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Lo sviluppo alternativo eco-socio compatibile

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Globalizzazione dei mercati finanziari e crisi valutarie. Tobin Tax: una possibile soluzione?

Valeria Cipriani

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Questo lavoro si struttura in due sezioni. In questo numero verrà posta l’attenzione sulle crisi finanziarie che hanno colpito molte economie nell’ultimo decennio, verranno analizzate le cause e le conseguenze, e verrà proposta una possibile soluzione, la Tobin Tax.

La seconda parte, che tratterà i vari problemi di fattibilità della tassa, verrà pubblicata nel numero successivo.

Da Bretton Woods ad oggi la regola che vige in assoluto nel nostro sistema economico è che lasciando il mercato funzionare liberamente questo è in grado di autoregolarsi. Penso che ormai sia chiaro a tutti che questo non è vero. Molti sono convinti che la globalizzazione del sistema economico internazionale sia un elemento di prosperità, la domanda che dobbiamo porci è a chi ha portato prosperità? Quanto e stato fruttuoso utilizzare, nei Paesi in via di sviluppo, gli stessi metodi di sviluppo economico usati da noi? E tasto ancora più dolente, quanta prosperità ha portato la globalizzazione dei mercati finanziari? Sicuramente l’espansione dei mercati finanziari è stata fruttuosa per molte economie industrializzate, lo stesso non si può dire per le economie in via di sviluppo che hanno pagato le conseguenze di questa esplosione. Molti paesi in via di sviluppo sono stati colpiti nell’ultimo decennio da crisi finanziarie di grande portata.

Queste crisi hanno avuto alcuni denominatori comuni: hanno colpito in prevalenza economie in via di sviluppo; hanno colpito Paesi che puntavano alla stabilità del tasso di cambio; sono state amplificate da attacchi speculativi sulla valuta nazionale che hanno causato svalutazioni massicce dei tassi di cambio; hanno intaccato conseguentemente l’economia reale deprimendo la produzione, facendo diminuire l’occupazione e facendo aumentare la povertà; si sono poi estese anche a quei Paese legati economicamente alle economie in crisi. Negli ultimi anni i casi più eclatanti di crisi finanziarie non legate direttamente all’andamento dell’economia reale sono state: quella avvenuta in Messico nel 1995 (vedere Approfondimento 1), che si è rapidamente estesa ad altri Paesi dell’America Latina, quella sudafricana del 1996, quella del Sud Est Asiatico del 1997 e così via quella della Russia, del Brasile fino ad arrivare a quella turca e quella in Argentina (2001). Queste crisi sono la conseguenza di massicce speculazioni su valute deboli che hanno provocato crisi monetarie molto gravi con conseguenze estremamente negative sul piano sociale (Bond 1999).

Approfondimento 1: Il caso del Messico

Fra gli anni Ottanta e gli anni Novanta il Messico per entrare a far parte del NAFTA (Accordo di Libero Scambio) si liberò di tutte le imprese-zavorra del settore pubblico e cominciò a vendere, o meglio a svendere, le stesse imprese pubbliche redditizie. Nel Dicembre del 1994 le scelte seguite negli ultimi anni dai dirigenti messicani e condizionate dai grandi investitori, soprattutto americani, portarono nel giro di pochi giorni al collasso dell’economia. L’inflazione era ormai alle stelle ed era necessario effettuare una svalutazione del peso in quanto erano esaurite le riserve monetarie necessarie per il mantenimento della parità con il dollaro, si prospettava quindi una fuga di massa dei capitali [1]. Tra il dicembre del 1994 e il dicembre del ’95 fallirono più di 45.000 fra piccole e medie imprese, nei principali centri urbani del Paese la violenza nelle strade provocò una media di 1.000 crimini al giorno, ci furono ripercussioni sui mercati finanziari di tutto il mondo: gli investitori ritirarono i propri capitali soprattutto dal Cile, dall’Argentine e dal Brasile.

Per salvaguardare gli investitori stranieri dal tracollo e per garantire gli interessi statunitensi, il Fondo Monetario Internazionale (FMI), con l’appoggio dei principali governi, promosse un ingente prestito destinato a risanare i bilanci del Messico. Il FMI, la Banca dei Regolamenti Internazionali (BIS) e il governo canadese concessero un prestito pari a 48 miliardi di dollari USA. Si tratta del prestito più ingente, inferiore soltanto a quello del piano Marshall, del secondo dopoguerra. In altre parole, i Paesi sostenitori del FMI salvarono dal tracollo gli speculatori padroni del mondo globalizzato.

A quali condizioni il Messico ottenne questo prestito? Per ricevere questi aiuti il Messico dovette sottostare a condizioni “incredibili”. Dovette depositare in un tribunale di New York le fatture ancora pendenti che, in caso di ottemperanza, sarebbero state saldate con cessioni petrolifere; ottenne un tasso di interesse del 12%; fu costretto a privatizzare varie strutture come porti, aeroporti, ferrovie, aziende petrolchimiche e centrali elettriche; inoltre gli Stati Uniti pretesero la militarizzazione di alcuni stati messicani, tra cui il Chiapas.

Chi ci guadagnò in tutto questo? Non furono certo i poveri, i disoccupati o i senzatetto a trarne vantaggio, furono soprattutto gli investitori stranieri, che videro salvaguardati i propri interessi, e gli speculatori finanziari internazionali che furono i protagonisti di questa crisi. Questi ultimi sono riusciti a piegare al proprio volere gli organismi economici mondiali.

A provocare le recenti crisi finanziarie nei mercati emergenti è stata soprattutto la fuga improvvisa dei capitali liquidi alle prime avvisaglie di qualche difficoltà finanziaria ed economica. In anni recenti, e per effetto della rapida liberalizzazione, enormi quantità di capitali si sono riversate dalle economie industriali a quelle dei mercati emergenti per avvantaggiarsi dei rendimenti più alti dovuti a tassi di crescita di gran lunga più veloci e alle molte opportunità di investimento non sfruttate.

Nello scorso decennio, le motivazioni appena apportate hanno guidato enormi flussi di capitali verso questi Paesi. Una parte di essi era costituita da investimenti diretti di lungo termine, quindi abbastanza stabili. In seguito è andata sempre più aumentando la quota degli investimenti di carattere finanziario, ritirabili facilmente non appena fosse apparso il minimo segnale di crisi. In un’evenienza del genere, imponenti quantità di capitale finanziario potevano essere rapidamente rimpatriate.

È quello che è accaduto di fatto, e che fece precipitare tutte le crisi che hanno colpito i Paesi emergenti negli ultimi anni. Il problema di fondo che provocò ciascuna delle crisi fu di volta in volta diverso, ma il processo fu molto simile in tutti i casi. Un altro aspetto fondamentale è che gli operatori finanziari spostano continuamente i propri investimenti alla ricerca di rendimenti sempre maggiori, quindi, una volta verificatasi una crisi, i capitali lasciano il Paese in difficoltà e vanno a colpire economie “sane”.

In tutto questo quale è il ruolo degli organismi internazionali e in particolare del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale (BM)? Questi organismi sono nati per favorire lo sviluppo globale, il ruolo del FMI è quello di sorvegliare i mercati internazionali e finanziare quei Paesi che hanno problemi di bilancia dei pagamenti, il ruolo della BM è molto simile a quello del Fondo, essa favorisce lo sviluppo sovvenzionando programmi specifici. Questi sono gli obiettivi delle organizzazioni internazionali, per raggiungerli, il FMI presta denaro ai Paesi in difficoltà a patto che il Paese rispetti le sue direttive, con l’obbligo della restituzione dopo un tot di anni e imponendo il pagamento degli interessi. In poche parole, accettando le condizioni del Fondo, i Paesi in via di sviluppo contraggono un debito che, nella maggior parte dei casi, non saranno mai in grado di restituire, in più devono pagare degli interessi che pesano sul loro bilancio aggravando la situazione già precaria e a scadenza del debito necessitano di altri fondi. A questo punto il Fondo rinnova il credito, detta però regole sempre più gravose, spesso per favorire gli investitori internazionali, costringendo il Paese a seguire la politica monetaria e fiscale decisa dal fondo stesso (vedere Approfondimento 2).

Approfondimento 2: Il caso Argentina

L’Argentina è in recessione dall’Aprile del 1998. Dopo un periodo di crescita, dal 1991 al 1997, nel 1998 iniziò una fase di recessione che portò come conseguenze, la caduta dei pagamenti e l’aumento della bancarotta. Il PIL cadde del 3.2% nel 1999, dello 0.5 % nel 2000 e del 3.5% nel 2001. Fra il 2000 e il 2001, 3.000 imprese hanno cessato la loro attività, la disoccupazione è arrivata al 18,3% e si calcola che dei 36 milioni di argentini, 14 milioni vivono al di sotto della soglia di povertà [2]. L’unica politica adottata dal governo argentino in risposta alla crisi attuale è firmare accordi con il Fondo Monetario Internazionale per attirare investitori che riattivino l’economia. Il FMI approfitta quindi della situazione per imporre condizioni che favoriscano il settore finanziario internazionale e nazionale. Quindi l’aiuto che il Fondo è disposto a dare non procura un miglioramento effettivo della situazione economica: si tratta solo di una registrazione contabile per rinviare i debiti che l’Argentina deve restituire al FMI. Questo andamento ha caratterizzato la politica economica del Paese: nel 1975 il debito estero argentino ammontava a 7.875 milioni di dollari, nel 1999 ammontava a 147.881 milioni di dollari. A prima vista può sembrare che negli ultimi venticinque anni l’Argentina è sopravvissuta grazie all’aiuto del Fondo, un’analisi più accurata mette in luce un altro aspetto. Dal 1976 al 2000 il servizio del debito pagato dall’Argentina (ammortamento + interesse) ammonta a 212.280 milioni di dollari, cioè più dell’attuale debito e venticinque volte quello iniziale [3]. A cosa ha portato seguire alla lettera la politica imposta dal Fondo? Il risultato è stato: un indebitamento enorme, la denazionalizzazione dell’economia, la concentrazione delle entrate, l’impoverimento di gran parte della popolazione, la crisi finanziaria e la depressione economica.

Comunque, dopo quattro anni dall’inizio della recessione, la situazione dell’Argentina è più critica che mai, la povertà ha raggiunto livelli inauditi così come la disoccupazione e la mortalità infantile dovuta a denutrizione, e la produzione non accenna a riprendersi. Il 22 Novembre del 2002 scadeva il termine di un prestito emesso dal Fondo nel Gennaio 2001 la cui scadenza è stata prorogata di un anno a patto che l’Argentina provveda a stabilizzare il settore finanziario e a ridurre la spesa pubblica (una politica restrittiva che non fa altro che contrarre la produzione ulteriormente). La situazione dell’Argentina resta difficile nonostante il Paese abbia sempre seguito le ricette imposte dal Fondo Monetario (o forse proprio per questo) e difficilmente questo nuovo prestito, al quale vanno comunque pagati gli interessi, sarà sufficiente a garantire la ripresa economica del Paese.

Il Fondo Monetario si limita quindi ad emettere prestiti e proporre soluzioni standard che difficilmente vanno bene in tutti i casi, non è quindi in grado né di evitare le crisi finanziare, né di limitare la gravità di queste. Per questi motivi molti invocano oggi riforme del sistema monetario e finanziario internazionale che impediscano o almeno contengano queste crisi e ne evitino la diffusione. Fra le proposte in questo senso si colloca la Tobin Tax.

Uno degli obiettivi della Tobin Tax è quello di colpire le speculazioni, rendendo più costose le transazioni a breve termine, questo perché le speculazioni sortiscono effetti sfavorevoli sull’attività economica. Un effetto delle speculazioni è che queste danno luogo ad enormi movimenti dei prezzi (tassi di cambio) non riconducibili a fenomeni economici reali. Per spiegare meglio come si generano ampie fluttuazioni di prezzi facciamo due esempi. Come primo esempio consideriamo il caso in cui un Paese si trova in un periodo di crescita economica che è accompagnato da un vasto movimento di speculazione al rialzo sui titoli confermato all’inizio dall’andamento economico generale, queste condizioni possono suscitare un’ondata di ottimismo, attirando speculatori improvvisati e facendo aumentare i prezzi. In queste circostanze, il minimo accenno ad una flessione dei prezzi fa crollare tutto l’edificio di valori “gonfiati” che si sono creati nella prima fase, con perdite rilevanti per tutti.

Un secondo esempio può essere quello di una speculazione che si esercita sulla base non di variazioni di prezzi esistenti autonomamente, bensì di variazioni artificialmente provocate. Ci troviamo nel caso in cui in un Paese si diffondono notizie, non sempre di natura economica, che danno luogo ad andamenti temporanei del mercato e creano differenze artificiali dei prezzi. Quando scoppia la “bolla”, cioè quando i prezzi ritornano al loro livello normale, si ha generalmente un aumento dell’incertezza e del rischio, e perdite per determinate categorie di operatori.

Le speculazioni sono aumentate fortemente nell’ultimo decennio con la globalizzazione dei mercati finanziari, questa globalizzazione è stata favorita dalla rimozione di vincoli di tipo normativo all’operatività delle istituzioni creditizie sul mercato dei cambi, che prende il nome di deregulation valutaria (vedere Approfondimento 3).

Approfondimento 3: La deregulation

Gli anni Ottanta hanno visto: un periodo di recessione mondiale, la rivoluzione tecnologica nei mercati finanziari e una generale deregolamentazione dei mercati e delle istituzioni finanziarie.

I Paesi in via di sviluppo (PVS), a causa del loro pesante indebitamento nel decennio precedente, hanno subito conseguenze più pesanti in seguito alla recessione mondiale; in coincidenza con tassi di cambio e di interesse a loro sfavorevoli, gli ammontari da rimborsare sono cresciuti considerevolmente in termini reali. Oltretutto la domanda di materie prime era caduta sensibilmente, rendendo sempre più difficile per i Paesi in via di sviluppo reperire i fondi di cui avevano bisogno.

La sopravvalutazione del dollaro favorì la crescita economica degli Stati Uniti a discapito degli altri Paesi, i quali videro ridursi le prospettive di crescita e di sviluppo. Per finanziare i PVS che avevano difficoltà nella restituzione del debito, gli organismi internazionali furono costretti a mettere a loro disposizione somme più ingenti. Nel frattempo la situazione era divenuta insostenibile per molti banchieri e finanziatori del debito di questi Paesi.

Le azioni intraprese dai governi sui mercati dei cambi per difendersi dalle pressioni economiche esterne, portarono al fallimento delle politiche che miravano a tassi di cambio stabili. In una situazione in cui la rivoluzione dell’informazione e delle tecnologie muoveva i primi passi, i Paesi coinvolti persuasero gli altri a liberalizzare i mercati, con la conseguente esplosione della deregulation nella metà degli anni Ottanta.

Il processo di liberalizzazione dei movimenti di capitale ha preso piede, con fasi alterne e dinamiche diverse, prima nei paesi industrializzati e, recentemente, in gran parte dei paesi in via di sviluppo. La tendenza alla deregulation cominciò nel Regno Unito nel 1979 con l’abbandono dei controlli sui cambi, nel 1980 la Svizzera tolse le restrizioni sui cambi relative ai depositi denominati in franchi svizzeri dai non residenti. Nel corso degli anni Ottanta si ebbero nuovi cambiamenti al fine di consentire a sempre più individui, enti e istituzioni l’accesso ai mercati esteri. Gli Stati Uniti nel 1981 rimossero molte restrizioni sul commercio internazionale delle banche e nel 1984 fu abolita la withholding tax, una tassa sui titoli statunitensi in possesso dei non residenti. Negli stessi anni i centri offshore acquistarono maggior importanza, favoriti dall’appoggio del Regno Unito (sotto il governo Thatcher) e degli Stati Uniti (con la nuova amministrazione Reagan).

Oggi quasi tutti i Paesi industrializzati permettono l’accesso delle banche straniere ai mercati interni, comunque i cambiamenti più importanti in ambito di deregolamentazione hanno avuto luogo in Giappone. Nei paesi industrializzati i controlli sui movimenti di capitale sono oggi virtualmente aboliti, la loro rimozione è stata realizzata con l’ausilio del così detto Codice di liberalizzazione dei movimenti di capitale definito in sede OCSE. Tuttavia, alcuni di questi paesi mantengono la facoltà di imporre restrizioni su alcune transazioni e operazioni che impattano sul conto capitale, per motivi prudenziali o di controllo monetario.

Per quanto riguarda i paesi in Via di Sviluppo (PVS), la liberalizzazione del conto capitale ha preso vigore dopo la metà degli anni ’80 seguendo programmi di riforme strutturali volti all’integrazione internazionale di queste economie.

Questo processo di liberalizzazione venne appoggiato dalla maggioranza degli economisti in quanto, le restrizioni sui movimenti di capitali imposte nel passato avevano dimostrato la loro inefficacia nel lungo periodo, mentre la rimozione delle restrizioni alla fuoriuscita di capitali aveva dimostrato grandi benefici in termini di bilancia dei pagamenti.

Nel 1996 solo un quinto dei Paesi in via di sviluppo non presentava alcuna forma di controllo sui movimenti di capitali. Il loro numero è però in rapida crescita, i paesi erano una decina alla fine degli anni ’80 e hanno superato la trentina alla fine del 1994. Fra questi sono compresi molti PVS esportatori di petrolio con una solida condizione di bilancia dei pagamenti, la maggior parte dei paesi dell’America Latina, i Paesi Baltici, alcuni Paesi africani e alcune economie di nuova industrializzazione.

Il processo di liberalizzazione dei movimenti di capitale ha fatto aumentare in maniera spropositata le contrattazioni che avvengono giornalmente nel mercato dei cambi. Il volume di contrattazioni giornaliere, nel 2001 ammontava a 1.210 miliardi di dollari USA che equivale a poco meno di un quinto dell’intero volume del commercio mondiale di un anno. È evidente quindi l’enorme volume degli scambi di natura finanziaria rispetto a quelli legati all’economia reale, si stima che il 97% circa degli scambi siano di natura speculativa [4].


 [5] [6] [7]

Analizzando il rapporto della BIS (Bank for international settlements) del 2001 possiamo notare due andamenti diversi, dal 1989 al 1998 si nota una crescita costante e massiccia del volume delle contrattazioni sul mercato dei cambi, i dati riferiti al 2001 mettono in luce, invece, una inversione di tendenza. Questa diminuzione delle contrattazioni è dovuta in primo luogo all’introduzione dell’euro che ha fatto scomparire le transazioni intra-SME, in secondo luogo per l’avvento dell’intermediazione elettronica che ha reso più semplice il processo di price discovery, ma anche a causa del consolidamento del settore bancario e della mutata composizione del mercato. Nonostante la diminuzione dell’ultimo triennio, il turnover giornaliero sul mercato dei cambi è ancora ingente, l’intero volume del commercio mondiale del 2001 si sarebbe potuto finanziare con il semplice giro di affari di poco più di cinque giorni del mercato valutario.

L’espansione dei mercati finanziari, ha favorito la nascita di nuovi strumenti finanziari accanto a quelli tradizionali e la diffusione di strumenti elettronici in sostituzione di quelli cartacei utilizzati precedentemente. Le conseguenze di questi mutamenti sono state: mercati più rischiosi e cambi più volatili. La volatilità si è manifestata nella difficoltà di controllare l’andamento dei prezzi, cambi e tassi d’interesse, che cambiano repentinamente di valore in seguito al manifestarsi di eventi sia di natura strettamente economica, sia di natura diversa. Proprio questa incertezza che favorisce la fuga di capitali da quei Paesi che accennano qualche difficoltà finanziaria od economica, ha generato le profonde crisi finanziarie nei Paesi emergenti.

Le contrattazioni che avvengono sul mercato dei cambi tradizionale riguardano principalmente transazioni a pronti, contratti forwards e swaps sui cambi, questi ultimi rappresentano circa il 50% del turnover totale (vedere Tab. 2).


 [8] [9] [10]
Per quanto riguarda gli ultimi due strumenti finanziari, è importante considerare anche la durata, dai rapporti della BIS del 2001 (vedere Tab. 3  [11]. Aggiustati per le duplicazioni delle contrattazioni fra operatori nazionali e internazionali.]]) si evince che due terzi delle contrattazioni relative a questi due strumenti sono a brevissimo termine (durata inferiore la settimana). Vediamo da questo che la maggior parte delle contrattazioni che avvengono giornalmente sul mercato dei cambi è a breve termine, cioè il tempo trascorso tra l’acquisto e la vendita di una attività è inferiore la settimana.

Molto spesso si collega la durata dell’investimento con la natura dell’operazione, questo non è sempre corretto in quanto fra i movimenti a breve termine, oltre a quelli con fine speculativo, troviamo anche gli arbitraggi sui cambi, i quali sono necessari per far sì che non ci siano differenze tra i tassi di cambio sulle diverse piazze valutarie. Poiché non è possibile collegare ogni transazione con il motivo che spinge l’operatore ad effettuarla, possiamo soltanto affermare su basi empiriche che la maggior parte delle transazioni a breve termine hanno come obiettivo principale il guadagno dovuto ad una variazione di prezzo, quindi possono essere considerate speculative.

La Tobin Tax si prefigge come obiettivo quello di ridurre le speculazioni perché queste sono la causa dell’incertezza e della volatilità sui cambi e, come abbiamo già detto, possono causare profonde crisi nei mercati emergenti. Alcuni sostenitori della Tobin vogliono, con questa proposta, combattere la speculazione in quanto considerano gli investimenti finanziari negativi per lo sviluppo. In altre parole, gli investitori che giornalmente spostano i loro capitali da un investimento all’altro alla ricerca di rapidi guadagni non producono nulla, se questi capitali fossero investiti per la produzione di beni servizi si favorirebbe lo sviluppo e quindi l’occupazione, e solo in questo modo si potrebbe combattere la povertà.

Quindi, gli obiettivi della Tobin sono: proteggere i Paesi in via di sviluppo dagli attacchi speculatori e favorire lo sviluppo di questi Paesi. Per il conseguimento del secondo obiettivo, oltre che cercare di indirizzare gli investimenti verso una via maggiormente produttiva, si potrebbero utilizzare i proventi generati dalla tassazione dei movimenti di capitale all’interno di quei Paesi in difficoltà (vedremo meglio nel prossimo numero). La proposta che oggigiorno prende il nome di Tobin Tax si discosta notevolmente da quella proposta dall’economista James Tobin per la prima volta nel 1972 in quanto, sia gli obiettivi, sia la situazione politica ed economica sono mutati in maniera sostanziale (vedere Approfondimento 4).

Approfondimento 4: La proposta di Tobin

Nel 1972 e successivamente nel 1978 l’economista James Tobin, premio nobel nel 1981, pubblicò sull’Eastern Economic Journal un articolo in cui propose una tassa sui movimenti di capitali. Dobbiamo premettere che in quel periodo era ancora aperto il dibattito su quale sistema di cambi fosse migliore, c’erano ancora alcuni economisti che vedevano nella caduta di Bretton Woods un peggioramento della situazione economica mondiale, mentre altri, fra cui anche Tobin, consideravano il sistema di cambi fluttuanti migliore del precedente. In questo contesto, Tobin affermò che l’instabilità dell’economia mondiale non era legata al sistema di cambi adottato ed aggiunse che il problema non si sarebbe risolto se non si fosse intervenuto in qualche modo.

Tobin, sentendo la necessità di “gettare un poco di sabbia negli ingranaggi” di questi mercati finanziari internazionali eccessivamente efficienti, propose una tassa sui movimenti di capitale (Tobin, 1978: pp.154).

“La proposta è una tassa internazionale uniforme su tutte le conversioni a pronti di una valuta in un’altra, proporzionale all’ammontare della transazione” (Tobin, 1978: pp. 155), questa tassa aveva l’obiettivo di scoraggiare in modo particolare le transazioni a breve termine.

Il livello della tassa proposto dall’economista doveva essere basso per non penalizzare troppo i movimenti di capitali a lungo termine, ma abbastanza alto da bloccare le speculazioni destabilizzanti, il tasso proposto da Tobin fu dell’1% in modo che l’investimento di un anno in un altro Paese avrebbe dovuto avere un rendimento superiore del 2% rispetto a quello interno per essere vantaggioso. La tassa doveva essere applicata a tutti gli acquisti di strumenti finanziari,sia contanti sia titoli, denominati in un’altra valuta.

Tobin propose questa tassa poiché si rese conto che la situazione dei mercati finanziari internazionali stava creando non pochi problemi alle economie nazionali, che si trovavano a dover combattere sempre più frequentemente contro attacchi speculativi nei confronti delle proprie valute.

Uno dei problemi che Tobin mise in risalto era “l’eccessiva mobilità internazionale dei capitali finanziari privati” (Tobin, 1978: pp. 153) che metteva in difficoltà le economie e i governi che non erano in grado di aggiustare i tassi di cambio senza sacrificare obiettivi di politica economica nazionale come l’occupazione, la produzione e l’inflazione. In modo particolare, la mobilità dei capitali finanziari limitava le differenze fra i tassi d’interesse nazionali, andando a ledere la libertà dei governi di imporre politiche monetarie e fiscali adatte alle loro economie interne (tutto questo è vero anche oggigiorno).

L’argomento riguardante la politica monetaria è quello che stava più a cuore a Tobin, che voleva dimostrare come la mobilità dei capitali inibisce la politica monetaria interna in un sistema di parità fissate e la politica fiscale in un sistema a cambi flessibili. L’efficacia della politica monetaria in caso di cambi flessibili è però illusoria in un sistema in cui i capitali sono liberi di muoversi, in quanto i tassi di interesse nei vari paesi tendono ad uniformarsi ed i governi non possono più agire su di essi.

Il secondo problema, sottolineato da Tobin, legato all’eccessiva mobilità dei capitali riguardava le speculazioni sui tassi di cambio, queste possono provocare ampie fluttuazioni dei tassi stessi provocando continui mutamenti nel valore delle attività ufficiali e dei debiti rischiando di mettere in crisi le economie dei Paesi più poveri.

Infine Tobin analizzò l’efficienza dei mercati finanziari i quali sono caratterizzati da costi di transazione molto bassi, comunicazioni veloci e prezzi istantaneamente noti in tutto il mondo. In un mercato tanto efficiente i partecipanti dovrebbero fare le loro operazioni sulla base di aspettative razionali riguardanti il livello dei tassi di cambio di equilibrio. Le speculazioni dovrebbero essere quindi uno strumento per far muovere il tasso di cambio di mercato verso il suo livello di equilibrio che è legato ai fondamentali, il problema è che gli speculatori non seguono molto l’andamento dei fondamentali per fare le loro operazioni, ma cercano di prevedere quale sarà il comportamento degli altri partecipanti al mercato ed agire di conseguenza.

Tobin si rese conto che un’imposta sulle attività in valuta estera avrebbe potuto creare distorsioni al mercato, ma sostenne che quello da pagare era un piccolo prezzo rispetto ai costi macroeconomici del sistema attuale. Oltretutto i danni creati dalle tasse imposte autonomamente dai Paesi per proteggersi dagli shocks finanziari internazionali erano nettamente maggiori

 

In questa prima parte abbiamo cercato di spiegare le condizioni che hanno spinto molti movimenti e organizzazioni, molti esponenti politici ed economisti, ma anche tante persone a credere che la Tobin Tax possa essere una soluzione, non certo l’unica e non certo miracolosa, per alcuni problemi che affliggono i Paesi in via di sviluppo.

Nel prossimo numero analizzeremo le difficoltà pratiche di attuazione di una tassa di questo tipo, arrivando alla soluzione che con alcune accortezze sarebbe fattibile.

Continua nel prossimo numero; la bibliografia di riferimento è alla fine della seconda sezione.


[1] G. Carchedi, “Politiche Keynesiane, crisi finanziarie e guerre”, Proteo 2002 n.2, pp. 55-60.

[2] P. Ghigliani, “Crisi nella periferia e movimento dei lavoratori: il collasso argentino”, Proteo 2002 n.1, pp. 30-38.

[3] A. Moscato, “Note sulla situazione argentina e l’origine del debito estero”, Proteo 2002 n.1, pp. 39-43.

[4] G. Hernandes, “Valutazione e situazione attuale del mondo finanziario globalizzato”, Proteo 2002 n.2, pp.95-100.

[5] Fonte: BIS, Aprile 2001.

[6] Fonte: BIS, Aprile 2001.

[7] Fonte: Direction of Trade Statistics Yearbook 2001 e 1996 del FMI.

[8] Fonte: Bank for International Settlements (BIS), Aprile 2001.

[9] Aggiustati per le duplicazioni delle contrattazioni fra operatori locali e internazionali.

[10] Le transazioni in valuta diversa dal dollaro USA sono convertite in ammontari di valuta originale ai tassi di cambio medi di ogni anno e poi riconvertiti in ammontari di dollari USA al tasso di cambio medio dell’Aprile 2001.

[11] Fonte BIS, Aprile 2001