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Pablo Ghigliani
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Nuovo movimento operaio e l’occupazione delle fabbriche in Argentina

Pablo Ghigliani

 [1]

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Introduzione

Alla mobilitazione dei piquetero [2] e al sorgere delle assemblee dei quartieri si sono ora aggiunte le occupazioni delle fabbriche [3]. Circa 120 imprese si sono messe a produrre per i propri lavoratori. La notizia ha entusiasmato la sinistra non solo in Argentina ma anche all’estero. Pare che non vi siano dubbi sulla enorme importanza di questo processo. Però ... perché?

Una interpretazione del fenomeno scopre nel fatto concreto della occupazione e della produzione una serie di attributi, immediati o potenziali, che vanno ben al di là della coscienza sociale che i protagonisti hanno di tali attributi. Si tratta, in genere, della applicazione al caso Argentino della classica tesi dei consigli operaio. I suoi argomenti maggiormente menzionati sono: che le occupazioni delle fabbriche prefigurano una nuova società (oppure che appaiono in esse i germi del comunismo); che tramite l’opposizione di fatto al potere costituito emergono embrioni di doppio potere (o che servono come esperienza per una presa del potere statale); che confrontano il capitale come se fosse un fenomeno naturale e distruggono il mito della funzione sociale dell’imprenditore (o che siano necessari i padroni e i tecnici per far funzionare una unità produttiva); per ultimo, che l’appropriarsi dei mezzi di produzione pone in questione l’alienazione capitalista e la nozione stessa di proprietà privata [4].

È in queste interpretazioni automatiche che l’occupazione e la messa in produzione sono gli indicatori sufficienti di tutti gli attributi menzionati. Tuttavia, l’importanza dell’occupazione delle fabbriche in Argentina risiede realmente in questi attributi?

1. La fisionomia generale delle occupazioni

Anche se l’occupazione delle fabbriche è iniziata prima delle proteste e delle lotte popolari che hanno condotto nel dicembre del 2001 alle dimissioni del presidente De la Rua, la mobilizzazione sociale che è avvenuta dopo questi avvenimenti ha dato nuove energie al processo. Così, la risposta all’inasprirsi dell’ondata di licenziamenti e di chiusure delle fabbriche è stata in modo crescente l’occupazione delle fabbriche. Per di più la mobilizzazione sociale si è estesa alle fabbriche occupate, ai lavoratori disoccupati, ai piquetero e alle assemblee di quartiere, generando nuove forme di azione collettiva e consolidando la solidarietà tra di loro.

Un rapporto delle rivista Enfoques Alternativos calcola che tale processo, che coinvolge circa 10,000 lavoratori, comprenda una varia gamma di attività e di stabilimenti di diversa ampiezza (Gambina, 2003). Le occupazioni non si limitano al settore manifatturiero. Supermercati, fabbriche d’autobus e cliniche sono stati occupati dai lavoratori e messi in funzione. Tralasciando i casi particolari, il quadro generale è quello di piccole imprese, molte con tecnologia obsoleta, in cattive condizioni per la mancanza di manutenzione e lontano dai settori più dinamici del capitale. Secondo una ricerca dell’Università di Buenos Aires (UBA), conformemente ai dati delle 107 fabbriche recuperate dall’Agosto del 2000, l’ottanta per cento di esse ha una media di 38 operai e solo il rimanente venti per cento ha più di cento operai (Dandan, 2003).

Vi è una conformità d’opinioni generalizzata secondo la quale le occupazioni sono fino ad ora di carattere difensivo e provocate dalla chiusura avvenuta o imminente dello stabilimento. La stessa ricerca indica che nel 90% dei casi si trattava d’impresa in corso di fallimento (Dandan, 2003). In casi eccezionali, e con l’attiva partecipazione delle assemblee di quartiere, sono state occupate anche fabbriche che erano state chiuse da mesi e perfino da anni [5].

Una volta presa l’unità produttiva, si procede a organizzare la produzione attraverso la gestione operaia. Per far ciò, i lavoratori devono risolvere una serie di problemi operativi, in particolare l’approvvigionamento delle materie prime, la mancanza di credito, e la sopramenzionata mancanza di macchinari adeguati a causa del deterioramento e del progressivo svuotamento da parte degli imprenditori. In molti casi, il detonatore dell’occupazione è precisamente la constatazione da parte dei lavoratori in lotta che i padroni hanno incominciato a smantellare o a rimuovere i macchinari. Una volta incominciata la produzione, la sfida susseguente è costituita dalla commercializzazione della produzione.

Le occupazioni devono resistere continuamente a tentativi di evacuazione. Lo fanno appellandosi al potere giudiziario, negoziando con le amministrazioni provinciali o municipali e talvolta con la forza fisica. In quest’ultimo caso, studenti, assemblee di quartiere, operai di fabbriche occupate, organizzazioni di disoccupati, piquetero e gruppi e partiti politici di sinistra hanno partecipato, assieme ai lavoratori, allo scontro con le forze repressive.

Praticamente tutte le fabbriche occupate si sono organizzate come cooperative. Le uniche eccezioni sono costituite da Zanello, La Esperanza, Bruckman e Zanon [6].

Zanello è un caso particolare. Ha in questo momento 240 operai (quelli che la occuparono erano inizialmente 60), produce trattori, e fornisce l’ottanta per cento del mercato argentino. Si tratta di una società anonima di cui i lavoratori detengono il 33%. Il resto si divide tra il 33% di proprietà dei concessionari che hanno messo il capitale operativo e il 33% del personale gerarchico e superiore; l’uno per cento è dello stato municipale di Las Varillas, nella provincia di Cordoba. Frutto genuino della lotta dei suoi lavoratori, la sua forma di proprietà la distingue dal resto delle occupazioni. Ma non si distingue per i problemi che sorgono e che analizzeremo più sotto.

La ditta La Esperanza, che produce zucchero e alcool, si trova nel Nord Est Argentino, nella provincia del Jujuy. Vi lavorano circa 600 lavoratori, quelli che hanno deciso di occupare la fabbrica. Se ad essi aggiungiamo i lavoratori stagionali e del trasporto che lavorano durante la raccolta annuale, il numero dei lavoratori supera i duemila.

La produzione dello zucchero e lo sfruttamento brutale hanno una lunga storia nella regione. Ne La Esperanza si sono coltivate grandi estensioni di canna da zucchero fin dal secolo diciottesimo. Il suo nome attuale data dal 1883 in uno dei tanti cambi di forma di proprietà con la quale si è organizzata questa impresa. La sua forza lavoro è stata reclutata dal principio del secolo ventesimo tra la popolazione indigena. Prima, attraverso la violenza privata organizzata dei proprietari e poi attraverso la violenza pubblica e ‘civilizzatrice’ dell’esercito Argentino. Durante tutto il secolo passato, la produzione di zucchero nel Nord Est Argentino ha continuato ad essere sinonimo di un’autorità quasi feudale da parte dell’impresa, di forme di sfruttamento della forza lavoro che violano le regole borghesi, di enormi differenze di ricchezza e di importanti conflitti sociali [7].

Per la quantità di produzione, La Esperanza era tra i primi cinque stabilimenti durante tutta la decade degli anni 1980, essendo 23 le fabbriche di una certa importanza in Argentina. All’inizio degli anni ’90 è riuscita a collocarsi al terzo posto con una produzione superiore alle cento mila tonnellate (CAA, 2003).

A incominciare da questo punto, le relazioni industriali della fabbrica soffrono un progressivo e costante deterioramento. Dopo mesi di mancato pagamento dei salari e di peggioramento delle condizioni di lavoro, causato tra l’altro dal deplorevole stato delle attrezzature, gli operai e gli impiegati occupano la fabbrica agli inizi di settembre 1999, prendono in ostaggio i dirigenti dell’impresa, fanno fronte alla repressione e mettono in marcia la produzione della fabbrica con controllo operaio. Dopodiché, la Commissione di Lotta eletta in una assemblea e diretta dal CCC propone, tramite la Legge sui Fallimenti e come risoluzione legale del conflitto, la ‘amministrazione giudiziaria’ dell’impresa con controllo operaio sulle entrate e sulle spese. In questo modo, gli operai si liberano dei vecchi debiti e pongono come condizione che si saldi il debito salariale.

A partire da questo punto, la lotta continua con mobilitazioni, manifestazioni e blocchi stradali. Il loro fine era che si pagassero nuovi ritardi salariali. Tale pagamento è stato occasionalmente fatto grazie a apporti dello stato provinciale sotto forma di prestiti in cambio di ipoteche sui terreni della fabbrica [8]. Alla fine dell’ultimo anno, i lavoratori hanno dovuto occupare di nuovo la fabbrica richiedendo, questa volta senza un esito positivo, il pagamento degli arretrati (Alejandro, 2002). Durante la tappa che inizia nel 1999, la produzione media annuale della fabbrica cade a 53 mila tonnellate.

Dato che la ‘amministrazione giudiziaria’ poco per volta ha limitato e marginalizzato la portata effettiva del controllo operaio, questa strategia è stata considerata da vari settori della sinistra come inadeguata. Per la CCC, la ‘amministrazione giudiziaria’ era parte di una politica graduale. Per primo, permetteva che dopo la occupazione si assicurasse la continuità produttiva coinvolgendo allo stesso tempo lo stato provinciale. E in secondo luogo, assicurava che, una volta sotto la ‘amministrazione giudiziaria’, si approfondisse la lotta per impedire il trasferimento della fabbrica a nuovi proprietari richiedendo la statalizzazione dell’impresa sotto controllo operaio, permettendo, in questo caso, la partecipazione alla gestione di impresari e produttori locali (Aramayo, 2001). Tuttavia, fino ad ora, i risultati di questa strategia non sono stati incoraggianti [9].

Per ultimi, i due casi di Brukman e Zanon che hanno richiesto la statalizzazione della fabbrica con controllo operaio fin dall’inizio della occupazione, scartando ogni altro tipo di soluzione. Brukman è una fabbrica tessile che si trova nella Capitale federale e che occupa 54 lavoratori per la maggior parte donne. Zanon produce ceramiche, impiega circa 300 lavoratori e si trova nella provincia di Neuquen. Mentre proseguono le mobilitazioni, propagandando e richiedendo allo stato questa soluzione, gli operai di entrambe le fabbriche producono e commercializzano la produzione.

L’esistenza di questi cammini divergenti ha provocato un intenso dibattito su quale forma di gestione debbano assumere gli stabilimenti. La discussione si è focalizzata sulla scelta tra organizzazione cooperativa e statalizzazione con controllo operaio.

2. Cooperative o statalizzazione con controllo operaio?

In realtà, dietro questo dibattito si nascondono non due ma almeno quattro posizioni distinte, dato che nella difesa delle cooperative si trovano gruppi con orientamento diverso. L’attore principale è il Movimento Nazionale delle Imprese Recuperate (MNER). Formato nel 2001, il MNER raggruppa la maggior parte delle imprese occupate e domina il campo cooperativista grazie, in parte, all’appoggio concreto che offre ai lavoratori che scelgono questa soluzione. Questo movimento, all’insegna di “occupare, resistere e produrre” persegue politiche pubbliche che beneficiano le imprese occupate e facilitano la formazione di cooperative (Plou, 2002) [10]. Si insiste che il vantaggio di questa forma giuridica è che rende possibile l’accesso al credito e, con esso, allo sviluppo di imprese redditizie (Dandan, 2002). Il perno delle sue azioni è l’azione legale. Nella provincia di Buenos Aires hanno conseguito la espropriazione delle fabbriche fallite (utilizzando per questo la legge della espropriazione della terra) che sono state consegnate in comodato o in donazione ai lavoratori [11]. Ha anche presentato progetti di modifiche della legge sui fallimenti che privilegia i creditori piuttosto che i lavoratori, affinché i beni delle imprese fallite non siano liquidati ma dati per due anni ai loro operatori. Alla fine di questo termine, i lavoratori avrebbero la priorità per l’acquisto dell’unità produttiva (Heller, 2002, 2002c; Argenpress 2002). Per di più, il MNER ha accordi con l’Associazione di Piccole e Medie Imprese (APyME) e con la Università Tecnologica presso la quale cerca un appoggio tecnico per la formazione di personale amministrativo e di direttori d’impresa (Ribecchi, 2002). Le sue alleanze politiche comprendono membri dei partiti politici tradizionali, della burocrazia sindacale e della Chiesa cattolica, i quali hanno partecipato ai due incontri organizzati dal MNER. Questo movimento mette l’accento sulla necessità della occupazione pacifica, all’interno della legge e solo delle imprese fallite.

Tuttavia, dietro la soluzione cooperativistica vi sono due altri gruppi, anche se essi non riescono ad avere un’esistenza organica. Da una parte vi sono coloro che difendono un cooperativismo operaio fortemente impegnato nel campo delle lotte popolari, democratico e ugualitario. Difendono il progresso rappresentato dalla proprietà collettiva dei mezzi di produzione piuttosto che l’impresa capitalistica tipica. La grande maggioranza delle cooperative che si identificano con questi obiettivi si trovano all’interno del MNER dato che hanno problemi comuni, tra cui la minaccia dello sgombero e la necessità di accedere all’uso degli immobili e dei macchinari per via legale. In questo senso, il MNER offre l’appoggio legale e per di più la capacità di lobby legata alle sfere dello stato.

Dall’altro lato, partecipano a questo dibattito come corrente di opinione coloro che, più che optare per la soluzione cooperativistica come obiettivo programmatico, si oppongono alla statalizzazione da un punto di vista ideale dell’autogestione. Questi gruppi esprimono una forte opposizione a ogni ingerenza statale ed una non meno forte diffidenza verso le organizzazioni di partito, compresi i partiti della sinistra. Vedono nelle occupazioni lo stesso spirito di autonomia, orizzontalità, e democrazia diretta che scoprono nel MTD, in certe organizzazioni di piqueteros e nelle assemblee di quartiere [12].

La statalizzazione con controllo operaio è difesa, oltre che dalle fabbriche su menzionate, da diversi partiti della sinistra [13]. Essi criticano la soluzione cooperativistica per due ragioni principali. Primo, sostengono che questa forma di proprietà è in definitiva una forma specifica di proprietà privata sommersa in un mare di relazioni mercantili. Pertanto, continuano, non potrà scappare alla logica capitalista, in tal modo indebolendo ogni potenziale di alternativa al sistema. In secondo luogo, enumerano un insieme di problemi concreti che le cooperative devono affrontare, che derivano precisamente dalla concorrenza capitalista, e che discuteremo in dettaglio più sotto. Quindi propongono l’espropriazione e statalizzazione con controllo operaio delle imprese occupate, senza indennizzo per il capitale e rinnegando i debiti dei padroni. Esigono che lo stato garantisca gli investimenti tecnologici, il presupposto necessario per il funzionamento dell’impresa e per la risuscita della produzione orientata verso i bisogni sociali [14].

La posizione del MNER riguardo questo programma è stata una critica superficiale, congiunturale e opportunista dello stato. In sintesi, secondo il suo segretario, “non pare opportuno consegnare le imprese che abbiamo recuperato e messo in funzione a questo stato mafioso” (Dandan, 2002). Tuttavia, parallelamente lo stesso MNER chiede a questo stesso stato garanzie per lo sviluppo delle cooperative attraverso mezzi legislativi e canali di credito. Per questo, esso ricorre alle amministrazioni provinciali e municipali, stabilendo alleanze con settori della burocrazia statale e dei partiti politici che hanno fatto funzionare lo stato argentino fino al ritorno della democrazia.

D’altra parte, varie correnti della sinistra sono d’accordo che il carattere capitalista dello stato finirà per impedire la gestione e autonomia operaia e che un programma come questo corrisponde ad una concezione statalista della rivoluzione che deve essere abbandonata (Heller, 2002d; Gambina, 2003; Ribecchi, 2002) [15].


[1] Ringrazio Juan Grigera e Marcelo Raimundo per i loro commenti critici.

[2] Nota del traduttore: le organizzazioni dei piquetero sono organizzazioni di base il cui modo principale di lotta è il blocco stradale. Le loro rivendicazioni sono varie, tra cui l’assistenza sociale. In totale, queste organizzazioni dirigono circa 145,000 piani assistenziali al mese. I loro membri sono disoccupati e abitanti di quartiere poveri, con una grossa presenza di donne. Si calcola che esistano tra i 150,000 e 200,000 piquetero organizzati.

[3] Secondo dei criteri quantitativi (quantità dei militanti, piani di assistenza sociale amministrati e presenza sul territorio) possiamo dividere la mappa dei piquetero in tre parti (Perazzi, 2002). Primo, le organizzazioni più importanti sarebbero la Federacion de Tierra Vivienda che si integra nella Confederacion de Trabajadores Argentinos (FTV-CTA) e la Corrente Clasista y Combativa (CCC). Secondo, il Bloque Piquetero Nacional (BPN) integrato nel Polo Obrero (PO) (il più importante dentro il Bloque secondo questi criteri), il Movimento Teresa Rodriguez (MTR), la Federacion de Trabajadores Combativos (FTC), la Coordinadora de Unidad barrial (CUBA) e il Movimento Territorial de Liberacion ((MTL). Per ultima, la Coordinadora de Trabajadores Desocupados ‘Anibal Veron’ (CTD-AV) che si distingue per il modo particolare con cui combina la auto-organizzazione (che include imprese produttive) con la preoccupazione per i compiti di formazione politica e di formazione entro i principi della orizzontalità , autonomia, partecipazione e democrazia diretta, che sono la base del suo programma anticapitalista (FSM, 2002). A questo quadro dobbiamo aggiungere il Movimento Barrios de Pie (MBP) che si è staccato dal FTV-CTA però senza rompere con la CTA. Per quanto riguarda le assemblee di quartiere, non c’è da essere allegri per quanto riguarda la sua la loro attualità in quanto molte sono sparite e quelle che sono rimaste sono indebolite. Tuttavia hanno partecipato per tutto il 2002 alla difesa delle fabbriche occupate e sicuramente la prossima ondata di mobilitazione le vedrà tra i suoi protagonisti.

[4] Una o più di queste tesi appaiono, con differenti livelli di analisi, in Aguirre-Feijoo (2002); Heller (2002b, 2002d); Lucita (2002); Martinez (2002); Petras (2002); Petras e Veltemyer (2002); Pichetti (2002); PS (2002); Santana (2002); Werner-Aguirre (2002a, 2002b).

[5] Un esempio: la Panificadora 5, l’attuale Cooperativa ‘El Aguante’, chiusa nell’Ottobre del 2001 e occupata nell’Aprile dell’anno seguente con l’appoggio delle assemblee di quartiere. Un caso particolare: quello della Clinica Portuguesa, occupata da un’assemblea di quartiere dopo sei anni con l’obiettivo di lanciare un’attività sociale per i lavoratori delle fabbriche occupate. Un ultimo esempio: l’occupazione della fabbrica di alimentari farinacei Sasetru il 30 di gennaio, e che fu evacuata dalle forze della polizia.

[6] Dobbiamo aggiungere a questo quadro l’esperienza di Yacimientos Carboniferos de Rio Turbio (YCRT) che non appare nel rapporto di Enfoques Alternativos citato da Gambina (2003) e che è ignorata da numerose analisi. YCRT è una miniera di carbone situata nel sud dell’Argentina che dà occupazione a 1100 lavoratori. Fu rilasciata in concessione nel 1944 e rinazionalizzata dopo intense lotte che compresero l’occupazione non solo della miniera ma anche della sede legislativa provinciale - pere tutta una settimana - a causa del ritardo del pagamento dei salari. Il programma della sezione sindacale che guida la lotta comprende la nazionalizzazione dei giacimenti e il controllo operaio della supervisione del processo produttivo e della gestione e dell’amministrazione della miniera (Cresto, 2002; Negro, 2002).

[7] Vi è una vecchia leggenda, quella di “El Familiar”, che circola tra gli indigeni del Nord Est. Secondo questa leggenda, i padroni avevano fatto un patto con il diavolo, “El Familiar”, a cui davano alloggio nella cantina e a cui davano da mangiare tutti gli anni un contadino che ovviamente spariva. Un lavoratore che aveva sentito di questa faccenda, riceve l’ordine di andare in cantina per cercare dei ferri. Messo in guardia dalle dicerie, va quindi con una croce appesa al petto e con un cucchiaio col manico fatto a croce. Armato di croce e cucchiaio, riesce a far fronte al diavolo e a scappare. Si racconta che i padroni abbiano pagato a questo contadino una buona somma di denaro perché egli non raccontasse nulla e lasciasse la fabbrica. Leggenda premonitrice della lotta di decine di operai dello zucchero spariti durante la dittatura (1976-1983) e della attuale complicità di certe dirigenze sindacali.

[8] L’ipoteca sui terreni della fabbrica non è un dato minore. I suoi 64,000 ettari costituiscono il secondo latifondo della provincia. Il governo ha grandi interessi nell’autorizzare questa transazione e ha già ricevuto alcune offerte. Su questi terreni esistono vari insediamenti, inclusi quelli degli stessi lavoratori dello zucchero che lavorano durante la raccolta.

[9] Le relazioni sociali di produzione nella fabbrica sono diverse e complesse. Dopo aver rimpiazzato i proprietari con la ‘amministrazione giudiziaria’, diventa difficile amalgamare, in una politica comune, gli interessi degli operai e impiegati salariati a tempo indeterminato nella fabbrica, dei lavoratori che raccolgono la canna annualmente, dei trasportatori (sia salariati che autonomi) e dei piccolo produttori indipendenti che partecipano alla raccolta e che a loro volta impiegano forza lavoro.

[10] Le imprese raggruppate nel MNER sarebbero 50 secondo Dandan (2002), 60 secondo Zibecchi (20002), 80 secondo Argenpress (2002), 100 secondo Plou (2002).

[11] Alla fine del 2002 vi erano 21 espropriazioni con questo carattere (di esse, una si effettuò nel 2000 e 3 nel 2001).

[12] Si tratta di un gruppo completamente eterogeneo e dalle frontiere confuse. Arrivano dalla tradizione dell’autonomismo italiano però attraverso il filtro di Open Marxism e in particolare della produzione teorica di Holloway (2002), ampiamente diffusa in Argentina. Ne fanno parte dei militanti di distinti MTD integrati nella CTD-AV, fino a, paradossalmente, Autodeterminacion y Libertade il suo discusso Luis Zamorra. Nel mezzo si trovano diversi gruppi di ricerca, redazioni indipendenti, gruppi di studenti, gruppi di autogestione, ecc.

[13] Tra cui il Partido de Trabajadores por el Socialismo (PTS), il Movimiento Socialistde los Trabajadores (MST), e la Union Socialista de los Trabajadores (UST). Difficile da collocare nel quadro generale, il Partido Obrero (PO) propone la espropriazione senza indennizzo e la gestione operaia, si oppone alla statalizzazione che definisce ‘capitalista’, propone di trasformare queste fabbriche in fornitrici privilegiate dello stato, si oppone alla illusione di fabbriche autogestite in mezzo al mercato capitalista, propone una centrale unica di imprese occupate sotto gestione operaia. Una prova fantastica di acrobatismo rivoluzionario.

[14] Un’idea più dettagliata di questa posizione si può ottenere attraverso la lettura su Internet del Proyecto de Ley per la statalizzazione di Zanon presentato nella legislature della provincia di Neunquén.

[15] Recentemente il EDI (2003) si è accodato a questo dibattito con una proposta il cui scopo è di superare entrambe le posizioni. Riconoscendo sia la debolezza della soluzione cooperativista che la difficoltà politica della statalizzazione con controllo operaio delle piccolo imprese, che la maggioranza delle popolazione non vede come un patrimonio pubblico, propone una figura legale specifica che da un lato acceleri il passaggio di proprietà, socializzi la gestione, e restringa la pertinenza delle imprese ai loro lavoratori; e dall’altro lato, rigetti i diritti sul capitale accumulato, obblighi a reinvestire i profitti nel capitale e implichi la distribuzione dei dividendi.