Globalizzazione dei mercati finanziari e crisi valutarie. Tobin Tax: una possibile soluzione?
Valeria Cipriani
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Questo lavoro si struttura in due sezioni. In
questo numero verrà posta l’attenzione sulle crisi finanziarie che hanno
colpito molte economie nell’ultimo decennio, verranno analizzate le cause e le
conseguenze, e verrà proposta una possibile soluzione, la Tobin Tax.
La seconda parte, che tratterà i vari problemi di
fattibilità della tassa, verrà pubblicata nel numero successivo.
Da Bretton Woods ad oggi la regola che vige in assoluto nel
nostro sistema economico è che lasciando il mercato funzionare liberamente
questo è in grado di autoregolarsi. Penso che ormai sia chiaro a tutti che
questo non è vero. Molti sono convinti che la globalizzazione del sistema
economico internazionale sia un elemento di prosperità, la domanda che dobbiamo
porci è a chi ha portato prosperità? Quanto e stato fruttuoso utilizzare, nei
Paesi in via di sviluppo, gli stessi metodi di sviluppo economico usati da noi?
E tasto ancora più dolente, quanta prosperità ha portato la globalizzazione
dei mercati finanziari? Sicuramente l’espansione dei mercati finanziari è
stata fruttuosa per molte economie industrializzate, lo stesso non si può dire
per le economie in via di sviluppo che hanno pagato le conseguenze di questa
esplosione. Molti paesi in via di sviluppo sono stati colpiti nell’ultimo
decennio da crisi finanziarie di grande portata.
Queste crisi hanno avuto alcuni denominatori comuni: hanno
colpito in prevalenza economie in via di sviluppo; hanno colpito Paesi che
puntavano alla stabilità del tasso di cambio; sono state amplificate da
attacchi speculativi sulla valuta nazionale che hanno causato svalutazioni
massicce dei tassi di cambio; hanno intaccato conseguentemente l’economia
reale deprimendo la produzione, facendo diminuire l’occupazione e facendo
aumentare la povertà; si sono poi estese anche a quei Paese legati
economicamente alle economie in crisi. Negli ultimi anni i casi più eclatanti
di crisi finanziarie non legate direttamente all’andamento dell’economia
reale sono state: quella avvenuta in Messico nel 1995 (vedere Approfondimento
1), che si è rapidamente estesa ad altri Paesi dell’America Latina, quella
sudafricana del 1996, quella del Sud Est Asiatico del 1997 e così via quella
della Russia, del Brasile fino ad arrivare a quella turca e quella in Argentina
(2001). Queste crisi sono la conseguenza di massicce speculazioni su valute
deboli che hanno provocato crisi monetarie molto gravi con conseguenze
estremamente negative sul piano sociale (Bond 1999).
Approfondimento 1: Il caso del Messico
Fra gli anni Ottanta e gli anni Novanta il Messico per
entrare a far parte del NAFTA (Accordo di Libero Scambio) si liberò di tutte le
imprese-zavorra del settore pubblico e cominciò a vendere, o meglio a svendere,
le stesse imprese pubbliche redditizie. Nel Dicembre del 1994 le scelte seguite
negli ultimi anni dai dirigenti messicani e condizionate dai grandi investitori,
soprattutto americani, portarono nel giro di pochi giorni al collasso dell’economia.
L’inflazione era ormai alle stelle ed era necessario effettuare una
svalutazione del peso in quanto erano esaurite le riserve monetarie necessarie
per il mantenimento della parità con il dollaro, si prospettava quindi una fuga
di massa dei capitali [1]. Tra il dicembre del 1994 e il dicembre
del ’95 fallirono più di 45.000 fra piccole e medie imprese, nei principali
centri urbani del Paese la violenza nelle strade provocò una media di 1.000
crimini al giorno, ci furono ripercussioni sui mercati finanziari di tutto il
mondo: gli investitori ritirarono i propri capitali soprattutto dal Cile, dall’Argentine
e dal Brasile.
Per salvaguardare gli investitori stranieri dal tracollo e
per garantire gli interessi statunitensi, il Fondo Monetario Internazionale
(FMI), con l’appoggio dei principali governi, promosse un ingente prestito
destinato a risanare i bilanci del Messico. Il FMI, la Banca dei Regolamenti
Internazionali (BIS) e il governo canadese concessero un prestito pari a 48
miliardi di dollari USA. Si tratta del prestito più ingente, inferiore soltanto
a quello del piano Marshall, del secondo dopoguerra. In altre parole, i Paesi
sostenitori del FMI salvarono dal tracollo gli speculatori padroni del mondo
globalizzato.
A quali condizioni il Messico ottenne questo prestito? Per
ricevere questi aiuti il Messico dovette sottostare a condizioni “incredibili”.
Dovette depositare in un tribunale di New York le fatture ancora pendenti che,
in caso di ottemperanza, sarebbero state saldate con cessioni petrolifere;
ottenne un tasso di interesse del 12%; fu costretto a privatizzare varie
strutture come porti, aeroporti, ferrovie, aziende petrolchimiche e centrali
elettriche; inoltre gli Stati Uniti pretesero la militarizzazione di alcuni
stati messicani, tra cui il Chiapas.
Chi ci guadagnò in tutto questo? Non furono certo i poveri,
i disoccupati o i senzatetto a trarne vantaggio, furono soprattutto gli
investitori stranieri, che videro salvaguardati i propri interessi, e gli
speculatori finanziari internazionali che furono i protagonisti di questa crisi.
Questi ultimi sono riusciti a piegare al proprio volere gli organismi economici
mondiali.
A provocare le recenti crisi finanziarie nei mercati
emergenti è stata soprattutto la fuga improvvisa dei capitali liquidi alle
prime avvisaglie di qualche difficoltà finanziaria ed economica. In anni
recenti, e per effetto della rapida liberalizzazione, enormi quantità di
capitali si sono riversate dalle economie industriali a quelle dei mercati
emergenti per avvantaggiarsi dei rendimenti più alti dovuti a tassi di crescita
di gran lunga più veloci e alle molte opportunità di investimento non
sfruttate.
Nello scorso decennio, le motivazioni appena apportate hanno
guidato enormi flussi di capitali verso questi Paesi. Una parte di essi era
costituita da investimenti diretti di lungo termine, quindi abbastanza stabili.
In seguito è andata sempre più aumentando la quota degli investimenti di
carattere finanziario, ritirabili facilmente non appena fosse apparso il minimo
segnale di crisi. In un’evenienza del genere, imponenti quantità di capitale
finanziario potevano essere rapidamente rimpatriate.
È quello che è accaduto di fatto, e che fece precipitare
tutte le crisi che hanno colpito i Paesi emergenti negli ultimi anni. Il
problema di fondo che provocò ciascuna delle crisi fu di volta in volta
diverso, ma il processo fu molto simile in tutti i casi. Un altro aspetto
fondamentale è che gli operatori finanziari spostano continuamente i propri
investimenti alla ricerca di rendimenti sempre maggiori, quindi, una volta
verificatasi una crisi, i capitali lasciano il Paese in difficoltà e vanno a
colpire economie “sane”.
In tutto questo quale è il ruolo degli organismi
internazionali e in particolare del Fondo Monetario Internazionale e della Banca
Mondiale (BM)? Questi organismi sono nati per favorire lo sviluppo globale, il
ruolo del FMI è quello di sorvegliare i mercati internazionali e finanziare
quei Paesi che hanno problemi di bilancia dei pagamenti, il ruolo della BM è
molto simile a quello del Fondo, essa favorisce lo sviluppo sovvenzionando
programmi specifici. Questi sono gli obiettivi delle organizzazioni
internazionali, per raggiungerli, il FMI presta denaro ai Paesi in difficoltà a
patto che il Paese rispetti le sue direttive, con l’obbligo della restituzione
dopo un tot di anni e imponendo il pagamento degli interessi. In poche parole,
accettando le condizioni del Fondo, i Paesi in via di sviluppo contraggono un
debito che, nella maggior parte dei casi, non saranno mai in grado di
restituire, in più devono pagare degli interessi che pesano sul loro bilancio
aggravando la situazione già precaria e a scadenza del debito necessitano di
altri fondi. A questo punto il Fondo rinnova il credito, detta però regole
sempre più gravose, spesso per favorire gli investitori internazionali,
costringendo il Paese a seguire la politica monetaria e fiscale decisa dal fondo
stesso (vedere Approfondimento 2).
Approfondimento 2: Il caso Argentina
L’Argentina è in recessione dall’Aprile del 1998. Dopo
un periodo di crescita, dal 1991 al 1997, nel 1998 iniziò una fase di
recessione che portò come conseguenze, la caduta dei pagamenti e l’aumento
della bancarotta. Il PIL cadde del 3.2% nel 1999, dello 0.5 % nel 2000 e del
3.5% nel 2001. Fra il 2000 e il 2001, 3.000 imprese hanno cessato la loro
attività, la disoccupazione è arrivata al 18,3% e si calcola che dei 36
milioni di argentini, 14 milioni vivono al di sotto della soglia di povertà [2]. L’unica politica adottata dal
governo argentino in risposta alla crisi attuale è firmare accordi con il Fondo
Monetario Internazionale per attirare investitori che riattivino l’economia.
Il FMI approfitta quindi della situazione per imporre condizioni che favoriscano
il settore finanziario internazionale e nazionale. Quindi l’aiuto che il Fondo
è disposto a dare non procura un miglioramento effettivo della situazione
economica: si tratta solo di una registrazione contabile per rinviare i debiti
che l’Argentina deve restituire al FMI. Questo andamento ha caratterizzato la
politica economica del Paese: nel 1975 il debito estero argentino ammontava a
7.875 milioni di dollari, nel 1999 ammontava a 147.881 milioni di dollari. A
prima vista può sembrare che negli ultimi venticinque anni l’Argentina è
sopravvissuta grazie all’aiuto del Fondo, un’analisi più accurata mette in
luce un altro aspetto. Dal 1976 al 2000 il servizio del debito pagato dall’Argentina
(ammortamento + interesse) ammonta a 212.280 milioni di dollari, cioè più dell’attuale
debito e venticinque volte quello iniziale [3]. A
cosa ha portato seguire alla lettera la politica imposta dal Fondo? Il risultato
è stato: un indebitamento enorme, la denazionalizzazione dell’economia, la
concentrazione delle entrate, l’impoverimento di gran parte della popolazione,
la crisi finanziaria e la depressione economica.
Comunque, dopo quattro anni dall’inizio della recessione,
la situazione dell’Argentina è più critica che mai, la povertà ha raggiunto
livelli inauditi così come la disoccupazione e la mortalità infantile dovuta a
denutrizione, e la produzione non accenna a riprendersi. Il 22 Novembre del 2002
scadeva il termine di un prestito emesso dal Fondo nel Gennaio 2001 la cui
scadenza è stata prorogata di un anno a patto che l’Argentina provveda a
stabilizzare il settore finanziario e a ridurre la spesa pubblica (una politica
restrittiva che non fa altro che contrarre la produzione ulteriormente). La
situazione dell’Argentina resta difficile nonostante il Paese abbia sempre
seguito le ricette imposte dal Fondo Monetario (o forse proprio per questo) e
difficilmente questo nuovo prestito, al quale vanno comunque pagati gli
interessi, sarà sufficiente a garantire la ripresa economica del Paese.
Il Fondo Monetario si limita quindi ad emettere prestiti e
proporre soluzioni standard che difficilmente vanno bene in tutti i casi, non è
quindi in grado né di evitare le crisi finanziare, né di limitare la gravità
di queste. Per questi motivi molti invocano oggi riforme del sistema monetario e
finanziario internazionale che impediscano o almeno contengano queste crisi e ne
evitino la diffusione. Fra le proposte in questo senso si colloca la Tobin Tax.
Uno degli obiettivi della Tobin Tax è quello di colpire le
speculazioni, rendendo più costose le transazioni a breve termine, questo
perché le speculazioni sortiscono effetti sfavorevoli sull’attività
economica. Un effetto delle speculazioni è che queste danno luogo ad enormi
movimenti dei prezzi (tassi di cambio) non riconducibili a fenomeni economici
reali. Per spiegare meglio come si generano ampie fluttuazioni di prezzi
facciamo due esempi. Come primo esempio consideriamo il caso in cui un Paese si
trova in un periodo di crescita economica che è accompagnato da un vasto
movimento di speculazione al rialzo sui titoli confermato all’inizio dall’andamento
economico generale, queste condizioni possono suscitare un’ondata di
ottimismo, attirando speculatori improvvisati e facendo aumentare i prezzi. In
queste circostanze, il minimo accenno ad una flessione dei prezzi fa crollare
tutto l’edificio di valori “gonfiati” che si sono creati nella prima fase,
con perdite rilevanti per tutti.
Un secondo esempio può essere quello di una speculazione che
si esercita sulla base non di variazioni di prezzi esistenti autonomamente,
bensì di variazioni artificialmente provocate. Ci troviamo nel caso in cui in
un Paese si diffondono notizie, non sempre di natura economica, che danno luogo
ad andamenti temporanei del mercato e creano differenze artificiali dei prezzi.
Quando scoppia la “bolla”, cioè quando i prezzi ritornano al loro livello normale,
si ha generalmente un aumento dell’incertezza e del rischio, e perdite per
determinate categorie di operatori.
Le speculazioni sono aumentate fortemente nell’ultimo
decennio con la globalizzazione dei mercati finanziari, questa globalizzazione
è stata favorita dalla rimozione di vincoli di tipo normativo all’operatività
delle istituzioni creditizie sul mercato dei cambi, che prende il nome di deregulation
valutaria (vedere Approfondimento 3).
Approfondimento 3: La deregulation
Gli anni Ottanta hanno visto: un periodo di recessione
mondiale, la rivoluzione tecnologica nei mercati finanziari e una generale
deregolamentazione dei mercati e delle istituzioni finanziarie.
I Paesi in via di sviluppo (PVS), a causa del loro pesante
indebitamento nel decennio precedente, hanno subito conseguenze più pesanti in
seguito alla recessione mondiale; in coincidenza con tassi di cambio e di
interesse a loro sfavorevoli, gli ammontari da rimborsare sono cresciuti
considerevolmente in termini reali. Oltretutto la domanda di materie prime era
caduta sensibilmente, rendendo sempre più difficile per i Paesi in via di
sviluppo reperire i fondi di cui avevano bisogno.
La sopravvalutazione del dollaro favorì la crescita
economica degli Stati Uniti a discapito degli altri Paesi, i quali videro
ridursi le prospettive di crescita e di sviluppo. Per finanziare i PVS che
avevano difficoltà nella restituzione del debito, gli organismi internazionali
furono costretti a mettere a loro disposizione somme più ingenti. Nel frattempo
la situazione era divenuta insostenibile per molti banchieri e finanziatori del
debito di questi Paesi.
Le azioni intraprese dai governi sui mercati dei cambi per
difendersi dalle pressioni economiche esterne, portarono al fallimento delle
politiche che miravano a tassi di cambio stabili. In una situazione in cui la
rivoluzione dell’informazione e delle tecnologie muoveva i primi passi, i
Paesi coinvolti persuasero gli altri a liberalizzare i mercati, con la
conseguente esplosione della deregulation nella metà degli anni Ottanta.
Il processo di liberalizzazione dei movimenti di capitale ha
preso piede, con fasi alterne e dinamiche diverse, prima nei paesi
industrializzati e, recentemente, in gran parte dei paesi in via di sviluppo. La
tendenza alla deregulation cominciò nel Regno Unito nel 1979 con l’abbandono
dei controlli sui cambi, nel 1980 la Svizzera tolse le restrizioni sui cambi
relative ai depositi denominati in franchi svizzeri dai non residenti. Nel corso
degli anni Ottanta si ebbero nuovi cambiamenti al fine di consentire a sempre
più individui, enti e istituzioni l’accesso ai mercati esteri. Gli Stati
Uniti nel 1981 rimossero molte restrizioni sul commercio internazionale delle
banche e nel 1984 fu abolita la withholding tax, una tassa sui titoli
statunitensi in possesso dei non residenti. Negli stessi anni i centri offshore
acquistarono maggior importanza, favoriti dall’appoggio del Regno Unito (sotto
il governo Thatcher) e degli Stati Uniti (con la nuova amministrazione Reagan).
Oggi quasi tutti i Paesi industrializzati permettono l’accesso
delle banche straniere ai mercati interni, comunque i cambiamenti più
importanti in ambito di deregolamentazione hanno avuto luogo in Giappone. Nei
paesi industrializzati i controlli sui movimenti di capitale sono oggi
virtualmente aboliti, la loro rimozione è stata realizzata con l’ausilio del
così detto Codice di liberalizzazione dei movimenti di capitale definito in
sede OCSE. Tuttavia, alcuni di questi paesi mantengono la facoltà di imporre
restrizioni su alcune transazioni e operazioni che impattano sul conto capitale,
per motivi prudenziali o di controllo monetario.
Per quanto riguarda i paesi in Via di Sviluppo (PVS), la
liberalizzazione del conto capitale ha preso vigore dopo la metà degli anni ’80
seguendo programmi di riforme strutturali volti all’integrazione
internazionale di queste economie.
Questo processo di liberalizzazione venne appoggiato dalla
maggioranza degli economisti in quanto, le restrizioni sui movimenti di capitali
imposte nel passato avevano dimostrato la loro inefficacia nel lungo periodo,
mentre la rimozione delle restrizioni alla fuoriuscita di capitali aveva
dimostrato grandi benefici in termini di bilancia dei pagamenti.
Nel 1996 solo un quinto dei Paesi in via di sviluppo non
presentava alcuna forma di controllo sui movimenti di capitali. Il loro numero
è però in rapida crescita, i paesi erano una decina alla fine degli anni ’80
e hanno superato la trentina alla fine del 1994. Fra questi sono compresi molti
PVS esportatori di petrolio con una solida condizione di bilancia dei pagamenti,
la maggior parte dei paesi dell’America Latina, i Paesi Baltici, alcuni Paesi
africani e alcune economie di nuova industrializzazione.
Il processo di liberalizzazione dei movimenti di capitale ha
fatto aumentare in maniera spropositata le contrattazioni che avvengono
giornalmente nel mercato dei cambi. Il volume di contrattazioni giornaliere, nel
2001 ammontava a 1.210 miliardi di dollari USA che equivale a poco meno di un
quinto dell’intero volume del commercio mondiale di un anno. È evidente
quindi l’enorme volume degli scambi di natura finanziaria rispetto a quelli
legati all’economia reale, si stima che il 97% circa degli scambi siano di
natura speculativa [4].
[5] [6] [7]
Analizzando il rapporto della BIS (Bank for international
settlements) del 2001 possiamo notare due andamenti diversi, dal 1989 al 1998 si
nota una crescita costante e massiccia del volume delle contrattazioni sul
mercato dei cambi, i dati riferiti al 2001 mettono in luce, invece, una
inversione di tendenza. Questa diminuzione delle contrattazioni è dovuta in
primo luogo all’introduzione dell’euro che ha fatto scomparire le
transazioni intra-SME, in secondo luogo per l’avvento dell’intermediazione
elettronica che ha reso più semplice il processo di price discovery, ma
anche a causa del consolidamento del settore bancario e della mutata
composizione del mercato. Nonostante la diminuzione dell’ultimo triennio, il
turnover giornaliero sul mercato dei cambi è ancora ingente, l’intero volume
del commercio mondiale del 2001 si sarebbe potuto finanziare con il semplice
giro di affari di poco più di cinque giorni del mercato valutario.
L’espansione dei mercati finanziari, ha favorito la nascita
di nuovi strumenti finanziari accanto a quelli tradizionali e la diffusione di
strumenti elettronici in sostituzione di quelli cartacei utilizzati
precedentemente. Le conseguenze di questi mutamenti sono state: mercati più
rischiosi e cambi più volatili. La volatilità si è manifestata nella
difficoltà di controllare l’andamento dei prezzi, cambi e tassi d’interesse,
che cambiano repentinamente di valore in seguito al manifestarsi di eventi sia
di natura strettamente economica, sia di natura diversa. Proprio questa
incertezza che favorisce la fuga di capitali da quei Paesi che accennano qualche
difficoltà finanziaria od economica, ha generato le profonde crisi finanziarie
nei Paesi emergenti.
Le contrattazioni che avvengono sul mercato dei cambi
tradizionale riguardano principalmente transazioni a pronti, contratti forwards
e swaps sui cambi, questi ultimi rappresentano circa il 50% del turnover totale
(vedere Tab. 2).
[8] [9] [10]
Per quanto riguarda gli ultimi due strumenti finanziari, è importante
considerare anche la durata, dai rapporti della BIS del 2001 (vedere Tab. 3 [11]. Aggiustati per le duplicazioni delle contrattazioni fra
operatori nazionali e internazionali.]]) si evince che due terzi delle
contrattazioni relative a questi due strumenti sono a brevissimo termine (durata
inferiore la settimana). Vediamo da questo che la maggior parte delle
contrattazioni che avvengono giornalmente sul mercato dei cambi è a breve
termine, cioè il tempo trascorso tra l’acquisto e la vendita di una attività
è inferiore la settimana.
Molto spesso si collega la durata dell’investimento con la
natura dell’operazione, questo non è sempre corretto in quanto fra i
movimenti a breve termine, oltre a quelli con fine speculativo, troviamo anche
gli arbitraggi sui cambi, i quali sono necessari per far sì che non ci siano
differenze tra i tassi di cambio sulle diverse piazze valutarie. Poiché non è
possibile collegare ogni transazione con il motivo che spinge l’operatore ad
effettuarla, possiamo soltanto affermare su basi empiriche che la maggior parte
delle transazioni a breve termine hanno come obiettivo principale il guadagno
dovuto ad una variazione di prezzo, quindi possono essere considerate speculative.
La Tobin Tax si prefigge come obiettivo quello di ridurre le
speculazioni perché queste sono la causa dell’incertezza e della volatilità
sui cambi e, come abbiamo già detto, possono causare profonde crisi nei mercati
emergenti. Alcuni sostenitori della Tobin vogliono, con questa proposta,
combattere la speculazione in quanto considerano gli investimenti finanziari
negativi per lo sviluppo. In altre parole, gli investitori che giornalmente
spostano i loro capitali da un investimento all’altro alla ricerca di rapidi
guadagni non producono nulla, se questi capitali fossero investiti per la
produzione di beni servizi si favorirebbe lo sviluppo e quindi l’occupazione,
e solo in questo modo si potrebbe combattere la povertà.
Quindi, gli obiettivi della Tobin sono: proteggere i Paesi in
via di sviluppo dagli attacchi speculatori e favorire lo sviluppo di questi
Paesi. Per il conseguimento del secondo obiettivo, oltre che cercare di
indirizzare gli investimenti verso una via maggiormente produttiva, si
potrebbero utilizzare i proventi generati dalla tassazione dei movimenti di
capitale all’interno di quei Paesi in difficoltà (vedremo meglio nel prossimo
numero). La proposta che oggigiorno prende il nome di Tobin Tax si discosta
notevolmente da quella proposta dall’economista James Tobin per la prima volta
nel 1972 in quanto, sia gli obiettivi, sia la situazione politica ed economica
sono mutati in maniera sostanziale (vedere Approfondimento 4).
Approfondimento 4: La proposta di Tobin
Nel 1972 e successivamente nel 1978 l’economista James
Tobin, premio nobel nel 1981, pubblicò sull’Eastern Economic Journal un
articolo in cui propose una tassa sui movimenti di capitali. Dobbiamo premettere
che in quel periodo era ancora aperto il dibattito su quale sistema di cambi
fosse migliore, c’erano ancora alcuni economisti che vedevano nella caduta di
Bretton Woods un peggioramento della situazione economica mondiale, mentre
altri, fra cui anche Tobin, consideravano il sistema di cambi fluttuanti
migliore del precedente. In questo contesto, Tobin affermò che l’instabilità
dell’economia mondiale non era legata al sistema di cambi adottato ed aggiunse
che il problema non si sarebbe risolto se non si fosse intervenuto in qualche
modo.
Tobin, sentendo la necessità di “gettare un poco di sabbia
negli ingranaggi” di questi mercati finanziari internazionali eccessivamente
efficienti, propose una tassa sui movimenti di capitale (Tobin, 1978: pp.154).
“La proposta è una tassa internazionale uniforme su tutte
le conversioni a pronti di una valuta in un’altra, proporzionale all’ammontare
della transazione” (Tobin, 1978: pp. 155), questa tassa aveva l’obiettivo di
scoraggiare in modo particolare le transazioni a breve termine.
Il livello della tassa proposto dall’economista doveva
essere basso per non penalizzare troppo i movimenti di capitali a lungo termine,
ma abbastanza alto da bloccare le speculazioni destabilizzanti, il tasso
proposto da Tobin fu dell’1% in modo che l’investimento di un anno in un
altro Paese avrebbe dovuto avere un rendimento superiore del 2% rispetto a
quello interno per essere vantaggioso. La tassa doveva essere applicata a tutti
gli acquisti di strumenti finanziari,sia contanti sia titoli, denominati in un’altra
valuta.
Tobin propose questa tassa poiché si rese conto che la
situazione dei mercati finanziari internazionali stava creando non pochi
problemi alle economie nazionali, che si trovavano a dover combattere sempre
più frequentemente contro attacchi speculativi nei confronti delle proprie
valute.
Uno dei problemi che Tobin mise in risalto era “l’eccessiva
mobilità internazionale dei capitali finanziari privati” (Tobin, 1978: pp.
153) che metteva in difficoltà le economie e i governi che non erano in grado
di aggiustare i tassi di cambio senza sacrificare obiettivi di politica
economica nazionale come l’occupazione, la produzione e l’inflazione. In
modo particolare, la mobilità dei capitali finanziari limitava le differenze
fra i tassi d’interesse nazionali, andando a ledere la libertà dei governi di
imporre politiche monetarie e fiscali adatte alle loro economie interne (tutto
questo è vero anche oggigiorno).
L’argomento riguardante la politica monetaria è quello che
stava più a cuore a Tobin, che voleva dimostrare come la mobilità dei capitali
inibisce la politica monetaria interna in un sistema di parità fissate e la
politica fiscale in un sistema a cambi flessibili. L’efficacia della politica
monetaria in caso di cambi flessibili è però illusoria in un sistema in cui i
capitali sono liberi di muoversi, in quanto i tassi di interesse nei vari paesi
tendono ad uniformarsi ed i governi non possono più agire su di essi.
Il secondo problema, sottolineato da Tobin, legato all’eccessiva
mobilità dei capitali riguardava le speculazioni sui tassi di cambio, queste
possono provocare ampie fluttuazioni dei tassi stessi provocando continui
mutamenti nel valore delle attività ufficiali e dei debiti rischiando di
mettere in crisi le economie dei Paesi più poveri.
Infine Tobin analizzò l’efficienza dei mercati finanziari
i quali sono caratterizzati da costi di transazione molto bassi, comunicazioni
veloci e prezzi istantaneamente noti in tutto il mondo. In un mercato tanto
efficiente i partecipanti dovrebbero fare le loro operazioni sulla base di
aspettative razionali riguardanti il livello dei tassi di cambio di equilibrio.
Le speculazioni dovrebbero essere quindi uno strumento per far muovere il tasso
di cambio di mercato verso il suo livello di equilibrio che è legato ai
fondamentali, il problema è che gli speculatori non seguono molto l’andamento
dei fondamentali per fare le loro operazioni, ma cercano di prevedere quale
sarà il comportamento degli altri partecipanti al mercato ed agire di
conseguenza.
Tobin si rese conto che un’imposta sulle attività in
valuta estera avrebbe potuto creare distorsioni al mercato, ma sostenne che
quello da pagare era un piccolo prezzo rispetto ai costi macroeconomici del
sistema attuale. Oltretutto i danni creati dalle tasse imposte autonomamente dai
Paesi per proteggersi dagli shocks finanziari internazionali erano nettamente
maggiori
In questa prima parte abbiamo cercato di spiegare le
condizioni che hanno spinto molti movimenti e organizzazioni, molti esponenti
politici ed economisti, ma anche tante persone a credere che la Tobin Tax possa
essere una soluzione, non certo l’unica e non certo miracolosa, per alcuni
problemi che affliggono i Paesi in via di sviluppo.
Nel prossimo numero analizzeremo le difficoltà pratiche di
attuazione di una tassa di questo tipo, arrivando alla soluzione che con alcune
accortezze sarebbe fattibile.
Continua nel prossimo numero; la bibliografia di riferimento
è alla fine della seconda sezione.
[1] G. Carchedi, “Politiche Keynesiane, crisi finanziarie e
guerre”, Proteo 2002 n.2, pp. 55-60.
[2] P.
Ghigliani, “Crisi nella periferia e movimento dei lavoratori: il collasso
argentino”, Proteo 2002 n.1, pp. 30-38.
[3] A. Moscato, “Note sulla situazione
argentina e l’origine del debito estero”, Proteo 2002 n.1, pp. 39-43.
[4] G. Hernandes, “Valutazione e situazione attuale del mondo
finanziario globalizzato”, Proteo 2002 n.2, pp.95-100.
[5] Fonte: BIS, Aprile 2001.
[6] Fonte: BIS, Aprile 2001.
[7] Fonte:
Direction of Trade Statistics Yearbook 2001 e 1996 del FMI.
[8] Fonte: Bank for International Settlements (BIS), Aprile 2001.
[9] Aggiustati
per le duplicazioni delle contrattazioni fra operatori locali e
internazionali.
[10] Le transazioni in valuta diversa dal dollaro USA sono
convertite in ammontari di valuta originale ai tassi di cambio medi di ogni anno
e poi riconvertiti in ammontari di dollari USA al tasso di cambio medio dell’Aprile
2001.
[11] Fonte
BIS, Aprile 2001