Analisi-inchiesta: EuroBang e diritti. Verso la Costituzione europea
Arturo Salerni
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Tre numeri per una riflessione. La costruzione,
problematica e contraddittoria, dell’Europa unita è - lo si voglia o no - il
fatto nuovo sul piano dei nuovi assetti geopolitici, sul piano della creazione
istituzionale, sul versante della produzione normativa. È
lo scenario che condiziona il possibile sviluppo della nostra vita sociale e
politica, anche al di là dei recenti sviluppi della vicenda irakena, delle
contrapposizioni che si sono generate sul piano internazionale e che certo hanno
influito ed influiscono pesantemente sul dipanarsi degli avvenimenti. Avevamo
già affrontato la questione in due precedenti interventi nel corso del 2001 [1]. È
utile ora affrontare con maggiore sistematicità le tante implicazioni del
processo di costruzione europea, con i suoi continui stop and go, con i suoi
tanti interrogativi e con le sue incerte risposte, ben sapendo che le soluzioni
(durature o transitorie) dei tanti problemi insoluti non resteranno relegate in
un ambito astratto o generalissimo, ma incideranno profondamente nella nostra
realtà sociale, politica e sindacale.
1. I confini dell’Europa
Il 16 maggio 2003 ad Atene si è realizzato un fatto nuovo e
di grande importanza per il processo di costruzione dell’unità europea: l’ingresso
di dieci nuovi paesi nell’Unione. L’Europa dei quindici diventa l’Europa
dei venticinque. Quattro paesi dell’Est Europeo che aderivano al patto di
Varsavia (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia - gli ultimi due
prodotto della separazione della Cecoslovacchia, consumatasi nello scorso
decennio), le tre repubbliche baltiche già appartenenti all’Unione Sovietica
(Estonia, Lettonia, Lituania), la Slovenia (primo pezzo della ex Jugoslavia ad
aderire all’Unione), due isole del Mediterraneo (Malta e Cipro, quest’ultima
attraversata dal conflitto tra la parte greca e la parte turca), sono i nuovi
compagni di viaggio di questo strano, inedito e per tanti versi straordinario
percorso verso una nuova entità di cui è difficile definire confini, contorni
e punti d’approdo.
Dall’Est un processo di disintegrazione (Cecoslovacchia
spaccata a metà, Russia separata dagli altri Stati che costituivano l’Unione
delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, un panorama jugoslavo smembrato in
diverse entità statali che spesso loro volta contengono in sé altre
sub-entità autonome e reciprocamente ostili) si risolve in una nuova
aggregazione ad un livello significativamente più alto di quello rappresentato
dalle realtà statuali formatesi nel corso del Novecento.
Già adesso l’Europa dei 25 paesi conta circa 450 milioni
di cittadini, che eleggeranno nel giugno 2004 i loro rappresentanti nel
Parlamento.
La crescita rapida e disordinata di questa cosa che non è
(ancora?) uno Stato ma non è più (soltanto) un’area di libero scambio ci
pone di fronte ad un interrogativo: quali saranno i confini dell’Unione?
Il presidente della Commissione Europea, Romano Prodi,
esprime sulla questione un’opinione sicuramente autorevole: “Ci sono
Bulgaria e Romania che stanno marciando forte per tenere l’appuntamento dell’ingresso
nel 2007. Le porte dell’Unione potranno ancora aprirsi per la Turchia, per le
repubbliche dell’ex Jugoslavia, per l’Albania. Poi, almeno nel futuro
prevedibile, basta. Come scriviamo nel documento della Commissione che ha
trovato un largo consenso al vertice di Atene, attorno alle frontiere dell’Unione
si creerà un “anello degli amici”: paesi che, dalla Russia al Marocco,
avranno rapporti strettissimi con l’Europa. Con loro potremo condividere
tutto, tranne le istituzioni” [2].
Già per il 2007, oltre al previsto ingresso di Bulgaria e
Romania, si inizia a discutere della probabile aggiunta della Croazia. Sulla
Turchia pesano ancora diverse incognite: un paese di settanta milioni di
abitanti, quasi totalmente di religione musulmana, rispetto al quali si pone tra
l’altro la questione del rispetto dei diritti umani e di standards democratici
ritenuti insufficienti, specie con riguardo alla grande minoranza dei curdi [3].
Ma c’è chi spinge per un ulteriore immediato allargamento:
tra questi il capo del governo italiano, Silvio Berlusconi, il quale propone l’inclusione
della Russia nell’Unione. Probabilmente l’obiettivo di Berlusconi non è
quello di far più forte l’Europa ma di impedire che si definiscano
compiutamente passaggi istituzionali che facciano dell’Unione un vero soggetto
politico, e soprattutto una realtà indipendente dagli Stati Uniti d’America.
Altri ancora pongono il problema dell’ingresso nell’U.E. di Israele. Gli
U.S.A. hanno spinto (prima dello scoppio della vicenda irakena) per l’ingresso
della Turchia filoatlantica. Ma nonostante l’elencazione di alcune posizioni
possa far pensare ad un interesse d’oltreatlantico ad allargare a dismisura i
confini dell’Unione per scolorare la portata innovativa della nuova entità,
non si può semplicemente liquidare la questione dei confini con l’equazione
“Europa più ampia, Europa meno forte”. Il processo a cui abbiamo
assistito negli ultimi decenni ha visto coesistere un progressivo allargamento
dei confini ed un (largamente insufficiente ma comunque progressivo)
intensificarsi degli organismi e dei poteri in capo all’Unione. Si tratta - lo
abbiamo più volte sottolineato - di un percorso assolutamente originale, di cui
non è facile prevedere i punti di approdo, ma che comunque va avanti e non
sembra destinato a fermarsi.
Un ultimo riferimento geografico e politico va offerto alla
valutazione dei lettori, ed è la composizione del Consiglio di Europa, che fu
istituito nel maggio 1949 per garantire forme comuni di intervento finalizzate
al rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (l’organo
giurisdizionale del Consiglio è la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che ha
sede a Strasburgo, importante organismo del Consiglio è il Comitato per la
prevenzione della tortura). Il Consiglio di Europa riuniva in origine il Belgio,
la Danimarca, la Francia, il Regno Unito, l’Irlanda, l’Italia, il
Lussemburgo, la Norvegia, i Paesi Bassi e la Svezia; a essi si sono via via
aggiunte Grecia e Turchia, seguite da Islanda e Repubblica Federale Tedesca (nel
1950), Austria (nel 1956), Cipro (nel 1961), Svizzera (nel 1963), Malta (nel
1965), Portogallo (nel 1976, dopo la rivoluzione dei garofani), Spagna (nel
1977, dopo la caduta del regime franchista), Liechtenstein (nel 1978), San
Marino (nel 1988), Finlandia (nel 1989), Ungheria (nel 1990), Polonia (nel
1991), Bulgaria (nel 1992), Estonia, Lituania, Slovenia, Repubblica Ceca,
Slovacchia e Romania (nel 1993), Andorra (nel 1994), Lettonia, Albania,
Moldavia, Macedonia e Ucraina (nel 1995), Russia e Croazia (nel 1996), Georgia
(nel 1999), e dopo il 2000 Armenia e Azerbaigian (ovvero gli Stati del Caucaso
che un tempo facevano parte dell’U.R.S.S.).
2. Divisioni, conflitti e processo costituente: una strana convivenza
Le posizioni assunte dagli Stati che oggi compongono l’Europa
dei venticinque sull’atteggiamento da assumere nei confronti del conflitto in
Irak sono così riassumibili per grandi linee (nel senso che per alcuni paesi
vanno registrate posizioni più sfumate ed oscillazioni con passaggi da una
posizione all’altra): favorevoli ad una iniziativa militare americana senza l’avallo
ONU tredici paesi (Gran Bretagna, Italia, Spagna, Portogallo, Olanda, Danimarca,
Lituania, Lettonia, Estonia, Slovacchia, Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia),
contrari dodici (Francia, Germania, Irlanda, Belgio, Austria, Finlandia, Svezia,
Malta, Cipro, Slovenia, Grecia e Lussemburgo).
Ma le divisioni sulla guerra non segnano la parola “fine”
sull’avanzamento dell’integrazione. Terminata la guerra in Irak (o almeno la
fase culminata nella caduta del regime di Saddam Hussein sotto i colpi
angloamericani) non si può dire che la marcia degli europei verso l’Europa si
sia arrestata. Le contraddizioni sono tante, enormi, superiori per asprezza e
quantità a quelle esistenti prima del conflitto (e della lunga fase
preparatoria del conflitto) eppure - dopo le diverse e successive fasi dei primi
trattati, dell’avvio del Parlamento europeo, di Maastricht, dell’euro e
della Banca Centrale europea - si avvia una convulsa e complessa, per tantissimi
versi anomala, stagione costituente: come se al di là delle intenzioni dei
soggetti protagonisti vi fosse una forza invisibile che spinge in avanti la
crescita di una nuova entità dai contorni variabili, dalla fisionomia incerta,
ma che indubbiamente esiste, pesa ed è destinata a svilupparsi. Certamente non
può sfuggire (e più volte lo ha sottolineato Jean-Paul Fitoussi) [4] che l’unica
autorità economica federale è al momento la Banca centrale europea, e
sicuramente essa non può costituire un punto di riferimento per una complessiva
politica economica e sociale, ma è anche vero che - per strappi successivi - ci
si avvicina a definizioni di strategie, ancora molto lacunose, di intervento
comune sull’intera area dell’Unione.
Si sviluppa innanzitutto un percorso costituente, anch’esso
anomalo, e segnato soprattutto da un vistoso deficit democratico: si lavora ad
una Costituzione senza l’elezione popolare di un organismo costituente, ovvero
senza una preventiva discussione - anche con tesi contrapposte sottoposte al
vaglio popolare - in ordine ai grandi temi, ai principi e valori che debbono
costituire parte essenziale del testo costituzionale, agli assetti ed agli
equilibri del novo ordinamento. È questo un punto di grande rilievo che non è
stato portato con la dovuta forza nel dibattito politico interno ai Paesi che
compongono, o dovranno comporre, l’Unione: è un elemento invece che va
sottolineato con il dovuto vigore, non solo per un problema di metodo ma
affinché il patto costituzionale contenga al suo interno diritti e conquiste
faticosamente raggiunti - sia pure in termini non omogenei - dai popoli di
Europa. Diritti di libertà e diritti sociali devono entrare con pienezza nel
testo di una Costituzione dell’Unione, e devono essere il prodotto di una
discussione che coinvolga tutti i soggetti destinatari del nuovo atto
fondamentale.
3. Un’Europa a geometria variabile
I conflitti - specie quelli relativi alla collocazione
internazionale del nuovo soggetto europeo - ed i diversi percorsi seguiti dai
vari paesi nel loro approccio con la creazione dell’Unione hanno determinato e
determinano diverse velocità ed intensità di coinvolgimento nel percorso
fondativo europeo, per cui convivono (altro elemento assolutamente originale
della questione che stiamo esaminando) un percorso comune ai diversi paesi e
diversi specifici percorsi caratterizzati da velocità e geometrie variabili.
Tra gli elementi significativi di cui si è verificata l’accelerazione
a partire dai mesi precedenti lo scoppio del conflitto in Irak e l’occupazione
di quel paese da parte delle truppe angloamericane vi è quello che riguarda l’asse
franco-tedesco, inteso non solo come l’emergere di una sintonia in ordine alle
posizioni d’assumere in relazione al conflitto ed alla collocazione
internazionale dell’Europa ma anche la definizione di un modello di
integrazione reciproco molto più definito e stretto rispetto a quello esistente
e prospettabile nell’immeditato non solo all’Europa dei venticinque ma
anche alla più piccola Europa dei dodici Paesi dell’area-euro. La domanda che
gli analisti si pongono è questa: l’asse franco-tedesco costituirà d’ora
in poi (come nel passato) il motore del processo complessivo di integrazione o
piuttosto da questo momento in poi si viene a configurare stabilmente un modello
a cerchi concentrici con diversi livelli di integrazione (e compatibile con
confini sempre più larghi della nuova Unione)?
Sulla questione della difesa comune (diversa dalla Nato, ma
non contrapposta) il vertice del 29 aprile 2003 ha disegnato ancora l’esistenza
di un asse composto da quattro dei sei paesi fondatori della Comunità Economica
Europea (Francia, Germania, Belgio e Lussemburgo), che rivendicano la necessità
di strumenti difensivi e di armamenti europei e che in buona sostanza pongono il
problema dell’indipendenza dell’Europa.
L’area dell’euro è costituita da dodici dei quindici
paesi dell’Unione con l’autoesclusione (almeno sino ad ora) di Gran
Bretagna, Danimarca e Svezia, ed è destinata sicuramente ad allargarsi ai paesi
che stanno per fare il loro ingresso nell’Unione Europea (i quali potranno
adottare l’euro non prima del primo maggio 2006).
Anche le divisioni sulla scelta del futuro assetto
istituzionale sono particolarmente acute nel periodo attuale, segnato dai lavori
della Convenzione e dal ragionamento di carattere costituzionale (sia pure per
tanti versi anomalo) sul futuro dell’Unione. Si tratta peraltro di divisioni
che segnano in modo assolutamente diverso i campi di appartenenza rispetto alle
linee di demarcazione che si registrano in altri campi (politica internazionale,
moneta, giustizia).
Si pensi ad esempio alla proposta giscardiana dell’istituzione
di un “superpresidente”, che ha visto schierati da una parte alcuni
grandi Stati (Germania, Francia, Spagna, Italia, Polonia) e dall’altra la
Commissione presieduta da Romano Prodi ed alcuni paesi più piccoli (in testa il
Belgio), i quali chiedono di mantenere la carica di Presidente del Consiglio
Europeo com’è adesso configurata, ovvero a rotazione semestrale fra i capi di
governi. Gli stessi piccoli Paesi temono una riduzione - che andrebbe a loro
discapito - del numero dei componenti della Commissione e vorrebbero che ogni
Paese (anche i nuovi entrati) ne abbia uno a testa a funzioni intere, come è
attualmente.
Convivono, come è noto, nell’Unione di oggi un Parlamento
che ha compiti prettamente consultivi, eletto direttamente dai popoli di Europa,
un Consiglio - organo centrale anche sotto il profilo legislativo - composto dai
capi dei governi degli Stati che compongono l’Unione - e la Commissione, con
compiti esecutivi.
Organismi unitari ed organismi che invece trovano la loro
legittimazione direttamente dagli Stati che compongono l’Unione e meccanismi
decisionali a volte a maggioranza e a volte all’unanimità (con conseguente
diritto di veto da parte dei singoli di Stati) caratterizzano il complesso
meccanismo istituzionale dell’Europa di oggi. Il rimettere mano nell’attuale
fase costituente a questo organismo costruito per passaggi successivi ed il
tentativo di disegnare un quadro organico di risistemazione di competenze e
funzioni determinano, com’è evidente, una fase caratterizzata da tensioni,
contrapposizioni, tentativi di frenata, paure.
4. La Costituzione europea
Il conflitto fortissimo, lacerante, senza precedenti sulla
guerra in Irak e sui rapporti da tenere con la superpotenza americana non
impedisce lo sviluppo del processo di integrazione europea e questa volta non
soltanto su questioni monetarie o sulle regole di un mercato senza barriera ma
attraverso un dibattito - vero - sul futuro dell’Unione. Un dibattito in cui
gli schieramenti appaiono diversi da quelli che abbiamo visto crearsi sulla
questione irachena (o meglio sulla questione del rapporto tra le due sponde dell’Atlantico).
Anche qui in grandi linee una contrapposizione forte tra i sei paesi più grandi
(Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia, Spagna e la nuova arrivata Polonia) e
gli altri componenti dell’Europa a venticinque. Ed ancora una contrapposizione
che attraversa i diversi paesi dell’Unione tra una prospettiva confederale
(ovvero un’unione tra Stati sovrani) ed una prospettiva federale (che mira ad
accelerare il processo di integrazione).
Dentro tale dibattito - o più esattamente nel cuore di esso
si inserisce il lavoro della Convenzione istituita per la creazione di una
Costituzione dell’Unione, convenzione presieduta dall’ex presidente francese
Valery Giscard d’Estaing. La scelta effettuata dal Consiglio europeo tenutosi
a Laeken nel 2001 di far precedere la prevista conferenza intergovernativa di
riforma dei Trattati da una Convenzione, formata da rappresentanti del
Parlamento europeo, della Commissione europea, dei governi e dei parlamenti
nazionali (sia dei paesi membri dell’Unione che dei paesi candidati all’ingresso)
ha rappresentato sicuramente una novità di grande rilievo ed originalità nel
processo europeo verso la costituzionalizzazione dell’Unione [5].
Quello che cominciamo ad esaminare è il testo approvato dal
Presidium, ben sapendo che proprio nei giorni in cui stiamo lavorando a questo
commento il testo viene sottoposto ad un serrato confronto, ad un fiorire di
emendamenti, e che dovremo necessariamente - nei prossimi numeri della rivista -
ritornare sulle questioni che oggi esaminiamo, che passeranno all’esame dell’intera
Convenzione prima di essere redatte nuovamente dal Presidium ed inviate all’esame
degli altri organismi dell’Unione. Ci attende cioè, e sicuramente per il
semestre di presidenza italiana dell’Unione (gli ultimi sei mesi del 2003), le
questioni elaborate dalla Convenzione saranno al centro del dibattito e su di
esse interverranno modifiche, scontri, mediazioni, rimodellazioni.
[1] Arturo
Salerni, Proteo 2/01, “Europa, i diritti, il movimento sindacale”
(pagg.7 e segg.), e Proteo 3/01, “L’Europa dei diritti negati”
(pagg. 89 e segg.). Nel primo dei due articoli citati si affermava: “Un
argomento appare difficilmente discutibile: ovvero che il processo di
integrazione europea ha compiuto negli ultimi anni passi da gigante e tumultuose
accelerazioni (non facilmente immaginabili anche poco tempo addietro) e che esso
è destinato ad andare avanti, sia pure tra immense contraddizioni ed in
modo non lineare, anzi tortuoso. Non è possibile oggi prevedere i tempi, le
modalità e gli sbocchi finali di questo percorso: quando e cosa si costruirà,
quali saranno le aree del Vecchio Continente inserite nelle strutture dell’Unione
Europea, che tipo di ordinamento verrà fuori, quale grado di contraddizione e
conflitto il processo di integrazione innescherà con altre aree forti del
globo, ed in primo luogo con gli Stati Uniti d’America, quanto questo elemento
condizionerà forme e sviluppo della nuova entità europea.
Certo è che l’ingresso definitivo della moneta unica a
partire dal gennaio 2002 - sia pure non in tutti i paesi che oggi
costituiscono l’Unione Europea - costituirà un potente fattore di
integrazione - anche “culturale” - che attraverserà un territorio
vastissimo coinvolgendo centinaia di milioni di persone. Dobbiamo avere la
lucidità di cogliere la grande portata di questo passaggio, dobbiamo riuscire a
leggerne le possibili conseguenze sul piano degli assetti sociali ed i riflessi
sul terreno dell’organizzazione e dell’azione sindacale.”
[2] Intervista a Repubblica del 19 aprile
2003, “Solo la grande Europa unita bilancerà lo strapotere Usa”.
[3] Le
forze politiche rappresentative della popolazione curda peraltro hanno in più
occasione evidenziato il loro favore all’ingresso della Turchia nell’Unione
Europea, vedendo in questo passo una possibilità di democratizzazione dell’intera
società turca, ed in particolare con riferimento alla regione (prevalentemente
abitata da curdi) del sud-est dell’Anatolia.
[4] Presidente
dell’Osservatorio francese delle congiunture economiche.
[5] Proteo 3/01,
pag.89, A. Salerni, cit. “In questi giorni a Laeken si è prodotto un fatto
nuovo. Nonostante le incertezze, le difficoltà, gli scontri per l’attribuzione
delle sedi delle diverse Agenzie, la mancata soluzione di alcuni problemi di
fondo in ordine la funzionamento della macchina istituzionale, il percorso di
integrazione europea registra un passaggio che può essere decisivo. A circa un
anno dall’adozione a Nizza della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
Europea - rispetto alla quale si è registrato un dibattito significativo, a
partire dai limiti che la caratterizzavano sia sul piano del percorso che con
riferimento ai contenuti - si avvia, in forme sicuramente anomale, un percorso
che potrebbe essere definito ‘costituente’.”