nelle assicurazioni, le società possono deliberare in assemblea straordinaria un limite massimo al possesso azionario riguardante qualsiasi socio, quindi anche al tesoro, eliminando così il vincolo del 51% di partecipazione dello Stato nelle banche pubbliche previsto nella cosiddetta legge-Amato.

In contropartita il Ministero del Tesoro si riserva dei poteri speciali di controllo nei quattro settori strategici dell’economia; tali poteri sono assimilabili alle golden share inglesi o francesi, ma la versione italiana non si concretizza in una riserva azionaria che conferisce diritti illimitati nel tempo. Infatti la golden share italiana riguarda soltanto le società dei quattro settori strategici dell’economia e per una durata massima di cinque anni, e si concretizza nei seguenti poteri speciali: il Tesoro, entro un termine di due mesi, può esprimere il gradimento all’acquisto di partecipazioni rilevanti (partecipazioni che superano il 10% del capitale sociale), l’acquirente dovrà cedere le azioni in eccesso entro tre mesi dalla data in cui il gradimento è stato rifiutato e non potrà esercitare i diritti di voto connessi con le azioni eccedenti; tra i diritti riservati vi è anche il veto che il Tesoro nei cinque anni può porre sullo scioglimento o liquidazione della società), sul trasferimento della sede sociale all’estero e sul cambiamento di oggetto sociale. Gli azionisti contrari a tali poteri speciali avranno riconosciuto il diritto di recesso. Per evitare le difficoltà di gestione connesse al frazionamento di azionisti, il decreto prevede che l’assemblea straordinaria in terza convocazione può deliberare con il voto dei soci che rappresentino più del 5% del capitale sociale.

Le public companies sono molto presenti nell’economia statunitense sotto forma di SpA quotate in Borsa a proprietà diffusa, quindi ad azionariato diffuso senza uno specifico gruppo di controllo. Spesso il controllo è esercitato dai managers e gli investimenti sono tutelati da una presenza istituzionale che detenendo azioni di privilegio, pilota le strategie di sviluppo. In tal modo si può indirizzare il pubblico risparmio verso forme di azionariato popolare e favorire l’azionariato da lavoro attraverso l’assegnazione gratuita e l’acquisto di azioni da parte dei dipendenti. Si può così promuovere la realizzazione della democrazia economica nel nostro Paese, contribuendo alla realizzazione delle Public Companies che potrebbe essere legata al “processo di privatizzazione” in atto.

In effetti già esiste la categoria di azioni da lavoro previste dal Codice Civile all’art. 2349 e almeno formalmente prevedono una partecipazione dei lavoratori alla gestione d’impresa attraverso l’assegnazione gratuita di azioni con dividendo proporzionale o privilegiato. Nella realtà si utilizza raramente tale strumento e comunque non incentivando il legame fra azienda e dipendenti, poiché nelle poche occasioni in cui si ricorre alle azioni da lavoro vengono associati ad esse diritti limitati rispetto alle azioni ordinarie (ad esempio possono non incorporare il diritto di voto nelle assemblee societarie negando di fatto la compartecipazione gestionale, e qualsiasi forma di controllo societario, ai loro detentori; inoltre possono essere intrasferibili per un certo numero di anni oppure essere trasferite, dietro autorizzazione degli amministratori, soltanto ad altri dipendenti). In questo modo l’azionariato dei lavoratori si realizza in una partecipazione solo apparente dei dipendenti alla gestione d’impresa, poiché nella realtà il tutto si concretizza con una assegnazione straordinaria di azioni gratuite ai lavoratori che hanno diritto di ottenere una prestabilita parte dei dividendi. Nonostante tutte le suddette limitazioni poco frequente è il ricorso alle azioni da lavoro da parte di SpA operanti nel nostro Paese, mentre il processo di modernizzazione della nostra economia necessita di una significativa promozione dell’azionariato popolare e di una più moderna concezione dell’azionariato dei lavoratori. Il problema delle public companies, e dell’azionariato popolare, era già presente, seppur in maniera indiretta, già nel programma del Governo Amato che prevedeva un piano di riforma globale del mercato finanziario. Ma quel piano di riforma, che vedeva nelle privatizzazioni il nocciolo centrale, è stato realizzato solo in piccola misura. In effetti non si è ancora sciolto il nodo di come attuare le privatizzazioni, anche perchè le public companies che potrebbero essere realizzate attraverso tale processo, hanno bisogno di un forte contributo e sviluppo della Borsa rimuovendo le cause legislative, politiche, economiche, fiscali e psicologiche che ne hanno impedito la crescita.

LE OFFERTE PUBBLICHE DI TITOLI

Le Offerte Pubbliche sono operazioni con le quali si invitano i risparmiatori all’acquisto, la vendita, la sottoscrizione, lo scambio di valori mobiliari - che incorporano diritto di voto - quotati in Borsa o presenti nel mercato ristretto.

L’offerta è pubblica perchè i risparmiatori ne devono essere messi a conoscenza tramite opportune forme e canali altamente divulgativi. Se l’offerta ha come fine l’acquisto di titoli dietro corrispettivo di denaro si parla di Offerta Pubblica d’Acquisto, mentre se la controprestazione è in altri titoli si ha l’Offerta Pubblica di Scambio; infine nel caso in cui il corrispettivo è parte in denaro parte in titoli si è in presenza della cosidetta Offerta Pubblica di acquisto e di Scambio.

L’Offerta Pubblica di Acquisto Titoli: è un invito ai vecchi azionisti a vendere, quindi la finalità dell’offerta è l’acquisto di un pacchetto di valori mobiliari, (azioni ordinarie, obbligazioni convertibili) generalmente con l’obiettivo di giungere al controllo della società, ma con la finalità di garantire pari condizioni ed opportunità ai potenziali partecipanti all’operazione, senza che i soli beneficiari siano i grandi e potenti gruppi economico-finanziari.. L’offerente deve indicare alla CONSOB il motivo dell’acquisto, i suoi programmi, il prezzo d’acquisto (di solito maggiore di quello di mercato) e la durata dell’offerta a quel prezzo prestabilito.

La legge 18 Febbraio 1992 n. 149 disciplina nel nostro Paese le Offerte Pubbliche di Acquisto (OPA), con l’intento di salvaguardare i piccoli azionisti garantendo loro parità di condizioni rispetto ai grandi gruppi nel caso di acquisto, sottoscrizione, vendita o scambio di valori mobiliari che consentono di acquisire diritto di voto (sono quindi escluse le azioni privilegiate e le azioni di risparmio). Tale normativa, approvata dopo i provvedimenti sulle SIM e contro l’insider trading, è parte integrante e fondamentale della riforma del mercato finanziario nel nostro Paese. La legge prevede quattro possibilità in cui il ricorso all’OPA diventa obbligatorio:

OPA Preventiva si ha quando un offerente vuole acquisire il pacchetto di maggioranza, o comunque ottenere anche indirettamente il controllo di una società quotata in Borsa o i cui titoli sono negoziati al mercato ristretto. In tal caso il potenziale acquirente deve lanciare un’OPA sulle azioni con diritto di voto all’assemblea ordinaria (e se ci sono, sulle obbligazioni convertibili in azioni con diritto di voto in assemblea ordinaria, o su diritti rappresentativi). Il quantitativo minimo di azioni da acquistare deve essere il 10% del capitale sociale, o del prestito obbligazionario, qualunque sia la quota di proprietà o di possesso detenuta già dal potenziale acquirente. Se non è individuato l’azionista di controllo, l’OPA rimane obbligatoria se l’offerente vuole acquistare una partecipazione maggiore o uguale di quella posseduta dall’azionista di maggioranza relativa.

OPA Incrementale di Semicontrollo è obbligatoria per chi è già in possesso di almeno il 50% di azioni con diritto di voto necessarie per poter esercitare il controllo diretto o indiretto della società, e vuole acquistare oltre un quinto dei titoli posseduti e comunque almeno il 2% del capitale sociale.

OPA Successiva si ha quando il soggetto ha superato i limiti di acquisto previsti dalle precedenti OPA operando anche fuori della Borsa e dal mercato ristretto, allora ha l’obbligo di lanciare un’OPA, entro 30 giorni da quando ha superato il limite previsto, per un quantitativo di titoli uguale o maggiore a quello acquistato fuori dai due precedenti mercati e per un prezzo non inferiore al prezzo medio d’acquisto.

OPA Residuale è prevista quando un soggetto ha raggiunto il controllo, diretto o indiretto, di una società quotata in Borsa o al mercato ristretto, anche attraverso i tipi di OPA precedenti. In tal caso quando il flottante residuo è inferiore al 10%, corre allora l’obbligo per il soggetto di lanciare un’OPA su tutti i titoli rimanenti al prezzo prefissato dalla CONSOB.

Per il classamento delle azioni esistono due tipi di offerte pubbliche:

L’Offerta Pubblica di Sottoscrizione (OPS):

si ha in fase di aumento del capitale sociale e consiste nel collocare sul mercato da parte della società (offerente) un certo quantitativo di titoli di nuova emissione ad un prezzo prefissato, con rinuncia dei vecchi azionisti a far valere, in tutto o in parte, il diritto d’opzione. La finalità è quindi quella di permettere l’ingresso di nuovi azionisti ottenendo un afflusso di risorse finanziarie fresche con aumento del capitale di rischio.

L’Offerta Pubblica di Vendita (OPV):

si ha quando i risparmiatori sono invitati ad acquistare una certa quantità di titoli già in circolazione, ad un prezzo prefissato e che rimane tale per un certo periodo di tempo. Generalmente gli offerenti sono vecchi azionisti e l’obiettivo è quello di allargare e diffondere la “proprietà” dell’azienda ad un vasto numero di risparmiatori. E’ uno degli strumenti che da più parti viene sollecitato per l’attuazione del piano di privatizzazioni nel nostro Paese, e che può essere in grado di favorire la costituzione di public companies attraverso l’azionariato popolare.

 

 

 

 

 

 

Le diverse forme di privatizzazione

 

 

 

 

di R.Martufi e L. Vasapollo

In ogni caso il processo di privatizzazione, sia d’impresa sia del welfare, ad inizio anni ’80 accentua un percorso attuativo con tempi, modalità e forme differenti.

Va ricordato, allora che il concetto di privatizzazione può essere inteso in modi diversi.

Da un lato vi è la privatizzazione sostanziale [1] nel caso in cui la gestione dell’impresa viene assunta totalmente dai privati, ossia si attua una vero e proprio trasferimento della proprietà dall’azienda pubblica al settore privato. In questo caso le privatizzazioni, attuate attraverso una cooperazione tra pubblico e privato, consentono allo Stato di garantire un servizio, limitando il suo ruolo a semplice regolatore delle prestazioni offerte dall’operatore privato. La principale differenza tra la privatizzazione sostanziale e le altre forme di privatizzazione si può rilevare nel fatto che in questo caso il privato diviene a tutti gli effetti titolare della proprietà. Sono diversi i motivi che possono indurre a questa scelta: oltre all’aumento delle entrate del bilancio pubblico e al contenimento del debito pubblico, vi può essere anche la volontà di decentrare l’economia, oppure di limitare l’attività in un determinato settore ritenuto non redditizio ed efficiente.

La privatizzazione sostanziale si caratterizza rispetto alle altre tecniche per una maggiore complessità decisionale, che si collega ad una più elevata complessità procedurale.

La prima fase del processo di privatizzazione sostanziale è la selezione delle attività oggetto di cessione. Le attività cedute, infatti, devono essere le più idonee in funzione agli scopi che la privatizzazione si pone e agli effetti che ne possono derivare; se la cessione delle attività è parziale, ad esempio, non deve verificarsi un aumento dei costi necessari per la gestione delle attività rimaste, né una riduzione di quelle residue in portafoglio.

In secondo luogo si procede ad una verifica dei presupposti giuridici della privatizzazione; è necessario infatti che vi sia una libera trasferibilità dei diritti di proprietà. La transazione ha, quindi, come oggetto i diritti di proprietà, il sistema dei controlli e degli incentivi, che dopo la cessione divengono di pertinenza dei mercati finanziari (ci si riferisce alla natura dei finanziamenti, alla tenuta dei documenti di bilancio e compilazione di quelli contabili).

La terza fase del processo di privatizzazione è rappresentata dalla verifica dei presupposti economici della cessione; in questo senso si prefigurano a priori interventi di risanamento economico-finanziario diventano necessari per rendere ottime le condizioni dello scambio.

Vi sono poi una serie di fasi successive che risultano essere interdipendenti tra loro e che attengono all’entità del valore della proprietà da vendere, all’individuazione delle tecniche di cessione e alla definizione del tempo necessario per la vendita.

Va rilevato che il trasferimento della proprietà può essere totale o parziale ed interessare una quota di maggioranza o di minoranza; la scelta tra le due alternative dipende dall’interesse che ha lo Stato di mantenere o meno un controllo sulle attività cedute.

E’ chiaro inoltre che la possibilità di cessione di un’impresa pubblica, o anche di un servizio o attività pubblica, dipende dalla sua performance economica attuale e/o attesa: un’impresa sana dal punto di vista economico avrà molte più opportunità di essere ceduta di un’altra che invece si trova in condizioni di perdita e con poche possibilità di efficienza remunerativa; spesso però anche un’impresa poco “allettante” può rappresentare un investimento ad ampie possibilità di rientro e di espansione se il compratore è convinto di poter realizzare sinergie con la propria attività originaria, tali da permettere forti incrementi di redditività complessiva.

Le modalità scelte per la vendita condizionano la tecnica di valutazione dell’impresa: nell’ipotesi di collocamento azionario, ad esempio, il valore dell’azienda è fissato facendo ricorso ai metodi diretti di valutazione. Si utilizzano così criteri classici del mercato mobiliare, anche se questi non sempre rappresentano un appropriato riferimento. I criteri di valutazione utilizzati nella vendita diretta di solito sono metodi di valutazione analitica (criteri di tipo reddituale, patrimoniale e finanziario). Il criterio patrimoniale, non particolarmente significativo ai fini di una valutazione, si basa sulla determinazione del valore del patrimonio netto attraverso la considerazione del valore dell’avviamento dell’impresa; i criteri reddituali e finanziari, invece sono più adatti in quanto sono basati su informazioni attuali e prospettiche di reddito (nel primo caso) e di cassa ( nel secondo caso).

Oltre la privatizzazione sostanziale, vanno poi considerate le cosiddette forme “deboli” di privatizzazione. Queste sono così chiamate in quanto l’attività dell’impresa viene solo modificata per consentire una gestione più vicina alle compatibilità del mercato (rispettando cioè criteri di economicità, efficienza, profitto, competitività). Si parla in questo caso di privatizzazione indiretta. [2] Questa categoria riguarda tutte le forme di privatizzazione che mirano alla trasformazione delle formule di gestione delle imprese pubbliche lasciando però inalterato, almeno per quanto riguarda i pacchetti di controllo, il profilo degli assetti proprietari.

Tra i principali interventi di privatizzazione indiretta vanno ricordati :

1) L’apertura del monopolio alla concorrenza

Questo tipo di privatizzazione attua la rimozione delle barriere istituzionali sulle quali il monopolio basa la sua esistenza. Questo permette ai privati di intervenire nel mercato con l’obiettivo di migliorare l’efficienza dell’offerta e l’attuazione di contemporanee opportunità di profitto per le imprese entranti. Nella realtà questa modalità è stata utilizzata nel campo delle public utilities, in modo che la scelta del consumatore possa essere attuata attraverso un confronto qualità/prezzo del servizio offerto da operatori diversi; al momento del consumo in sostanza l’utente si trova a scegliere fra l’offerta pubblica, libera e quella privata , a pagamento.

2) la Deregolamentazione

Questa modalità di privatizzazione consiste in qualsiasi tentativo di ridurre le limitazioni indesiderate alla condotta privata. Si tratta quindi di una liberalizzazione dei mercati e l’eliminazione dei “privilegi” posti a favore dell’impresa pubblica; si tratta, in pratica, di un abbattimento di regole che definivano le condizioni di ingresso o di comportamento economico in un determinato comparto produttivo a vantaggio del settore pubblico o di privati che operano in regime di quasi-monopolio o comunque in situazioni che ostacolano la libera concorrenza.

La deregolamentazione prende in considerazione l’abolizione del regime dei controlli dei prezzi, dei divieti di accordi tra imprese, delle licenze ed autorizzazioni. La modalità della deregulation si è sviluppata soprattutto negli Stati Uniti negli anni ’70 con l’obiettivo di massimizzare l’efficienza allocativa del mercato, eliminando restrizioni che erano considerate dannose alla concorrenza. In questa situazione è proprio attraverso l’intervento dello Stato che ritenta di garantire la concorrenza (intervento antitrust) e sanare i difetti del mercato libero e non regolamentato.

3) La modificazione delle modalità di prelievo del corrispettivo per l’acquisto di beni e servizi

Le condizioni necessarie per l’apertura del mercato alla competizione vengono create con la sostituzione del pagamento diretto all’atto del consumo a quello indiretto attraverso l’imposizione fiscale. Un altro strumento utilizzato per questo scopo è rappresentato dal “voucher”(o “buono”), attraverso il quale lo Stato rimborsa l’utente del prezzo pagato per un servizio; gli utenti potranno in questo caso utilizzare i loro buoni per coprire parte del costo o per comprare il servizio privatamente.

4) La privatizzazione incrementale

Questa tecnica consiste nel conferimento a privati di parte del capitale azionario, al fine di utilizzare tali nuove fonti di capitale per l’incremento degli investimenti, effettuando così delle operazioni utili al potenziamento delle attività. In questo caso l’operatore pubblico deve impegnarsi a sottoscrivere degli aumenti di capitale delle proprie aziende e deve riservare una parte consistente di emissioni agli operatori privati.

5) La privatizzazione fredda

In questo caso vengono introdotti degli obiettivi di tipo privatistico nella gestione delle aziende pubbliche, attuando nel contempo una conseguente trasformazione delle tecniche di conduzione delle imprese stesse. Questa modalità non prevede il trasferimento di proprietà ma solo un allargamento delle autonomie decisionali dell’impresa; inoltre attraverso la deburocratizzazione del processo decisionale si ottiene una “maggiore responsabilizzazione dei diversi soggetti agenti, una più elevata rispondenza delle decisioni alle esigenze strategiche, un più pronto riadeguamento dell’orientamento strategico dell’impresa alla modificazione delle variabili esterne...vi è poi un ....allineamento delle politiche occupazionali, salariali e degli investimenti alla condotta delle imprese private”. [3]

6) La privatizzazione formale

Questo metodo consente alle imprese di operare secondo le regole del diritto privato pur avendo come principale azionista lo Stato (es. trasformazioni in società per azioni), in modo di tentare di sfruttare la migliore flessibilità funzionale dell’assetto privato (soprattutto riguardo agli assetti proprietari e al capitale).

7) La privatizzazione funzionale

Nella privatizzazione funzionale risulta più marcata la combinazione tra pubblico e privato; si attua, cioè, una immissione in ruolo delle imprese private che diventano corresponsabili di settori di attività gestiti in precedenza solo dall’operatore pubblico. Lo Stato, in pratica, delega interamente, o parzialmente, una determinata attività al settore privato pur mantenendo la responsabilità di controllo dei risultati.

Sono due le formule in cui trova applicazione la privatizzazione funzionale: il franchising (concessione) e il contracting out (appalto).

Con la prima vi è una assegnazione temporanea del monopolio per la produzione, o la distribuzione, di un bene o servizio ad un determinato soggetto economico che attraverso il compimento di una gara, sia risultato il più idoneo a garantire la migliore combinazione qualità-prezzo oppure ad esprimere il minore prezzo di offerta.

Il contracting out rappresenta in sostanza l’affidamento in gestione ad operatori pubblici o privati (la scelta dipende da chi si aggiudica la gara) di attività finanziate con fondi pubblici. Questa formula ha il pregio di consentire un miglioramento di efficienza ed efficacia allocativa della spesa pubblica.

Per raggiungere gli obiettivi della privatizzazione funzionale (minimizzazione dei costi delle prestazioni offerte dall’operatore privato a quello pubblico) è necessario gestire in modo corretto la gara di offerta per evitare che un monopolio privato si sostituisca la monopolio pubblico; è necessario, cioè, che la competizione tra i soggetti coinvolti nella gara sia il più possibile trasparente per consentire di realizzare delle condizioni di parità tra i partecipanti.

E’ alla privatizzazione del welfare che molto spesso viene applicata tale tecnica; infatti i principali settori nei quali si è avuta l’effettiva applicazione della tecnica di privatizzazione funzionale sono soprattutto l’assistenza sanitaria, il servizio all’educazione e l’attività di raccolta dei rifiuti urbani.

Un altro aspetto importante da analizzare nei processi di privatizzazione è sicuramente quello relativo alle varie tecniche di vendita; premesso che vi sono diverse tipologie di dismissione è opportuno esaminare le più frequenti.

L’offerta pubblica di vendita

L’offerta pubblica è stata più volte ritenuta lo strumento più idoneo alla creazione di un azionariato diffuso; va subito rilevato però che questo metodo non consente di evitare la possibilità di grossi pacchetti azionari concentrati nelle mani di pochi investitori se non è accompagnata da un sistema di incentivi all’acquisto (emissione di titoli ad un prezzo inferiore, dilazioni di pagamento, buoni sconto, azioni omaggio). L’offerta pubblica può essere a prezzo fisso (offer for sale) nel caso in cui i titoli siano venduti ad un prezzo unico, fissato prima dell’offerta; questo sistema viene ritenuto il più idoneo al raggiungimento dell’obiettivo di allargamento dell’azionariato. Vi è poi l’offerta pubblica con asta (tender offer) che si caratterizza per la raccolta di tutte le domande di acquisto degli investitori con prezzo superiore ad un minimo prefissato; in questo caso il prezzo (ad eccezione del prezzo minimo, minimum tender price) viene definito dal mercato ed è quello che permette di raggiungere un equilibrio tra domanda e offerta (striking price).

La vendita diretta

La tecnica di vendita diretta risulta essere efficace nell’ottica del raggiungimento di obiettivi strategici e riallocativi o finanziari; questa modalità di cessione si caratterizza nell’alienazione di imprese pubbliche ad un privato singolo, o ad un gruppo di privati, o a lavoratori e dirigenti; la cessione attraverso la vendita diretta può interessare sia l’intera proprietà sia una parte di essa.

La vendita diretta in sostanza prevede due fasi: la preparatoria e l’esecutiva; nella prima vengono valutati i potenziali acquirenti e si definisce la procedura di vendita; nella fase esecutiva, invece, si procede all’attuazione dell’operazione di vendita fino alla sua conclusione. Questa modalità si può attuare sia attraverso una negoziazione bilaterale (trattativa privata) sia attraverso una vendita per asta (asta competitiva); mentre nel primo caso vi è un rapporto diretto tra l’operatore privato e quello pubblico, nel secondo viene indetta un’asta nella quale l’impresa è venduta al miglior offerente (avendo naturalmente fissato un prezzo minimo).

Joint-Venture

Un’altra tecnica di vendita è la costituzione di una joint-venture, ossia di una società mista nella quale lo Stato cede solo una parte delle azioni (si può cedere anche la maggioranza di controllo dell’azienda) ad uno o più soci; i soci possono avere un ruolo di cofinanziatori oppure svolgere attività di carattere operativo, o avere insieme le due funzioni, dipendendo questo dal tipo di risorse messe a disposizione.

Il maggiore inconveniente di questo tipo di approccio al processo di privatizzazione, è dato dalla durata in vita della stessa joint-venture; tale durata è infatti , di solito limitata, dal momento che molto spesso intervengono conflitti di gestione tra l’operatore pubblico e il privato o ancora per il prevalere nei processi gestionali e strategico-decisionali di alcuni soci su altri; questo è uno dei motivi per cui la scelta degli acquirenti dovrebbe essere fatta con molta attenzione ed oculatezza al fine di garantire che tra gli stessi non vi siano, almeno inizialmente, conflitti vari di interesse.

In base alle esperienze attuative già realizzatesi, si possono altresì distinguere diverse tipologie operative di privatizzazione [4] :

1) Cessione del controllo ad un compratore strategico; in Italia sono stati diversi i casi in cui si è adottata questa tecnica; basta ricordare l’asta della Cementir vinta dal gruppo Caltagirone, la vendita dell’Alfa Romeo alla Fiat da parte della Finmeccanica ed anche la vendita della Lanerossi al gruppo Marzotto da parte dell’ENI.

2) Quotazione in Borsa di pacchetti di minoranza: esempi di questo tipo di privatizzazione si possono trovare all’interno del gruppo IRI, il quale ha effettuato la vendita di azioni della Stet, della SME ecc., conservandone il controllo pur avendo collocato in Borsa importanti pacchetti di minoranza.

3) Creazione di “noccioli duri” e collocamento in Borsa: un esempio è dato dalla modifica dell’assetto azionario di Mediobanca; nel 1988 infatti, è stata effettuata una operazione di parziale collocamento in Borsa di quote delle tre banche di interesse nazionale ad un gruppo di investitori privati appartenenti alla “migliore parte della finanza italiana”.

4) Privatizzazione totale in Borsa: in questo caso il collocamento in Borsa riguarda il 100% del capitale di una società e si distingue in due subtipologie caratterizzate dall’esistenza o meno della cosiddetta “golden share”.


[1] Per le varie forme di privatizzazione descritte si confronti Dossena G., “Le privatizzazioni delle imprese. Modalità, problemi e prospettive”, EGEA, Milano, 1990, pag. 26 e segg.

[2] Si parla di privatizzazione indiretta, ad esempio, quando si attua l’apertura del monopolio alla concorrenza, la privatizzazione dei rendimenti pubblici, l’allineamento tra imprese pubbliche e private. Va ricordato che alcuni studiosi sono propensi ad effettuare una distinzione più rigorosa tra le varie tipologie di privatizzazione intendendo con questo termine solo l’alienazione e la delega di imprese pubbliche; in questo senso sono escluse tutte le altre forme indirette che apportano solo cambiamenti alla struttura gestionale delle aziende.

[3] Cfr. Dossena G., “Le privatizzazioni...”, op. cit., p.35-36.

[4] Cfr.Costamagna C., “Privatizzazioni: l’obiettivo è la “public company”, Il Mulino 345”, Bologna Anno XLII, gennaio-febbraio 1993, p. 103-104-105.