La cultura politica meridionale
Mauro Fotia
Dal clientelismo trasformistico di Giolitti al doroteismo subliminale di Berlusconi
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1. Premessa
Il problema del Mezzogiorno assume sin dai primi anni del
secondo dopoguerra caratteristiche tali da non potersi più riconoscere tutto in
quella che, dall’Unità d’Italia alla caduta del fascismo, va sotto l’espressione
di questione meridionale. Vi sono certo elementi di continuità, sia sul piano
economico che su quello politico. Ma la questione meridionale, assunta entro il
più ampio dibattito della saldatura, secondo un’unica logica, fra capitalismo
privato e capitalismo di Stato, si presenta in termini che sono in larga misura
nuovi.
L’economia aveva avuto, fino alla caduta del fascismo, un
carattere sostanzialmente dualistico: da una parte, v’era un apparato
industriale localizzato nel Nord, con un’agricoltura a carattere eminentemente
mercantile, poggiata sulla piccola e media proprietà e sull’azienda
capitalistica; dall’altra, operava nel Sud, una struttura esclusivamente
agricola, con una piccola proprietà polverizzata, ancora in gran parte chiusa
nell’autoconsumo, e un latifondo a coltura estensiva, improduttivo e protetto.
La vita politica, dal canto suo, era stata guidata da un ceto, il quale, avendo
scelto come metodo di gestione del potere le pratiche trasformistiche, si era
servito della spesa pubblica in maniera ambigua: una volta per tamponare gli
effetti della marginalità produttiva e della disgregazione sociale, un’altra
volta per consolidare consensi anche effimeri intorno alle clientele.
Mediatori tra le due parti del Paese, collegate dall’unificazione
del mercato nazionale e degli apparati politico-amministrativi, erano stati, da
un lato, un fisco accentrato che prelevava dal Sud e investiva al Nord e un’organizzazione
bancaria che trasferiva al credito industriale settentrionale i risparmi
contadini e le rimesse degli emigrati meridionali, dall’altro, un assieme di
pratiche e di comportamenti trasformistici e clientelari che innescavano un
processo di progressivo degrado della vita sociale e politica [1].
Sta qui la prima peculiarità del caso meridionale. La quale
si lega ai caratteri originari delle vicende dell’Italia postunitaria e trova
l’elemento saliente, secondo l’intuizione gramsciana, in una “endemica
fragilità” dello “stato macchina” e dello “stato nazione”. In
particolare, per una serie di vicende di lungo e di breve periodo, manca allo
Stato unitario un consenso diffuso nel Paese. Il che accentua la
contrapposizione fra politica come mediazione, a favore della conservazione
degli equilibri e degli squilibri in atto, secondo gli interessi delle forze
dominanti, e politica come lotta delle classi subalterne per il superamento dell’assetto
esistente. E sottolinea altresì sia le spinte dall’alto verso la repressione
e l’intervento autoritario, sia le sollecitazioni dal basso verso la
contestazione radicale dello Stato stesso.
Spiegando in tal modo perché resti bloccata la costruzione
di una comune legittimazione del potere statale e persista invece la propensione
a sostituire l’alternanza con la formazione al centro di coalizioni di governo
sorrette da forze politiche votate al moderatismo. Almeno finchè lo consentono
le leggi elettorali. Poiché quando quest’ultime sospingeranno verso l’alternanza
si farà strada il bisogno dello scontro e della delegittimazione degli
avversari quale possibile forza di governo.
Del resto, le stesse forze antifasciste del dopoguerra, come
mostrano le vicende della Costituente, arrivano a trovare l’accordo sui fini
di una democrazia personalista e garantista, ed assieme egualitaria e
riformatrice, restando invece in disaccordo sui metodi della convivenza
democratica e mantenendo ferma, in mezzo a “rinvii” e a “doppiezze”, l’aspirazione
ad una propria egemonia definitiva e irreversibile, al di là delle regole della
democrazia pluralistica.
Il Mezzogiorno, pur caratterizzato da un più accentuato
contrasto fra la politica come transazione, in vista del soddisfacimento delle
esigenze di ordine, e la politica come impegno per il cambiamento, accelera il
logoramento dell’una e dell’altra, facendo spesso prevalere nella prima i
momenti corporativi e parassitari, dando spazio nella seconda a tentazioni
ribellistiche e antistatalistiche. E di conseguenza favorisce l’indebolimento
della leadership delle classi al potere e, al contempo, il
ridimensionamento della capacità delle opposizioni di canalizzare le
aspirazioni riformatrici.
La seconda peculiarità del caso meridionale emerge chiara
negli anni Cinquanta, quando, insieme con la formazione di un meccanismo unico
di governo, costituito dallo Stato e dai grandi gruppi economici, si realizza
una funzione del Mezzogiorno in tale meccanismo, una sua subordinazione
integrale alla struttura capitalistica e al suo modello di sviluppo.
Non è casuale infatti che proprio in quegli anni si faccia
strada la visione della questione meridionale come problema meramente
perequativo fra Nord e Sud. Visione sorretta da un’impostazione teorica di
tipo economicistico, tale cioè da richiamarsi al ritardo del Mezzogiorno, e non
alla sua organicità allo sviluppo del capitalismo italiano, anche sulla scia di
iniziative già sperimentate negli Stati Uniti d’America e in Inghilterra,
relative alle cosiddette aree depresse. In tal modo si misconosce una delle
conquiste fondamentali del pensiero meridionalistico: essere la questione
meridionale problema non puramente economico, ma anche e soprattutto politico. E
si manifesta, da un lato, un’abile azione di mistificazione culturale, dall’altra,
un’insufficiente conoscenza della realtà, della storia e della cultura più
avanzata del nostro Paese. Se il Mezzogiorno è solo area genericamente
arretrata, basta un intervento puramente aggiuntivo dello Stato rispetto al
complesso della spesa pubblica, che assuma i costi della preindustrializzazione,
per mettere al passo con le altre regioni quest’area del Paese che ha avuto un
corso storico più lento e marcia perciò a ritmi arretrati, disuguagliando l’intera
vita economica nazionale. Il Mezzogiorno appare, in tale politica, la patologia
dello sviluppo nazionale da curare con acceleratori quantitativi del suo ritmo
produttivo.
L’intervento straordinario mira ad azionare appunto tali
acceleratori e, così facendo, ad attenuare le conseguenze dello sviluppo
dualistico fra Nord e Sud. Ma, mentre lo Stato mette in atto tale intervento,
con aggiustamenti vari di periodo in periodo, in seno alla struttura
capitalistica si svolge un ulteriore processo, di singolare rilevanza e
gravità: si forma un blocco di interessi fra i monopoli industriali e la
speculazione, un nesso strutturale fra il profitto e la rendita, in nome del
quale l’industria del Nord diviene interessata alla persistenza e all’espansione
nel Mezzogiorno della terziarizzazione improduttiva, pubblica e privata, e del
parassitismo. I mutamenti avvenuti nello stesso capitale industriale, la
divisione nelle grandi società azionarie tra la gestione e la proprietà e la
formazione di nuove società finanziarie che controllano vasti gruppi produttivi
favoriscono quest’intreccio e creano al capitalismo e agli apparati pubblici
centrali e locali nuovi centri di potere [2].
2. Mezzogiorno e concetto di dipendenza
Nello stesso momento, a motivo della disoccupazione crescente
e del diffondersi di un generale malessere sociale, lo Stato dispiega nel Sud un’azione
di sostegno alle famiglie, fatta di pensioni, sussidi, aiuti vari. Sì che il
Mezzogiorno ai caratteri di società dipendente unisce quelli di società
assistita.
In un coniugio che ben evidenzia l’incontro e la saldatura
tra classi economiche dominanti e classe politica di governo. La condizione di
dipendenza mette in rilievo il ruolo e le funzioni del blocco dominante e pone l’accento
sui processi di accumulazione del capitale a danno delle regioni meridionali;
mentre quello di assistenza sottolinea come l’elemento cruciale della
disgregazione del Sud sia il comportamento politico delle classi subalterne
placate dai flussi di danaro dirottati verso di loro dalla classe al potere, con
finalità non certo di modernizzazione e sviluppo, ma di mera sussistenza e
conservazione dell’esistente.
Si tratta di fatti che autorizzano a parlare di una terza
peculiarità del caso meridionale. La dipendenza di cui si discorre infatti non
è soltanto verticale ma anche orizzontale. Apparati economici e classi al
potere danno vita ad un sistema politico nel quale l’assieme delle realtà
sociali, politiche e istituzionali del Mezzogiorno appare come un sottosistema
dipendente, soggiacente, cioè, in tutto alle politiche messe in atto da detti
apparati e classi, i quali si presentano come saldamente collegati fra loro,
fortemente centralizzati, di fatto volti a tenere il Sud in una condizione
globale di subalternità al Nord. La dipendenza è verticale perché discende
dalle forze economiche e politiche di un establishment unico collocato al
vertice del sistema politico e storicamente votato alla legittimazione del
primato del Nord rispetto al Sud, ma è anche orizzontale; proviene, cioè, e si
snoda lungo l’arco delle numerose forze clientelari, interne alla società
meridionale, che distraggono dai fini generali dichiarati, polarizzando l’attività
pubblica verso sfere di interessi personali o al più settoriali.
La dipendenza, d’altro canto, innesca in seno alla società
meridionale una serie di processi socio-politici di non scarso peso, come sono;
a) la distruzione delle sue potenzialità di sviluppo socio-economico; b) il
radicale dissesto dei valori costitutivi del suo tessuto civile; c) lo
svuotamento di ogni forma di cultura politica con l’estinzione della
percezione del collettivo, lo smarrimento dell’istanza partecipativa, la
rassegnata accettazione di uno stato di sostanziale alienazione; d) la
subalternizzazione delle classi politiche centrali e locali alla logica del
blocco di potere la cui leadership sta al Nord e la riduzione dei loro
ruoli a quelli di garanti del consenso verso il centro e di erogatrici di
risorse, spesso clientelari, verso la periferia; e) la grave mortificazione
delle autonomie, con il perverso effetto di creare la loro incapacità a
svolgere compiti di vero rinnovamento, ispirato alla specificità delle
vocazioni delle diverse aree territoriali.
La fuoriuscita da tali processi sembra possa realizzarsi
attraverso l’adozione di un modello di sviluppo endogeno capace di rivelarsi
concretamente autocentrato, autopropulsivo e autosostenuto.
Uno sviluppo di questo tipo, in realtà, lega ogni iniziativa
di crescita e di modernizzazione delle aree meridionali con la mobilitazione
delle risorse umane e materiali interne ad esse. Rende i loro fattori produttivi
immobili, vale a dire, stabilizzati sul territorio in maniera tra l’altro, da
porre fine all’emorragia secolare delle energie umane rappresentata dall’emigrazione.
Stabilizza lo spazio, sì che gli attori operanti nel mercato si distinguano per
grado di capacità, di sicurezza, ecc. Cura che il mercato resti costantemente
aperto e condizionato dal susseguirsi delle potenzialità dei diversi soggetti
che vi entrano, senza mai pretendere di divenire “completo”, nel senso d’essere
capace di dare realizzazione a qualunque tipo di iniziativa. Rivitalizza, dopo
averli depurati delle vecchie incrostazioni, i valori culturali scaturenti dalla
loro specificità storica, incardinando su di essi la nuova legittimità dei
gruppi dirigenti e delle forze politiche.
Un modello di sviluppo così preconizzato, in quanto tutto
volto alla creazione di continui stimoli per la riappropriazione da parte del
Mezzogiorno delle sue risorse e la valorizzazione della sua storia e della sua
cultura, appare, anzitutto, autocentrato. Poiché, inoltre, vede negli strati
popolari, nei gruppi dirigenti e nelle forze politiche meridionali i soggetti
naturali delle iniziative, spinte, impulsi vari per la crescita dei loro
contesti, si pone come autopropulsivo. In quanto, da ultimo, raccorda tutte le
iniziative in un quadro sinergico, in maniera, da un lato, di andare oltre la
valutazione del vantaggio di impresa, prendendo in considerazione la variabile
territorio (ambiente, conoscenze, valori, istituzioni) e, dall’altro, di
sorreggere ogni progetto di vera modernizzazione, risulta autosostenuto [3].
L’indagine dunque sulla cultura politica appare come il
primo lavoro da affrontare [4]. Segue lo
studio della classe dirigente nei suoi diversi segmenti, quali sono a) i gruppi
imprenditoriali, b) i soggetti esercenti le libere professioni, c) gli
intellettuali, d) i portatori di valori morali - clero in testa. Chiude l’analisi
della classe politica, dei soggetti vari cioè, che formano gli establishment
del potere; e precisamente, a) degli uomini di governo, b) dei parlamentari,
c) dei leader del potere regionale e locale, d) dei dirigenti di partito,
e) dei dirigenti sindacali.
Cultura politica imperniata sui paradigmi del clientelismo e
del trasformismo, costante alternarsi degli strati popolari tra ribellismo e
vittimismo e delle forze politiche tra rivendicazionismo, (talvolta
insurrezionale) e ricorrente moderatismo, fra ricerca del nuovo e frequenti
ricadute conservatrici quando non addirittura reazionarie, ristrettezza delle
basi del potere, progressivo affievolimento della intermediazione, dissesto
delle autonomie e tendenziale negazione dei loro ruoli innovativi costituiranno
le acquisizioni del lavoro analitico sopra disegnato.
3. Il metodo dell’analisi contestuale
E poiché è importante che esso sfugga al sempre incombente
rischio della dispersione o frammentazione del problema del Mezzogiorno in una
serie infinita di problemi parziali, scissi e quasi incomunicanti fra loro, mi
pare essenziale predisporre uno strumento concettuale che serva da collante
logico-conoscitivo e da contenitore unico dei predetti problemi e delle varie
reti di azioni e reazioni che vengono ad intessersi intorno ad essi nel tempo.
Strumento che sembra potersi individuare nell’idea di contesto.
Il contesto, infatti, può essere concepito come un quadro
unitario nel quale si organizzano e si esprimono le strutture, le istituzioni,
le opinioni, le attitudini e i comportamenti di una collettività. E di
conseguenza può risultare causa e contemporaneamente effetto di una
molteplicità di variabili d’ordine ambientale: fisico-geografico,
territoriale, storico, economico, socio-culturale, politico. Ma può essere
visto anche come esito di tutti i fatti d’ordine individuale che prendono
posto in siffatto quadro, senza che l’integrazione sia riducibile alla somma
delle parti che lo compongono.
Si capisce perciò perché il contesto, in quanto tale,
appaia una categoria non molto frequentata dai politologi. La ragione sta
appunto nella difficoltà di mettere in relazione dati di ordine individuale con
dati di ordine collettivo. Ma il problema per i politologi diviene ancora più
complesso nel momento in cui essi devono prendere in considerazione le
interferenze tra i valori del contesto e quelli dei vari gruppi, che all’interno
di esso nascono e si sviluppano.
Siffatte difficoltà non sono tuttavia tali da dover indurre
a rinunciare al prezioso contributo euristico fornito dal concetto di contesto e
dai metodi dell’analisi e dell’informazione contestuali che da esso
scaturiscono. Il primo di questi metodi consiste nell’estensione della logica
dei sondaggi a unità sociologiche diverse dall’individuo. Nessuna legge
scientifica, del resto, stabilisce che una popolazione, in un piano di
campionamento, deve essere esclusivamente considerata come madre di individui.
Le sue unità di base possono essere rappresentate da unità geografiche,
economiche, amministrative, istituzionali e da ogni altro tipo o forma di “collettivo”.
In tal modo diviene possibile disporre di una molteplicità di variabili
caratteristiche del milieu nel quale sono inseriti i problemi che si
intendono affrontare.
Inoltre, l’analisi contestuale consente di utilizzare
queste variabili senza ricorrere ad apposite inchieste o sondaggi. Si può,
infatti, fare l’analisi di secondo grado di sondaggi realizzati per altri
scopi e ricavare dati utili per una sistemazione di tipo globale, propria della
scienza politica. Il secondo metodo consiste nell’utilizzazione simultanea di
tali dati appunto ai fini di una sistemazione globale; e mostra come tra
variabili pur assai diverse esista una intercomunicabilità capace di fornire un’informazione
politica più completa di quella che possono offrire le metodologie
correnti [5].
[1] Punto di
riferimento obbligatorio al riguardo rimane L. Cafagna, Dualismo e
sviluppo nella storia d’Italia, Marsilio, 2ª ed., Venezia, 1990, in
particolare le pp. 183-220.
[2] Cfr. L. Ferrari Bravo-A.
Serafini, Stato e sottosviluppo. Il caso del Mezzogiorno italiano,
Feltrinelli, 3ª ed., Milano, 1975.
[3] Per gli
aspetti economici v. M. D’Antonio, Il Mezzogiorno degli anni ’80:
dallo sviluppo imitativo allo sviluppo autocentrato, Angeli, Milano, 1985. Per i
profili socio-politici, cfr., invece C. Trigilia, Le condizioni “non
economiche” dello sviluppo: problemi di ricerca nel Mezzogiorno d’oggi, “Meridiana”,
1988, n. 2. Nel merito, non vedo cosa dica di nuovo G. Viesti, Abolire il
Mezzogiorno, Laterza, Roma-Bari, 2003. Il saggio vorrebbe essere alternativo
alla letteratura meridionalistica, anche la più recente, ma, alla fine si
esaurisce dietro una elencazione di dati, rilievi, e soprattutto, suggerimenti
ed auspici, negli ultimi quindici anni formulati già - con non poca
sistematicità ed efficacia - da vari economisti e politologi. Ribadire cose del
tipo “È del tutto illusorio pensare di far crescere davvero il Sud, e di
conseguenza l’intero paese, con qualche politica speciale per il Mezzogiorno”,
(p. XVI) allo stato delle cose, non può non risultare retorico.
[4] Per cultura politica s’intende qui un assieme di
idee, valori, norme, modelli di comportamento sottostanti ad una collettività
organizzata ed operanti come fonti ispiratrici della sua condotta. Tra la ricca
letteratura segnalo: G. Almond-S. Verba, The civic culture. Political
attitudes and democracy in five nations, Princeton University Press, Princeton,
1963; G. Calvi-M. Cecchi, I valori dei parlamentari e degli elettori: una
prima comparazione, “Rivista Italiana di Scienza Politica”, 1983,n. 2; C.
Trigilia, Le subculture politiche territoriali, Quaderni della Fondazione
Feltrinelli, n. 16, Milano, 1981. M. Caciagli, Quante Italie? Persistenza
e trasformazione delle culture politiche subnazionali, “Polis”, 1988, n. 3; A.
Dal Lago, Il ruolo dei valori nella teoria sociale e politica, in “L’analisi
della politica. Tradizioni di ricerca, modelli, teorie”. Il Mulino, Bologna,
1989; S. Fedel, Cultura e simboli politici, Ibidem.
[5] Cfr. B. S. Phillips, Metodologia della ricerca sociale, Il
Mulino, Bologna, 1972. pp. 362-479.