Classe lavoratrice, sindacato, storia del Movimento Operaio
Alessandro Mazzone
Riflessioni sull’oggi
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1. Il lettore di “Proteo” sa bene che questa rivista
a carattere scientifico è, nello stesso tempo, una pubblicazione di classe. Le
due cose vanno insieme. Da sempre, lotta di classe dalla parte dei lavoratori
vuol dire anche conoscere, rendersi conto del mondo, migliorarsi, emanciparsi.
(Cento anni fà, la prima lotta mondiale, quella per la giornata
lavorativa di 8 ore, aveva per motto: 8 per lavorare, 8 per riposare, 8 per
migliorarci.) - Questo è il lato soggettivo. Il suo sviluppo, nel corso di
ormai quasi due secoli, ha portato alla costruzione di organizzazioni economiche
(cooperative), sindacali, politiche dei lavoratori; in Italia, a Camere del
lavoro, Case del popolo, istituzioni di vita autonoma delle classi lavoratrici,
che insieme erano strumenti di lotta e di cultura attiva.
Ma, naturalmente, c’è un lato oggettivo della lotta, che
emerge non appena si considera la controparte. Anche la borghesia è mutata
profondamente nel tempo, fino a generare un’oligarchia ristretta che oggi, con
strumenti economici, politici, culturali (o anticulturali), impone il suo
dominio, direttamente e indirettamente, a miliardi di uomini in quasi ogni
Paese. E oggi diventa via via più chiaro qualcosa, che in linea di principio è
sempre stato vero: che l’oggetto della lotta di classe è sempre stato,
fin dai primi confronti parziali, locali, fin dalle Leghe di Resistenza dell’‘800,
il modo di organizzare la vita degli uomini associati, la produzione e
riproduzione di questa attraverso e mediante il lavoro [1].
Naturalmente, non è stato sempre nella coscienza soggettiva
dei lavoratori organizzati, che le rivendicazioni elementari, di salario,
normative, erano in germe rivendicazioni di un diverso modo di vita, di
una diversa organizzazione del vivere associato. Questa diversa organizzazione
è quello che 100, 130 anni fa si chiamava, in generale, “socialismo”. Nella
coscienza era la solidarietà come principio, la dignità di vita e l’emancipazione
del lavoro come scopo, come pure si diceva. Solo per gradi, e in forme diverse
(che costituiscono la storia del sindacato e del Movimento Operaio in genere in
ogni Paese) [2], e soprattutto nell’età dell’imperialismo e delle sue guerre, cioè nel
‘900 e fino ad oggi, diventa via via più chiaro il legame obiettivo
tra singole lotte e - come si è detto - “questioni di società” [3].
Obiettivamente, però, l’oggetto del contendere, cioè il lato obiettivo
della lotta di classe, il suo contenuto è sempre il modo di vita
degli uomini associati, cioè, in astratto, la Riproduzione Sociale Complessiva.
Questa, naturalmente, è una astrazione [4].
Tuttavia essa si concretizza nel processo storico stesso: il lavoratore
complessivo è concetto molto più attuale oggi che quando Marx lo esponeva,
nel 1867.
2. Lavoratore complessivo non è più nozione
riferibile soltanto agli operai che cooperano in una fabbrica, e il cui agire
individuale è sensato nel fatto, e dunque anche pensabile, solo come elemento
del tutto; non è più nemmeno riferibile all’insieme delle unità di
produzione, p. es. di un Paese. Lavoratore complessivo tende a diventare
la totalità dei lavoratori salariati a livello mondiale (questo significa il
c.d. “outsourcing” per opera delle multinazionali grandi e piccole, p. es.).
Tende soltanto, notabene: non è ancora. Già. Ma la
questione non sta nel vacuo chiedere “quanto ci vorrà per arrivarci...”! La
questione concreta è un problema di lotta!
La controparte non si fa scrupoli, e casomai utilizza la paroletta “globalizzazione”
quando le serve per spiegarti che chiudo a Treviso e faccio produrre in Romania
dove i costi del lavoro sono minori, o anche che svendo la Fiat per passare all’investimento
finanziario, o che “purtroppo” la concorrenza globalizzata spinge a ridurre
il salario sociale globale (cioè intanto quello in forma differita, pensioni
ecc., o indiretta, sanità, istruzione ecc. ecc.). Ma il lavoratore
complessivo reale, che anche attraverso questi eventi viene prodotto, ma
viene prodotto come segmentato geograficamente, culturalmente (diverse
tradizioni, lingue...) e corporativamente (solidarietà indotta con la “propria”
impresa) - questo lavoratore complessivo reale, che cresce ogni giorno in
numero, e però anche in sfaccettature, è in difficoltà a intendere i
processi di cui è soggetto - poiché a lavorare e produrre, dopo
tutto, è lui! - e dunque subisce questi processi, non
ha l’iniziativa, è oggetto piuttosto che soggetto. (E diversi sociologi,
anche “vicini” al movimento dei lavoratori, bontà loro, scrivono dotti
studi per mostrarti che “in questa fase” è così, non può essere che
così, e non c’è niente da fare. Cioè, raddoppiano il fatto dandogli un
nome, una categorizzazione astratta - tratto tipico della pseudoscienza secondo
Gramsci, sia ricordato di passaggio) [5].
E tuttavia, un sindacato di classe non può essere che
sindacato del lavoratore complessivo in ogni momento reale - proprio
perché sa che gli interessi dei suoi aderenti, che deve difendere in ogni
momento, in ogni momento sono legati alla dinamica di quello. E se “in questa
fase” lo sono difensivamente (perché di fatto, è la controparte di classe
che complessivamente è all’offensiva, tende dappertutto a ridurre
il salario globale reale, cercando in questo una via d’uscita dalla crisi di
valorizzazione, che attanaglia il capitale mondiale da 30 anni) - ebbene,
questo non toglie che la miglior difesa è quella che ha nozione del processo,
ne conosce le contraddizioni interne e ne fa momenti della sua tattica di lotta,
e dunque non subisce passivamente il processo, e nel processo l’iniziativa
dell’avversario e la sua tattica.
Ma: se faccio questo davvero e non a parole, se opero
in modo specifico e per interessi particolari, tenendo però in vista il loro
nesso con l’universale (il lavoratore complessivo reale, in divenire),
la mia tattica non si esaurisce mai nel (parziale) successo (o
insuccesso) che posso ottenere - diventa momento di una strategia.
Strategia lontana? Può darsi. Intanto, primo, vedo il legame, e tengo conto del
legame, tra interessi particolari da difendere e contesto (contesto
intercategoriale; talvolta “nazionale”, cioè dei lavoratori in quanto sono
la forza produttiva operante, esistente, acculturata, effettiva: e se il
riferimento è al Paese, ebbene essi sono la forza produttiva operante,
esistente, acculturata, effettiva - senza la quale gli strumenti di
produzione, dalle roncole ai computers, diventerebbero ferrivecchi). Poi,
secondo, opero in modo tale che la coscienza del legame tra interessi
particolari, “nostri”, e contesto obiettivo, legame che c’è comunque,
che si modifica ogni giorno, che l’avversario conosce per occultarlo e
sfruttare la segmentazione - la coscienza di questo legame operi nella
mia parte - certo, un poco alla volta. Ma questo significa solo e
precisamente, che sto agendo come sindacato di classe. Infatti quel legame, che
c’è, obiettivamente, piaccia o no; che si modifica ogni giorno e le cui
modificazioni vanno studiate, conosciute e praticamente fatte valere - quel
legame, che la controparte conosce istintivamente, poiché essa
rappresenta l’interesse del capitale come “potenza obiettiva”, e lo
utilizza per i fini di una “potenza obiettiva” cui tutti gli individui
(salvo i padroni) devono “fatalmente” sottomettersi : quel “legame”,
finalmente, una volta teoricamente e praticamente conosciuto, in modo da
diventar grado a grado strategia della mia parte, ha un nome, e si
chiama, semplicemente, coscienza di classe.
La strategia del ricreare, riprodurre, ovviamente in forme e
modalità nuove, adatte alla realtà nuova e attuale del nato e crescente
lavoratore complessivo mondiale, la coscienza di classe è certo - s’intende!
una strategia di lungo periodo, anzi forse lunghissimo. Ma essa ha un
vantaggio inestimabile. Eccolo: questa strategia comincia oggi, non domani.
Non è separata astrattamente dalle lotte quotidiane, anzi sono le lotte
quotidiane separate da lei che sono “astratte”, e tendenzialmente perdenti
(l’avversario lo sa anche troppo bene... - impariamo da lui senza paura.) - Il
sindacato di classe è “di classe” perché e in quanto opera con questa
strategia.
Qui, sia chiaro, se ne è detto in generale: i casi specifici
sono da vedere a chi compete.
3. Veniamo a un altro aspetto. Il sindacato di classe
intende le vertenze particolari, salariali, per i diritti, o altre, come momenti
della lotta di classe generale, e lo fa praticamente, non a parole. Bene. Ma, si
è detto, oggetto della lotta di classe è - da sempre - la Riproduzione Sociale
Complessiva, l’insieme della attività umane da cui risultano gli uomini
stessi, e la loro vita associata. E, si è detto, questa astrazione diventa
progressivamente realtà effettuale [6].
In questa formula si può ricomprendere, volendo, la storia
intera del Movimento Operaio - dai primi inizi di resistenza immediata, leghe di
mutuo soccorso e rivendicazioni di condizioni meno disumane di vita e lavoro,
nella prima metà dell’800, alla Prima Internazionale, e poi ai grandi
sindacati e partiti operai a fine ‘800, alla Seconda Internazionale, che
almeno in alcuni Paesi, come la Germania, costituì realmente una sfida all’“ordine”
esistente. Con il 1914, tanto il riformismo quanto lo anarcosindacalismo sono
fuori gioco, definitivamente battuti. Essi erano - prima - due varianti interne
del “socialismo”. Ma “socialismo” significava allora democrazia, pace, e
unità di sviluppo economico e progresso sociale. Questa unità cade nei fatti
(prima che nelle ideologie negatrici del “progresso” in generale, divenute
moda ai nostri giorni) con il passaggio dei grandi Stati nazionali borghesi a
Stati imperialisti, che si spartiscono il mondo in colonie (possiamo dire
convenzionalmente: tra il Congresso delle Potenze a Berlino, 1878, e i primi
anni del ’900). La Seconda Internazionale vide chiaramente l’imperialismo, e
la guerra mondiale, inaudita per distruzioni e massacri, che esso portava con
sé; proclamò solennemente, nel 1912 e nel 1913, che alla guerra imperialista
si sarebbe risposto, per bloccarla, con lo sciopero generale in tutti i Paesi
belligeranti; mancando a questo impegno, proclamato e non preparato, essa
decretò la sua morte - e con lei, la fine di tutta una fase del movimento
operaio internazionale. Il resto, con la Rivoluzione russa, il suo
non-riuscire-a-diventare “scintilla” della rivoluzione mondiale, la nascita
della Terza Internazionale come progetto storico di lavoro alla
rivoluzione mondiale, che i comunisti seppero esser opera di più generazioni (e
questa consapevolezza, finché ci fu e fu operante, li costituì come comunisti
dovunque operassero, attraverso le necessarie modificazioni strategiche, come in
Italia) - poi la sconfitta economico-sociale del “socialismo reale” e la
nuova figura, ancora poco compresa, del dominio imperialistico sul mondo, con lo
sterminio per fame prima, durante e dopo le sue “guerre di media intensità”
(sterminio per fame e malattie in un mondo di risorse abbondanti, come è
dimostrato da oltre 30 anni) - tutto questo NON è “storia di ieri” - ma
invece è il nostro presente, senza conoscere e intendere il quale semplicemente
non possiamo sperare di agire.
4. La consapevolezza della propria storia non si
esaurisce nella memoria delle battaglie vinte e perdute. In ciascuna di esse è
presente, come del resto nella vita quotidiana degli uomini in società, tutto
il passato che ha reso possibile questi uomini, questo lor modo di
vivere, agire, pensare - un vivere, agire, pensare che sono tutti attività sociali [7].
Anche qui, l’azione dell’avversario di classe non si
limita alla propaganda dell’assurdità neoliberale, per cui “società”
sarebbe un insieme di individui astratti, isolati in ogni istante, e in ogni
istante in competizione tra loro, ecc. - No. Si tratta di molto di più, e non
soltanto di propaganda. Quello che deve essere cancellato dalla coscienza è l’obiettivo
modo d’essere di tutti gli “agenti della produzione capitalistica”
[8], cioè tendenzialmente di tutti gli individui in questa
modalità di Riproduzione Sociale Complessiva, in cui il rapporto di capitale e
la riproduzione degli uomini attraverso e mediante merci si estendono a sempre
nuove sfere. E si capisce. Proprio oggi, nell’epoca della massima espansione -
mondiale, “globalizzata” - della produzione capitalistica e del dominio del
capitale, è indispensabile impedire con ogni mezzo che si formino, giorno per
giorno, e dovunque, cittadini consapevoli, dotati di cittadinanza politica,
sociale, culturale. Impedire che noi conosciamo e intendiamo praticamente il
nostro mondo, il nostro presente - perché l’avversario sa bene
che così “non possiamo neppure sperare di agire”, e perdiamo i motivi della
nostra forza, che risiede in primo luogo, da sempre, nella solidarietà.
(Del resto, che cosa sono la “comunicazione deviante”, la
controriforma della scuola, la atomizzazione nella “società dello spettacolo”,
la sostituzione della politica con comitati di potere nascosti dietro
alle fumisterie e pseudonotizie mediatiche - se non aspetti dell’offensiva
reazionaria in atto da almeno tre decenni, e che nella crisi, e attraverso la
crisi, deve dividere i lavoratori, per categorie, per etnie, per
località, per nazioni, paralizzandone l’azione, potenzialmente tanto più
pericolosa quanto più emerge l’intrinseca incoerenza del sistema che si
pretende unico, onnipotente, vittorioso, eterno, punto d’arrivo
insuperabile della storia umana, ecc.?) [9].
Non c’è sindacato di classe senza consapevolezza della sua
storia - della storia del movimento dei lavoratori in primo luogo, e di questa
come un aspetto della storia complessiva dei popoli moderni, e della lotta di
classe in lei.
5. Ma altrettanto. Non c’è sindacato di classe senza
consapevolezza della sua teoria. Vuol dire questo che dobbiamo diventare
tutti specialisti di teoria del movimento operaio? No, ovviamente. (Questa
vecchia sciocchezza torna a galla, anche lei, ogni volta che si tratta di dividere,
seminare il sospetto, rompere la solidarietà.)
Consapevolezza della teoria vuol dire almeno quattro cose.
Primo. Che è possibile l’integrazione della visione del
mondo dal punto di vista dei lavoratori, che è il punto di vista attuale
(anche se nascosto) - cioè il punto di vista della Riproduzione Sociale
Complessiva dalla parte di chi la attua - invece che dal punto di vista di
chi ne trae profitto, e la manipola per perpetuare profitto, privilegio, potere
ecc.
Secondo. Consapevolezza della propria teoria significa
conoscenza dei modi in cui “un altro mondo è (diventato) possibile” - per
noi, per i nostri figli. E non è solo genericamente possibile, ma
indispensabile e fattibile (certo non dall’oggi al domani...); ed è l’alternativa
alla “guerra infinita”, alla lotta sempre più disperata per le risorse
(petrolio, acqua...), alla contrapposizione sempre più violenta tra isole di
benessere e un oceano di miseria, fame, malattie, cioè di un praticato
sterminio, in confronto al quale quello nazista appare ormai come un precedente
poco abile. - Tutti questi sono temi di studio, attuali, di oggi. Non ci sono
“ricette” in testi classici. Ma lo studio del presente è possibile partendo
da modelli teorici, sviluppandoli, verificandoli. Si tratta di cominciare dall’inizio,
senza pretendere di trovare qualche facile toccasana. E così si esce dalla
semplice aspirazione, o nostalgia di “un mondo diverso”.
Terzo. La teoria è un’arma. (Di “armi più raffinate e
decisive” parlava Gramsci nei Quaderni del carcere.) Forse mai come
oggi è stato così. Non solo perché, anche qui, l’avversario ha messo in
opera una gigantesca macchina (anti)culturale, tendente a distruggere nei
lavoratori, e nei cittadini in genere, ogni consapevolezza teorica -
anche e soprattutto nella formazione delle nuove generazioni. Ma perché è una
superstizione, e nulla più, che la teoria nasce dall’”intelligenza” di
qualche testa. È vero il contrario: l’intelligenza nasce dalla teoria.
Imparo a dimostrare il teorema di Pitagora (ricordi di scuola...), a capire come
è fatto, come funziona - e acquisto intelligenza matematica, e perciò e solo
perciò, capacità di dimostrare altri teoremi. “Studiate, perché avremo
bisogno di tutta la vostra intelligenza” era, non per nulla, un motto dell’Ordine
nuovo di Gramsci, nell’anno rivoluzionario 1919.
Quarto. Tutti sappiamo che noi, la nostra parte, dobbiamo
ricominciare da molto lontano. Le vittorie e il potere dell’imperialismo in
questi anni sono sotto gli occhi di tutti. L’offensiva economica e politica
dell’avversario di classe contro i lavoratori e le loro organizzazioni dura da
decenni, e ha ottenuto successi. La classe lavoratrice è segmentata. Il mito
neoliberale dell’antisolidarietà è penetrato in settori popolari, e non crea
certo sbarramenti alle derive etnicistiche, localistiche, perfino razziste. L’occhio
fisso al presente immediato apre la strada alla demoralizzazione.
In queste condizioni, riappropriarsi della nostra storia e
della nostra teoria, se è indispensabile per intendere le tendenze presenti e
agire per modificarle, vale anche a riconquistare l’orgoglio, la dignità
nostra - nella continuità di un movimento che, in cinque generazioni di lotte,
ha imposto quel tanto (o poco) di democrazia che sia mai esistita in Italia, ed è
stato, e ancora è, nella pratica, la dignità degli uomini, il loro diritto
al lavoro, a condizioni degne, all’istruzione, alla salute, alla possibilità
di guardare al futuro come qualcosa da creare, per sé e per gli altri. Nulla di
tutto questo è stato “generosamente concesso”, tutto è stato conquistato
con sacrificio, lotte tenaci, abnegazione. La storia del movimento operaio
italiano è il libro di queste conquiste; da lei si riparte, per andare avanti.
[1] Nessuna società
potrebbe sussistere, se il lavoro umano cessasse: ma nella società moderna,
capitalistica, il lavoro umano tende ad essere quello del lavoratore
salariato. (Anche in forme camuffate: oggi, lavoratori “con partita IVA”,
pseudo-cooperative, “co-co-co” ecc.)
[2] V. Idomeneo BARBADORO, Il sindacato in Italia dalle origini al
1908, Milano, Teti, 1979, p. 20 ss., per i caratteri peculiari del movimento
dei lavoratori italiano, alle sue origini, rispetto a quello inglese e tedesco.
[3] Si può
pensare, p. es., anche alle “vertenze” per la salute, la casa, la
organizzazione del territorio dopo lo “autunno caldo” 1969. O, più
addietro, al “Piano del lavoro” avanzato dalla CGIL nel dopoguerra. Ma
naturalmente, è in questo quadro che si è posta la difficile questione del
rapporto tra organizzazione sindacale e partiti politici dei lavoratori, in
tutto il secolo.
[4] “Riproduzione Sociale Complessiva”
è produzione e riproduzione di uomini associati. Essa risulta dall’insieme
di tutte le attività degli uomini stessi (e anche di enti naturali, come la
terra, modificati e resi utili dal lavoro umano). Ma nel mondo moderno
(capitalistico) questa astrazione si concretizza, grazie proprio allo sviluppo
del rapporto e processo di capitale. Lo si può vedere, partendo dal lavoro.
Il lavoro effettivo (concreto) è sempre, ogni volta, lavoro compiuto
da un determinato lavoratore in un contesto determinato, qui ed ora. Ma perché
ciò avvenga, quel determinato lavoratore e quel contesto
(rapporto di capitale, cioè salariato; condizioni tecniche, e a monte, anche
scientifiche, ecc.) devono essere venuti in essere.
Dunque. Perché il lavoratore effettivo esista, deve esser stato messo
al mondo, cresciuto, educato eccetera, e ciò avverrà sempre in modi e
condizioni socialmente determinate. Se considero l’insieme delle attività che
mi portano ad avere il mio “lavoratore effettivo” in carne ed ossa, con quel
carattere, abilità, tipo umano, linguaggio eccetera, vedo due cose: 1° quelle
attività (che producono condizioni, che si cristallizzano anche in istituzioni,
p. es. scuole) sono tutte, in ogni istante, risultato storico, ma con ciò
anche risultato della lotta di classe (la scuola pubblica, obbligatoria,
gratuita, aperta a tutti, ne è un esempio). E, 2°, che ogni attività umana
entra, direttamente o indirettamente, nella produzione del “lavoratore
concreto, effettivo” (Anche il buon padre che fa passeggiate col figlio?
Certo!) - ed entra nella produzione delle condizioni (industrie, oggi
concorrenza di capitali, finanza...), condizioni nelle quali soltanto il
lavoro effettivo (concreto) può esistere e venire realmente compiuto.
Il Movimento Operaio ha lavorato e lottato per “condizioni
umane” di vita e di lavoro, che erano (e sono) storicamente umane -e,
così, ha lavorato e lottato per “umanizzare” quelle attività, nel loro
complesso, che producono, mettono in essere, fanno esistere tanto il “lavoratore
effettivo” quanto le condizioni in cui esso opera (compreso il dormire? Certo,
abolendo le giornate lavorative di 14 o 16 ore...). - Questo si vuol riassumere
in breve, usando l’espressione teorica “Riproduzione Sociale Complessiva”
[5] La forma capitalistica della
mondializzazione (della riproduzione sociale complessiva su scala mondiale),
produce disastri: fame e sterminio nell’abbondanza, guerre, disastro
ambientale (l’accordo di Kyoto non attuato...), esclusione dal lavoro e dalla
potenziale ricchezza di vita (ricchezza umana) anche nelle metropoli, eccetera.
Intanto, il lavoratore complessivo, che produce merci,
plusvalore, e anche sé stesso come salariato, in quanto riproduce il
capitale di fronte a lui, cresce ogni anno di milioni di unità, attive e/o
disoccupate. Questo esercito di lavoratori c’è - ma è mediato nei rapporti
di capitale e sottoposto alle loro vicende - come mostrano per es. le
concentrazioni e acquisizioni gigantesche degli ultimi 10-15 anni.
[6] Il lavoratore effettivo (concreto) è -
molto più che in passato - prodotto e riprodotto in forma capitalistica.
Basterà ricordare come la massima parte di ciò che ci fa vivere - dagli
alimenti alle abitazioni ai medicinali ecc. ecc. - sia divenuto e divenga sempre
di più prodotto capitalisticamente, in imprese capitalistiche. Ma c’è di
più, proprio oggi. Si vede come l’avversario miri a capitalistizzare
tendenzialmente tutta la vita (formazione, scuola, sanità, cultura). E questo non
è un semplice ritorno indietro: il medico condotto dei nostri nonni, il maestro
elementare (e altri non ve n’erano per la massa della popolazione) non
producevano profitto, non erano “aziende”. Dunque: il lavoratore effettivo
(concreto) è risultato anche di lotte di classe passate, che hanno reso
possibile che da bambino andasse a scuola, che i suoi genitori avessero una casa
decente, che non fossero analfabeti, ecc. - Anche quelle lotte sono il nostro
presente: non saremmo (diventati) quel che siamo senza di loro.
[7] Attività
sociali - di fatto, come mostra un po’ di riflessione (non creo
la lingua in cui parlo, ecc.). Ma questa socialità non è immediatamente
evidente, e non può esserlo, come mostra G. LUKACS nei Prolegomeni all’ontologia
dell’essere sociale, Milano, Guerini & ass., 1990, p. 92 ss.
[8] L’espressione, e la tesi che l’obiettivo modo d’essere non
compare senz’altro nella coscienza degli “agenti”, sono di Marx, Capitale
I, sez. VI (Salario). In superficie, il contratto di lavoro è - un
contratto, accordo di volontà libere e pari tra individui uguali e
indipendenti, come il contratto d’acquisto di un chilo di mele al mercato di
quartiere.
[9] Questa parvenza di insuperabilità
assoluta del capitalismo non è, in sé, cosa nuova. (V. l’utile raccolta di
saggi di E. J. HOBSBAWM, I Rivoluzionari, in italiano presso Einaudi,
Torino, 1975 - cioè assai prima della fine del “socialismo reale”). Tra
i marxisti inglesi del ‘900, essa diede luogo a quello che Hobsbawm chiama il
“settarismo impossibilista”, con la sua incapacità di “fare da soli il
proprio lavoro... condurre la propria analisi di ciò che avveniva nel
capitalismo inglese...” (p. 132) - comprendere, in una parola, che quel “lavoro”
era stato soltanto avviato da Marx ed Engels.