1. La ristrutturazione produttiva del capitale, il toyotismo e le nuove
forme di accumulazione flessibile
La crisi del modello di accumulazione tayloristico-fordista,
che è affiorata alla fine degli anni Sessanta e all’inizio degli anni
Settanta -e che in verità era l’espressione di una crisi strutturale del
capitale che dura fino ad oggi- fece sì che, tra le tante altre conseguenze, il
capitale realizzasse un vastissimo processo di ristrutturazione, mirando al
recupero del suo ciclo riproduttivo e, allo stesso tempo, riproponesse il suo
progetto di dominazione sociale, che fu scosso dal confronto e dalla
conflittualità del lavoro che mise in questione alcuni pilastri della
socialità del capitale e dei suoi meccanismi di controllo sociale.
Il capitale, allora, fece esplodere varie trasformazioni nel
proprio processo produttivo, attraverso la costituzione delle forme di
accumulazione flessibile, del downsizing, delle forme di gestione
organizzativa, dell’avanzamento tecnologico, dei modelli alternativi al
binomio taylorismo/fordismo, dove si pone in rilievo specialmente il “toyotismo”
o modello giapponese. Queste trasformazioni, derivanti dalla stessa concorrenza
tra capitalismi (in un momento di crisi e di dispute intensificate tra i grandi
gruppi transnazionali e monopolisti) e, dall’altro lato, dalla stessa
necessità di controllare le lotte sociali originate dal lavoro, finirono per
fornire la risposta del capitale alla propria crisi strutturale (Antunes, 2002,
1997 e 1999).
Opponendosi al contro-potere che emergeva dalle lotte
sociali, il capitale iniziò un processo di riorganizzazione delle proprie forme
di dominio sociale, non soltanto cercando di riorganizzare in termini
capitalistici il processo produttivo, ma cercando di gestire un progetto di
recupero dell’egemonia nelle più diverse sfere della socialità. Lo fece, per
esempio, sul piano ideologico attraverso il culto di un soggettivismo e di un
sistema di idee frammentante che faceva l’apologia dell’individualismo
esacerbato contro le forme di solidarietà e di azione collettiva e sociale.
Secondo Ellen Wood, si tratta di una fase, dove le trasformazioni economiche, le
modificazioni nella produzione e nei mercati, le modificazioni culturali,
generalmente associate ai termini di post-modernismo, starebbero, in verità,
dando forma ad un momento di maturazione e di universalizzazione del
capitalismo, molto più che ad un passaggio dalla “modernità” alla “post-modernità”
(Wood, 1997: 539-540).
Queste trasformazioni, iniziate negli anni Settanta e in gran
parte ancora in corso, hanno, intanto, generato più dissenso che consenso.
Secondo alcuni autori, esse sarebbero responsabili dell’instaurazione di una
nuova forma di organizzazione industriale e di relazione tra il capitale e il
lavoro più favorevole, quando è comparata a quella del taylorismo/fordismo,
dato che hanno reso possibile l’avvento di un lavoratore più qualificato,
partecipante, multifunzionale, polivalente, dotato di una “maggiore capacità
di realizzazione nel campo del lavoro”. Questa interpretazione trova molti
seguaci che, più o meno vicini alle tesi della specializzazione flessibile,
difendono le cosiddette “caratteristiche innovatrici” della “nuova fase”,
più appropriata a una interazione tra il capitale e il lavoro e, in questo
senso, capace di superare le contraddizioni fondamentali costitutive della
società capitalistica.
Secondo altri, le modificazioni trovate non andrebbero nella
direzione di una “giapponesizzazione o toyotizzazione dell’industria”, ma
starebbero intensificando tendenze esistenti che non configurerebbero, pertanto,
una nuova forma di organizzazione del lavoro. Al contrario, nel contesto delle
economie capitaliste avanzate, sarebbe possibile percepire una ricostituzione
del “potere nel luogo del lavoro e nel proprio mercato del lavoro, molto più
a favore degli impiegati che degli operai” (Tomaney, 1996: 157/8. Vedi anche
Pollert, 1996; Stephenson, 1996; Ackers, Smith e Smith, 1996, tra gli altri).
Ancor più vicini a questa prospettiva critica, altri autori
cercano di accentuare tanto gli elementi di continuità con il modello
produttivo precedente, come anche gli elementi di discontinuità, mantenendo
però il carattere essenzialmente capitalista del modo di produzione vigente e
dei suoi pilastri fondamentali. All’interno di questo universo tematico, essi
ripensano alla necessità di puntare alla specificità di questi mutamenti e
alle conseguenze che queste esercitano all’interno del sistema di produzione
capitalistico, dove si starebbe verificando l’emergere “a partire dal 1973
di un regime di accumulazione flessibile”, che si caratterizza per la nuova
“divisione di mercati, disoccupazione, divisione globale del lavoro, capitale
volatile, chiusura di impianti industriali, riorganizzazione finanziaria e
tecnologica”, tra le tante altre modificazioni che segnano questa nuova fase
della produzione capitalistica (Harvey, 1992 e 1996). Tutto ciò che
suggestivamente Juan J. Castillo ha denominato come “espressione di un
processo di liofilizzazione organizzativa”, mediante l’eliminazione,
trasferimento, terzizzazione e riduzione delle unità produttive (Castillo,
1996: 68 e 1996a).
La nostra riflessione si inserisce con maggiore affinità in
quest’ultima linea: le modificazioni in corso sono espressione della
riorganizzazione del capitale che ha in prospettiva la ripresa del suo livello
di accumulazione e del suo progetto globale di dominazione. È in questo senso
che il processo di accumulazione flessibile, fondato sugli esempi della
California, dell’Italia del Nord-Est, della Svezia, della Germania, tra tanti
altri che si sono succeduti, così come il toyotismo o “modello giapponese”,
devono essere oggetto di riflessione critica. Cominciamo dalla liofilizzazione
dell’impresa ridimensionata.
2. La liofilizzazione organizzativa e del lavoro nella fabbrica
toyotizzata: le nuove forme dell’intensificazione del lavoro.
Tentando di mantenere i suoi tratti costitutivi più
generali, è possibile dire che il modello di accumulazione flessibile articola
un insieme di elementi di continuità e di discontinuità che finiscono per dar
forma a qualcosa di relativamente diverso dal modello taylorista/fordista dell’accumulazione.
Esso si fonda su un modello produttivo organizzativo e tecnologicamente
avanzato, risultato dell’introduzione di tecniche di gestione della
forza-lavoro proprie della fase informatica, così come sull’ampia
introduzione dei computer nel processo produttivo e dei servizi. Si sviluppa in
una struttura produttiva più flessibile, ricorrendo frequentemente alla
de-concentrazione produttiva, alle imprese terzizzate, ecc. Si serve di nuove
tecniche di gestione della forza-lavoro, del lavoro in equipe, delle “cellule
di produzione”, dei “gruppi di lavoro”, dei gruppi “semi-autonomi”,
oltre che richiedere, almeno sul piano discorsivo, il “coinvolgimento
partecipativo” dei lavoratori, che è, per la verità, una partecipazione
manipolatrice e che conserva, essenzialmente, le condizioni del lavoro alienato
e estraniato (Antunes, 2002). Il “lavoro polivalente”, “multifunzionale”,
qualificato”, combinato con una struttura più orizzontale e più integrata
tra le diverse imprese e anche nelle imprese terzizzate, ha come finalità la
riduzione del tempo di lavoro.
Di fatto, si tratta di un processo di organizzazione del
lavoro la cui finalità essenziale, reale, è quella dell’intensificazione
delle condizioni di sfruttamento della forza-lavoro, riducendo o eliminando di
molto sia il lavoro improduttivo, che non crea valore, o le sue forme similari,
specialmente nelle attività di manutenzione, controllo, ispezione di qualità,
funzioni che passeranno ad essere direttamente incorporate al lavoratore
produttivo. Ristrutturazione, lean production, team work,
eliminazione di posti di lavoro, aumento della produttività, qualità totale,
fanno parte del sistema di idee (e della pratica) quotidiana della “fabbrica
moderna”. Se nell’apogeo del taylorismo/fordismo la forza di un’impresa si
misurava con il numero di operai che in essa esercitavano la loro attività
lavorativa, si può dire che nell’era dell’accumulazione flessibile e dell’“impresa
ridimensionata”, meritano rilievo, e sono citate come esempi da seguire,
quelle imprese che dispongono del minor contingente di forza-lavoro e che,
malgrado ciò hanno maggiori indici di produttività.
Alcune delle ripercussioni di questi mutamenti nel processo
produttivo hanno risultati immediati nel mondo del lavoro: enorme
de-regolamentazione dei diritti del lavoro, che sono eliminati quotidianamente
in quasi tutte le parti del mondo dove c’è produzione industriale e di
servizi; aumento della frammentazione all’interno della classe lavoratrice;
precarizzazione e terzizzazione della forza umana che lavora; distruzione del
sindacalismo di classe e sua conversione in un sindacalismo docile, in un “sindacalismo
di impresa”.
Tra gli esperimenti del capitale, che si differenziavano dal
binomio taylorismo/fordismo, si può dire che il “toyotismo” o il “modello
giapponese” ha trovato maggior ripercussione, quando è comparato tra gli
altri all’esempio svedese, all’esperienza dell’Italia del Nord-Est (Terza
Italia), all’esperienza degli USA (della Silicon Valley) e della Germania.
Il sistema industriale giapponese, a partire dagli anni
Settanta, ha avuto un grande impatto nel mondo occidentale, quando si è
presentato ai paesi avanzati come un’opzione possibile per il superamento
capitalistico della crisi. Naturalmente, la sua “trasferibilità” del
toyotismo mancava, per la sua installazione in Occidente, degli inevitabili
adattamenti alle singolarità e particolarità di ciascun paese. Il suo disegno
organizzativo, il suo avanzamento tecnologico, la sua capacità di sfruttamento
intensificato del lavoro, così come la combinazione del lavoro in equipe,
i meccanismi di coinvolgimento, il controllo sindacale, erano visti dai capitali
dell’Occidente come “una via possibile di superamento della loro crisi di
accumulazione”.
È stato in questo contesto che si è verificata l’espansione
in Occidente della via giapponese di consolidamento del capitalismo industriale.
Il toyotismo (o ohnismo da Ohno, ingegnere che lo ha
creato nella fabbrica della Toyota), in quanto via giapponese di espansione e
consolidamento del capitalismo monopolista industriale, è una forma di
organizzazione del lavoro che nasce nella Toyota, nel Giappone post-45 e che
molto rapidamente si propaga alle grandi compagnie di quel paese. Esso si
differenzia dal fordismo fondamentalmente nei seguenti tratti:
1) è una produzione molto vincolata alla domanda, tenendo
più o meno in conto di accogliere le esigenze più individualizzate del mercato
di consumo, differenziandosi dalla produzione in serie e di massa del
taylorismo/fordismo. Per questo la sua produzione è varia e abbastanza
eterogenea, al contrario della omogeneità fordista;
2) si fonda sul lavoro operaio in equipe, con
molteplici varietà di funzioni, rompendo con il carattere parcellare tipico del
fordismo;
3) la produzione si struttura in un processo produttivo
flessibile, che rende possibile all’operaio di agire simultaneamente con varie
macchine (nella Toyota in media fino a 5 macchine), alterando la relazione
uomo/macchina sulla quale si basava il taylorismo/fordismo;
4) ha come principio il just in time, il migliore
sfruttamento possibile del tempo di produzione;
5) funziona secondo il sistema del kanban, targhe o
segnali di comando per la ricollocazione di pezzi e di stock. Nel
toyotismo, gli stock sono minimi se comparati al fordismo;
6) le imprese del complesso produttivo toyotista, incluso le
terzizzate, hanno una struttura orizzontale, al contrario della verticalità
fordista. Mentre nella fabbrica fordista approssimativamente il 75% della
produzione era realizzata al suo interno, la fabbrica toyotista è responsabile
solamente del 25%, tendenza che si va intensificando sempre più. Quest’ultima
dà priorità a ciò che è centrale nella sua specialità del processo
produttivo e trasferisce a “terzi” gran parte di ciò che precedentemente
era prodotto dentro il suo spazio produttivo. Questa orizzontalità si estende
all’indotto, alle fabbriche “terzizzate”, comportando l’espansione dei
metodi e dei procedimenti per tutta la rete di fornitori. In questo modo,
flessibilizzazione, terzizzazione, indotto, circuiti di controllo di qualità
(CCQ), controllo di qualità totale, kanban, just in time, kaizen,
team work, eliminazione dello spreco, “gestione partecipativa”,
sindacalismo di impresa, tra gli altri punti, sono portati a uno spazio più
ampio del processo produttivo;
7) organizza i “circuiti di controllo di qualità”,
costituendo gruppi di lavoratori che sono stimolati dal capitale a discutere il
loro lavoro e il suo disimpegno, tenendo conto di migliorare la produttività
delle imprese, convertendosi in un importante strumento affinché il capitale si
appropri del savoir faire intellettuale e cognitivo del lavoro, cosa che
il fordismo disprezzava;
8) il toyotismo ha introdotto l’“impiego vitalizio” per
una parte ridotta dei lavoratori delle grandi imprese (circa il 25-30% della
popolazione lavoratrice, dove si verificava l’esclusione delle donne), oltre a
guadagni salariali intimamente vincolati all’aumento della produttività. L’“impiego
vitalizio” garantisce al lavoratore giapponese, che lavora nelle fabbriche
inserite in questo modello, la stabilità dell’impiego, dato che a 55 anni il
lavoratore è spostato a un lavoro meno rilevante, nel complesso delle attività
esistenti in questa stessa impresa (vedi sul toyotismo Gounet, 1997; 1992 e
1991; Shimizu, 1994; Ichiyo 1995; Coriat, 1992; Sayer, 1986; e Kamata, 1985).
Ispirandosi inizialmente all’esperienza del ramo tessile,
dove il lavoratore operava simultaneamente con varie macchine e successivamente
nell’importazione di tecniche di gestione dei supermercati degli USA, che
hanno dato origine al kanban, il toyotismo ha offerto anche una risposta
alla crisi finanziaria giapponese del dopoguerra, aumentando la produzione senza
aumentare il contingente di lavoratori. A partire dal momento in cui questa
ricetta si ampliava all’insieme delle imprese giapponesi, il risultato fu la
ripresa di un livello di produzione che ha portato il Giappone, in brevissimo
periodo, a raggiungere livelli di produttività e indici di accumulazione
capitalistica altissimi.
La razionalizzazione del processo produttivo, dotata di una
forte disciplina della forza-lavoro e spinta dalla necessità di impiantare
forme di capitale e di lavoro intensivo, ha caratterizzato la via toyotista di
sviluppo del capitalismo monopolistico in Giappone e il processo di
liofilizzazione organizzativa e del lavoro. Il lavoro in equipe, il
trasferimento delle responsabilità di elaborazione e controllo di qualità
della produzione, precedentemente realizzate dalla gestione scientifica e adesso
interiorizzate nella stessa azione dei lavoratori, hanno dato origine al management
by stress (Gounet, 1997: 77). Come ha mostrato la classica deposizione di
Satochi Kamata, la razionalizzazione della Toyota Motor Company,
intrapresa nel proprio processo di sviluppo “non è tanto per economizzare
lavoro, ma più direttamente, per eliminare lavoratori. Per esempio, se il 33%
di ’movimenti dispersivi’ sono eliminati in tre lavoratori, uno di essi
diventa superfluo. La storia della razionalizzazione della Toyota è la storia
della riduzione dei lavoratori e questo è il segreto della Toyota, che senza
aumentare i lavoratori, raggiunge un sorprendente aumento nella propria
produzione. Tutto il tempo libero durante le ore di lavoro è stato eliminato
dai lavoratori della linea di montaggio, essendo considerato come spreco. Tutto
il loro tempo, fino all’ultimo secondo, è dedicato alla produzione”
(Kamata, 1982: 199).
Il processo di produzione di tipo toyotista, mediante il team
work suppone, pertanto, una intensificazione dello sfruttamento del lavoro,
sia per il fatto che gli operai lavorano simultaneamente con varie macchine
diversificate, sia attraverso il ritmo e la velocità della catena produttiva
data dal sistema di luci. Ossia, si verifica una intensificazione del ritmo
produttivo, dentro lo stesso tempo di lavoro anche quando questo si riduce.
Nella fabbrica Toyota, quando la luce è verde, il funzionamento è normale; con
l’indicazione del colore arancione si raggiunge un’intensità massima e,
quando appare la luce rossa, è perché ci sono problemi e si deve diminuire il
ritmo produttivo. L’appropriazione delle attività intellettuali del lavoro,
che avviene con l’introduzione di macchinari automatizzati e informatizzati,
alleata all’intensificazione del ritmo del processo di lavoro, configurano un
quadro estremamente positivo per il capitale, nella ripresa del suo ciclo di
accumulazione e nel recupero della sua redditività (Ichiyo, 1995: 45-46;
Gounet, 1991: 41; Coriat, 1992: 60; Antunes, 2002).
Similmente al fordismo nel corso del secolo XX, ma secondo
una ricetta differenziata, il toyotismo reinaugura un nuovo livello di
intensificazione del lavoro, combinando fortemente le forme relativa e assoluta
di appropriazione del plusvalore. Se ci ricordiamo che la proposta del governo
giapponese, recentemente elaborata, “è di aumentare il limite della giornata
di lavoro (da 9 a 10 ore) e la giornata settimanale di lavoro (da 48 a 52 ore)”
si ha un chiaro esempio di quanto sopra abbiamo menzionato (Japan Press Weekly,
op. cit.).
L’espansione del lavoro part time, così come le
forme per le quali il capitale si serve della divisione sessuale del lavoro e
della crescita dei lavoratori immigrati, la cui espressione sono i dekasseguis
che eseguono lavori di più basso livello di qualificazione e frequentemente
illegali, costituiscono chiari esempi dell’enorme tendenza all’intensificazione
e sfruttamento della forza-lavoro nell’universo del toyotismo. Questo si
struttura preservando un numero ridotto di lavoratori dentro le imprese-madri,
più qualificati, multifunzionali e aderenti al loro sistema di idee, così come
aumentando le ore di straordinario, la terzizzazione all’interno e fuori delle
imprese, la contrattazione dei lavoratori temporanei, ecc. -opzioni che sono
differenziate in funzione delle condizioni del mercato nel quale si inseriscono.
La precarizzazione del lavoro tende ad essere maggiore, quanto più ci si
allontana dalle imprese principali. Per questo i lavoratori della Toyota
lavorano circa “2300 ore all’anno, mentre i lavoratori delle imprese dell’indotto
arrivano a lavorare 2800 ore” (Gounet, 1997: 78).
La trasferibilità del toyotismo, o di parte della sua
ricetta, è apparsa, pertanto, di enorme interesse per il capitale occidentale
in crisi a partire dall’inizio degli anni Settanta. È chiaro che la sua
adattabilità, su scala maggiore o minore, era necessariamente condizionata
dalle singolarità e particolarità di ciascun paese, tanto riguardo alle
condizioni economiche, sociali, politiche, ideologiche, quanto all’inserimento
di questi paesi nella divisione internazionale del lavoro, ai loro rispettivi
movimenti sindacali, alle condizioni del mercato del lavoro, tra gli altri punti
esistenti quando si realizza l’incorporazione (di elementi) del toyotismo.
Come enfatizzano Costa e Garanto, mentre il modello
giapponese ha introdotto l’“impiego vitalizio” per una parte ridotta della
sua classe lavoratrice (30% secondo gli autori), qualcosa di molto diverso
accade in Occidente, dove la sicurezza nell’impiego appare con enfasi molto
più ristretta e limitata, anche nelle imprese del capitale giapponese stabilite
in Europa. “Effettivamente, la sicurezza dell’impiego non è accettata
soltanto che dall’11% delle imprese. Essa è effettivamente più accettata nel
Regno Unito (13% delle fabbriche), che in Francia (5%) o in Spagna (6%)”
(Costa e Garanto, 1993: 98). I dati riportati dagli autori li portano a
relativizzare il “mito della giapponesizzazione” del continente europeo
(Idem: 110). Il processo di occidentalizzazione del toyotismo mischia, pertanto,
elementi presenti in Giappone con prassi esistenti nei nuovi paesi ricettori,
dando corso così a un processo differenziato, particolarizzato e anche
singolarizzato di adattamento di questa ricetta.
L’attualità del neoliberismo o di politiche sotto la sua
influenza, attivano condizioni in grande misura favorevoli all’adattamento
differenziato di elementi del toyotismo in Occidente. Essendo il processo di
ristrutturazione produttiva del capitale la base materiale del progetto
ideologico-politico neoliberista, struttura sulla quale si erige il sistema di
idee e la pratica neoliberista, non è stato difficile rendersi conto che, a
partire dalla fine degli anni Settanta e dell’inizio degli anni Ottanta, il
mondo capitalista occidentale ha cominciato a sviluppare tecniche simili al
toyotismo. Questo si mostrava come il più avanzato esperimento di
ristrutturazione produttiva, originato dallo stesso fordismo giapponese e
successivamente convertito in una via particolare di accumulazione
capitalistica, capace di operare un enorme avanzamento nel capitalismo del
Giappone, sconfitto nel dopoguerra e riconvertito in un paese di enorme rilievo
nel mondo capitalista della fine degli anni Settanta.
Questa assimilazione di elementi del toyotismo è stata
realizzata praticamente da tutte le grandi imprese, inizialmente nel ramo
automobilistico e, successivamente, estesasi anche al settore industriale, in
generale, e a vari rami di settori di servizi, tanto nei paesi centrali, quanto
nei paesi di industrializzazione intermedia. E questo processo fu responsabile
della nuova configurazione della classe lavoratrice e anche della accentuazione
delle forme di precarizzazione del lavoro.
3. I mutamenti nel mondo del lavoro: la forma d’essere della classe
lavoratrice oggi
Il capitalismo contemporaneo, con la configurazione che è
andato assumendo negli ultimi decenni, ha accentuato la sua logica distruttiva.
Proprio per il fatto che dirige queste tendenze (che, in verità, costituiscono
le risposte del capitale alla propria crisi), si accentuano gli elementi
distruttivi che presiedono alla logica del capitale. Quanto più aumentano la
competitività e la concorrenza tra i capitali, tra le imprese, tra le potenze
politiche del capitale, più nefaste sono le sue conseguenze.
Due sono le manifestazioni più virulente e gravi: la
distruzione e/o precarizzazione, senza paralleli in tutto il periodo del
dopoguerra, della forza umana che lavora e la degradazione crescente della
relazione metabolica tra uomo e natura, che è guidata dalla logica diretta
prioritariamente alla produzione di merci che distruggono l’ambiente.
Si tratta, pertanto, di un’acuta distruttività, che è l’espressione
più profonda della crisi strutturale che devasta la (dis-)socializzazione
contemporanea: si distrugge la forza umana che lavora; si eliminano i diritti
sociali; si brutalizzano enormi contingenti di uomini e donne che vivono di
lavoro; diventa predatoria la relazione produzione/natura, creando una
monumentale “società dello scartabile”, che butta via tutto ciò che è
servito come “confezione” per le merci e il suo sistema mantiene, tra l’altro,
il circolo riproduttivo del capitale.
In questo scenario, caratterizzato da una triplice che domina
il mondo (con il Nafta e gli Stati Uniti d’America in testa, seguiti dall’Europa
unita, a partire dalla Germania, dal Giappone che dirige gli altri paesi
asiatici), in cui quanto più uno dei poli si rafforza, tanto più gli altri ne
risentono e si indeboliscono. Per questo la crisi frequentemente cambia di
centro, sebbene sia presente in vari punti, assumendo anche una dimensione
mondiale.
Nella lotta quotidiana che i capitali intraprendono per espandersi in parti
del mondo che li interessano e allo stesso tempo per co-gestire le situazioni
più esplosive da loro stessi create, insomma, per sfruttare nuovi spazi di
concorrenza e allo stesso tempo gestire le crisi, finiscono per causare ancor
più distruzione e precarizzazione. L’America latina si “integra” alla
cosiddetta mondializzazione distruggendosi socialmente. In Asia l’enorme
espansione volta le spalle a un brutale supersfruttamento del lavoro, che gli
scioperi dei lavoratori della Corea del Sud, nel 1997-98, denunciano fermamente.
Supersfruttamento che raggiunge profondamente anche donne e bambini.
È necessario che si dica in forma chiara:
de-regolamentazione, flessibilizzazione, terziarizzazione, così come tutta la
ricetta che si sparpaglia per il “mondo imprenditoriale”, sono espressioni
di una logica societaria, dove solo il capitale vale e la forza-lavoro umana
conta soltanto in quanto parte imprenscindibile per la riproduzione di questo
stesso capitale. Questo perché il capitale è incapace di realizzare la sua
auto-valorizzazione senza utilizzare il lavoro umano. Il capitale può diminuire
il lavoro vivo, ma non può eliminarlo. Il capitale può precarizzarne e
licenziarne immensi settori, ma non può estinguerlo.
La chiara comprensione di questa configurazione attuale del
mondo del lavoro ci porta a capire i suoi principali mutamenti, il che
cercheremo di fare subito in modo un po’ più dettagliato.
Negli ultimi decenni, particolarmente dopo la metà degli
anni Settanta, il mondo del lavoro ha vissuto una situazione fortemente critica,
forse la maggiore dalla nascita della classe lavoratrice e dello stesso
movimento operaio inglese. La comprensione degli elementi costitutivi di questa
crisi è di grande complessità, una volta che in questo stesso periodo sono
accaduti mutamenti intensi e di differente natura e che, nel suo complesso,
hanno finito per comportare conseguenze molto forti all’interno del movimento
operaio e, in particolare, nell’ambito del movimento sindacale. La
comprensione di questo quadro, pertanto, suppone un’analisi della totalità
degli elementi costitutivi di questo scenario, tentativo allo stesso tempo
difficile e imprenscindibile, che non può essere trattato in maniera leggera.
Indicheremo alcuni elementi che sono centrali, secondo noi,
per un apprendimento più ampio della crisi che si è abbattuta all’interno
del movimento del lavoro. Il suo sviluppo sarà qui impossibile, data l’ampiezza
e la complessità delle questioni. La sua indicazione, tra l’altro, è
fondamentale perché ha influenzato sia la materialità della classe
lavoratrice, la sua forma d’essere, sia la sua sfera più propriamente
soggettiva, politica, ideologica, dei valori e del sistema d’idee che ne
regolano le azioni e le pratiche concrete.
Abbiamo detto precedentemente che negli ultimi decenni
abbiamo osservato un quadro di crisi strutturale del capitale, che si è
abbattuta sull’insieme delle economie capitalistiche a partire specialmente
dall’inizio degli anni Settanta. La sua intensità ha portato il capitale a
sviluppare modi di agire materiali di ampia e distruttiva autoriproduzione,
lasciando intravedere lo spettro di una distruzione globale, invece di accettare
le restrizioni necessarie però sufficienti alla produzione per la soddisfazione
dei bisogni umani (Mészáros, 1995; vedi anche Chesnais, 1996; Kurz, 1992 e
Antunes, 1997ª).
Questa crisi ha fatto sì che, conformemente a quanto visto
precedentemente, il capitale mettesse in atto un processo di ristrutturazione
produttiva, tenendo in conto soltanto il recupero del ciclo di valorizzazione
del capitale stesso, ciò che ha influenzato fortemente il mondo del lavoro.
Un secondo elemento fondamentale per la comprensione delle
cause del riflusso del movimento operaio deriva dal crollo dell’Europa dell’Est
(e dalla quasi totalità dei paesi che tentarono una transizione socialista, con
in testa l’ex Unione Sovietica), diffondendo all’interno del mondo del
lavoro la falsa idea della “fine del socialismo”.
Inoltre, se su lungo termine le conseguenze della fine dell’Europa
dell’Est sono positive (poiché si pone la possibilità di una ripresa, su
basi interamente nuove, di un nuovo tipo di progetto socialista, che rigetti tra
le tante tesi nefaste la tesi staliniana del “socialismo in un solo paese” e
recuperi elementi centrali della formulazione di Marx), sul piano più immediato
si verifica, in ampi settori della classe lavoratrice e del movimento operaio, l’accettazione
e anche l’assimilazione della nefasta ed errata tesi della “fine del
socialismo” e, come dicono i difensori dell’ordine, della “fine del
marxismo”.
Come conseguenza della fine del cosiddetto “blocco del
socialismo”, i paesi capitalistici centrali vanno ribassando brutalmente i
diritti e le conquiste sociali dei lavoratori, data l’“inesistenza” oggi,
secondo il capitale, del pericolo socialista. Pertanto il crollo dell’Unione
Sovietica e dell’Europa dell’Est, alla fine degli anni Ottanta, hanno avuto
un enorme impatto sul movimento operaio. Basterebbe soltanto ricordare la crisi
che si è abbattuta sui partiti comunisti tradizionali e sul sindacalismo ad
essi vincolato.
È necessario aggiungere ancora -e questo è il quarto
elemento centrale della attuale crisi- che con l’enorme espansione del
neoliberismo a partire dalla fine degli anni Settanta e la conseguente crisi del
Welfare State, è iniziato un processo di regressione della stessa
socialdemocrazia che è passata ad agire in maniera molto simile al
neoliberismo, del quale la Terza Via di Tony Blair è un’espressione. Il
neoliberismo è passato a dettare il sistema d’idee e il programma che saranno
realizzati dai paesi capitalistici, inizialmente del centro e subito dopo nei
paesi subordinati, contemplando la ristrutturazione produttiva, la
privatizzazione accelerata, l’instaurazione di politiche fiscali e monetarie
sintonizzate con gli organismi mondiali dell’egemonia del capitale come il
Fondo Monetario Internazionale.
Lo smantellamento dei diritti sociali dei lavoratori, la
lotta serrata al sindacalismo di classe, la propagazione di un soggettivismo e
di un individualismo esacerbati, dei quali la cultura “post-moderna” è un’espressione,
così come una chiara animosità contro qualsiasi proposta socialista contraria
ai valori e agli interessi del capitale, sono tratti significativi di questo
recente periodo. Questo processo complesso ha influenzato fortemente il mondo
del lavoro. Particolarmente in questi ultimi anni si sono intensificate le
trasformazioni nello stesso processo produttivo. Fondamentalmente, questa forma
di produzione flessibilizzata cerca un’adesione di fondo da parte dei
lavoratori, che devono accettare integralmente il progetto del capitale. Si
cerca una forma di ciò che ho chiamato, in Addio al lavoro? (Antunes, 2002), di
sviluppo manipolatorio portato al limite, dove il capitale cerca il “consenso”,
l’adesione e la cooptazione dei lavoratori all’interno delle imprese, per
rendere realizzabile un progetto che è disegnato e concepito secondo i
fondamenti esclusivi del capitale.
Questa forma flessibilizzata di accumulazione capitalistica,
basata nella re-ingegneria, nell’impresa ridimensionata, per ricordare alcune
espressioni del nuovo dizionario del capitale, ha avuto conseguenze enormi nel
mondo del lavoro. Possiamo qui indicare soltanto le più importanti:
1) c’è una crescente riduzione del proletariato di
fabbrica stabile, che si è sviluppato nella vigenza del binomio
taylorismo/fordismo e che va diminuendo con la ristrutturazione, la
flessibilizzazione e la de-concentrazione dello spazio fisico produttivo, tipico
della fase del toyotismo;
2) c’è un enorme incremento del nuovo proletariato, del
sottoproletariato di fabbrica e dei servizi, che è stato denominato
mondialmente “lavoro precarizzato” e in Italia lavoro nero [in
italiano nel testo, N. d. T.]. Sono i “terzizzati”, sottocontrattati, part-time,
tra le tante altre forme somiglianti, che si espandono in numerose parti del
mondo. Inizialmente, questi posti di lavoro furono riempiti dagli immigrati,
come i Gastarbeiteren in Germania, gli extra-comunitari [in
italiano nel testo, N. d. T.] in Italia, i chicanos negli USA, i dekaseguis
in Giappone ed ecc. Ma oggi la sua espansione raggiunge anche i lavoratori
specializzati, residui dell’era taylorista/fordista;
3) si assiste a un aumento significativo del lavoro
femminile, che raggiunge il 40% o più della forza-lavoro nei paesi avanzati e
che è stato preferibilmente assorbito dal capitale nell’universo del lavoro
precarizzato e de-regolamentato;
4) c’è un incremento dei salariati medi e dei servizi, il
che ha reso possibile un significativo incremento del sindacalismo in questi
settori, sebbene il settore dei servizi già presenti livelli di disoccupazione
accentuata;
5) c’è l’esclusione dei giovani e dei vecchi dal mercato
del lavoro: i primi finiscono molte volte per ingrossare le file di movimenti
neonazisti e quelli che sono vicini ai 40 anni o più, se disoccupati ed esclusi
dal lavoro, difficilmente trovano un altro impiego;
6) c’è un’introduzione precoce e criminale dei bambini
nel mercato del lavoro, particolarmente nei paesi di industrializzazione
intermedia e subordinata, come nei paesi asiatici, latinoamericani, ma che
raggiunge anche numerosi paesi centrali;
7) c’è un’espansione di ciò che Marx chiamò lavoro
sociale combinato (Marx, Capitolo VI inedito, 1994), dove i lavoratori di
diverse parti del mondo partecipano al processo di produzione e dei servizi.
Evidentemente ciò non va nel senso della eliminazione della classe lavoratrice,
ma della sua precarizzazione e utilizzazione ancor più intensificata. In altre
parole: aumentano i livelli di sfruttamento del lavoro.
Pertanto, la classe lavoratrice si è frammentata, si è
eterogeneizzata e si è complessificata ancor di più. È diventata più
qualificata in vari settori, come nella siderurgia, dove c’è stata una
relativa intellettualizzazione del lavoro, ma si è de-qualificata e si è
precarizzata in diversi rami, come nell’industria automobilistica, dove il
metalmeccanico non ha più la stessa importanza, senza parlare della riduzione
degli ispettori di qualità, dei grafici, dei minatori, dei portuali, dei
lavoratori delle costruzioni navali, ecc.
Si è creato, da un lato, in scala minoritaria, il lavoratore
“polivalente e multifunzionale” dell’era informatica, capace di operare
con macchine con controllo numerico e, a volte, di esercitare con più
intensità la sua dimensione più “intellettuale”. E, d’altro lato, c’è
una massa di lavoratori precarizzati, senza qualificazione, che oggi sta vivendo
le forme di part-time, impiego temporaneo, parziale, o anche vivendo la
disoccupazione strutturale. Avanzando concettualmente possiamo dire che la
classe lavoratrice oggi include la totalità di coloro che vendono la loro
forza-lavoro, avendo come nucleo centrale i lavoratori produttivi (nel senso
dato da Marx, specialmente nel Capitolo VI inedito, 1994). Essa non si
restringe, pertanto, al lavoro manuale diretto, ma ingloba la totalità del
lavoro sociale, la totalità del lavoro collettivo salariato. Essendo il
lavoratore produttivo colui che produce direttamente plusvalore e che partecipa
altrettanto direttamente al processo di valorizzazione del capitale, egli
svolge, per questo, un ruolo di centralità all’interno della classe
lavoratrice, trovando nel proletariato industriale della moderna fabbrica il suo
nucleo principale.
Pertanto, il lavoro produttivo, dove si trova il
proletariato, secondo la nostra interpretazione di Marx, non si restringe al
lavoro manuale diretto, incorporando anche forme di lavoro che sono produttive,
che producono plusvalore, ma che non sono direttamente manuali.
Ma la classe lavoratrice ingloba anche i lavoratori
improduttivi, coloro le cui forme di lavoro sono utilizzate come servizio, sia
per l’uso pubblico sia per il capitalista e che non costituiscono un elemento
direttamente produttivo, in quanto elemento vivo del processo di valorizzazione
del capitale e della creazione di plusvalore. Sono coloro in cui, secondo Marx,
il lavoro è consumato come valore d’uso e non in quanto lavoro che crea
valore di scambio. Il lavoro improduttivo abbraccia un ampio ventaglio di
salariati, da quelli che sono inseriti nel settore dei servizi, fino a quelli
che realizzano attività nelle fabbriche, ma che non creano direttamente valore.
Costituiscono in generale un segmento salariato in espansione nel capitalismo
contemporaneo -i lavoratori in servizio-, sebbene in alcune delle sue parti si
trovino in contrazione. Sono quelli che costituiscono i lavoratori non
produttivi, generatori di anti-valore nel processo di lavoro capitalistico, ma
che sono necessari per la sopravvivenza del sistema.
Considerando, pertanto, che ogni lavoratore produttivo è
salariato e non ogni lavoratore salariato è produttivo, una nozione
contemporanea della classe lavoratrice, vista in modo ampio, deve, secondo noi,
incorporare la totalità dei lavoratori salariati. Questo non esclude il ruolo
di centralità del lavoratore produttivo, del lavoro sociale collettivo,
creatore di valori di scambio, del proletariato industriale moderno nell’insieme
della classe-che-vive-di-lavoro, il che ci sembra inoltre evidente,
quando il riferimento è dato dalla formulazione di Marx. Ma, dato che c’è
una crescente implicazione tra lavoro produttivo e improduttivo nel capitalismo
contemporaneo, e dato che la classe lavoratrice ingloba sotto il capitalismo
queste due dimensioni fondamentali del lavoro, questa nozione ci sembra
fondamentale per la comprensione di ciò che è oggi la classe lavoratrice.
Una nozione ampliata di classe lavoratrice include, quindi,
tutti quelli e quelle che vendono la loro forza-lavoro in cambio di salario,
inglobando, oltre al proletariato industriale, i salariati del settore dei
servizi e anche il proletariato rurale, che vende la sua forza-lavoro per il
capitale. Ne fa parte anche il proletariato precarizzato, il sottoproletariato
moderno, part-time, il nuovo proletariato dei MacDonalds, gli hyphenated
workers di cui ha parlato Beynon (1995), i lavoratori terziarizzati e
precarizzati delle imprese liofilizzate di cui ha parlato Juan José Castillo
(1996 e 1996a), i lavoratori salariati della cosiddetta “economia informale”,
che molte volte sono indirettamente subordinati al capitale, oltre ai lavoratori
disoccupati, espulsi dal processo produttivo e dal mercato del lavoro a causa
della ristrutturazione del capitale, e che ipertrofizzano l’esercito
industriale di riserva, nella fase di espansione della disoccupazione
strutturale.
La classe lavoratrice esclude oggi, naturalmente, i gestori
del capitale, i suoi alti funzionari, che mantengono un ruolo di controllo nel
processo del lavoro, della valorizzazione e riproduzione del capitale all’interno
delle imprese e che ricevono rendimenti elevati o anche coloro che, possedendo
un capitale accumulato, vivono della speculazione e degli interessi. Sono
esclusi anche, secondo noi, i piccoli impresari, la piccola borghesia urbana e
rurale proprietaria.
Nella nuova composizione della classe lavoratrice si assiste,
come abbiamo visto precedentemente, a un aumento significativo del lavoro
femminile, che è stato assorbito dal capitale, preferibilmente nell’universo
del lavoro part-time, precarizzato e de-regolamentato. Nel Regno Unito,
per esempio, il contingente femminile ha superato recentemente quello maschile
nella composizione della forza-lavoro. Si sa che questa espansione del lavoro
femminile ha, fra l’altro, un significato inverso quando si tratta della
tematica salariale, dove la disuguaglianza salariale delle donne contraddice la
sua crescente partecipazione nel mercato del lavoro. La sua percentuale di
remunerazione è ben minore di quanto ricavato dal lavoro maschile. Lo stesso
accade frequentemente per quanto concerne i diritti e le condizioni del lavoro.
Nella divisione sessuale del lavoro, operata dal capitale
dentro lo spazio della fabbrica, generalmente le attività di concezione o
quelle basate sul capitale intensivo sono occupate dal lavoro maschile, mentre
quelle dotate di minor qualificazione, più elementari e frequentemente fondate
sul lavoro intensivo, sono destinate alle donne lavoratrici (e molto
frequentemente anche a lavoratori/trici immigrati/e e negri/e).
La donna lavoratrice realizza doppiamente la sua attività
lavorativa, dentro e fuori di casa, dentro e fuori della fabbrica. E, nel farlo,
oltre alla duplicità dell’atto lavorativo, essa è doppiamente sfruttata dal
capitale: nell’immediato svolgendo, nello spazio pubblico, il suo lavoro
produttivo nell’ambito della fabbrica. Ma, nell’universo della sua vita
privata, consuma ore decisive della sua vita nel lavoro domestico, dove rende
possibile (allo stesso capitale) la sua riproduzione, in questa sfera del
lavoro, che non è direttamente legata al mercato, dove si creano le condizioni
indispensabili per la riproduzione della forza-lavoro del marito, dei figli/e e
di se stessa. Senza questa sfera della riproduzione non direttamente legata al
mercato, le condizioni del sistema di metabolismo sociale del capitale sarebbero
abbastanza compromesse, se non impraticabili.
Nel più profondo processo di emancipazione del genere umano
c’è, quindi, un’azione che ci sembra imprenscindibile tra gli uomini e le
donne che lavorano. Questa azione ha nel capitale e nel suo sistema di
metabolismo sociale la fonte di subordinazione e di estraniazione. Una vita
piena di senso, capace di rendere possibile l’affioramento di una soggettività
autentica, è possibile attraverso una lotta contro questo sistema di
metabolismo sociale, attraverso le azioni di classe del lavoro contro il
capitale. La stessa condizione che dà forma alle condizioni per le distinte
forme di estraniazione, per una vita sprovvista di senso nel lavoro, offre le
condizioni per l’affioramento di una soggettività autentica e capace di
costruire una vita dotata di senso. Uomini e donne che lavorano sono doppiamente
partecipi di questo processo di emancipazione.
Ma la lotta delle donne per la loro emancipazione è anche -e
decisamente- un’azione contro le forme storico-sociali dell’oppressione
maschile. In questo dominio, la lotta femminista emancipatrice è
pre-capitalistica, trova vigenza sotto il dominio del capitale -ma sarà anche
post-capitalistica, poiché la fine della società di classi non significa
direttamente e immediatamente la fine dell’oppressione sessuale. È chiaro che
la fine delle forme di oppressione di classe, se generatrice di una forma
sociale autenticamente libera, autodeterminata ed emancipata, potrà rendere
possibile l’apparire di condizioni storico-sociali mai viste prima, capaci di
offrire condizioni sociali egualitarie che permettano la vera esistenza di
soggettività differenziate, libere e autonome. Qui le differenze di sesso,
distinte e autentiche, diventano capaci di rendere possibili relazioni tra
uomini e donne sprovviste veramente delle forme di oppressione esistenti nelle
più distinte forme di società di classe.
Questi mutamenti hanno creato, pertanto, una classe
lavoratrice più eterogenea, più frammentata e più complessa, divisa tra
lavoratori qualificati e de-qualificati, tra mercato formale e informale, tra
giovani e vecchi, tra uomini e donne, tra stabili e precari, tra immigrati e
nazionali, tra bianchi e negri, ecc. senza parlare delle divisioni che decorrono
dall’inserimento differenziato dei paesi e dei loro lavoratori nella nuova
divisione internazionale del lavoro.
Al contrario, dunque, da coloro che difendono la “fine del
ruolo centrale della classe lavoratrice” nel mondo attuale, la sfida maggiore
della classe-che-vive-di-lavoro, in questa svolta dal secolo XX al XXI,
è saldare i vincoli di appartenenza di classe esistenti tra i diversi segmenti
che comprendono il mondo del lavoro. E, in questo modo, si cerca di articolare
quei segmenti che esercitano un ruolo centrale nel processo di creazione di
valori di scambio, e da lì si cerca di arrivare a quei segmenti che più sono
al margine del processo produttivo, ma che, per le condizioni precarie in cui si
trovano, costituiscono contingenti sociali potenzialmente ribelli di fronte al
capitale e alle sue forme di (de-)sociabilizzazione (vedi Bihr: 1991). Queste
trasformazioni in corso non rendono possibile, pertanto, conferire statuto di
validità teorica a tesi sulla fine del lavoro nel modo di produzione
capitalistico. Ciò si rende ancor più evidente quando si costata che la
maggior parte della forza-lavoro si trova entro i paesi del cosiddetto Terzo
Mondo, dove le tendenze precedentemente indicate hanno anche un ritmo abbastanza
particolare e differente. A partire dal campo ristretto di Germania o Francia si
fanno generalizzazioni e universalizzazioni sulla fine del lavoro o della classe
lavoratrice, non considerando ciò che accade in paesi come India, Cina,
Brasile, Messico, Corea del Sud, Russia, Argentina, ecc. per non parlare del
Giappone, e così si configura un equivoco, che ha grande significato.
Tutto ciò senza menzionare che l’eliminazione del lavoro e
la generalizzazione di questa tendenza sotto il capitalismo contemporaneo -in
esso incluso l’enorme contingente dei lavoratori del Terzo Mondo- supporrebbe
la distruzione della stessa economia di mercato, per l’incapacità di
integrazione del processo di accumulazione del capitale, una volta che i robot
non potrebbero partecipare al mercato come consumatori. La semplice
sopravvivenza dell’economia capitalistica sarebbe compromessa, senza parlare
di tante altre conseguenze sociali e politiche esplosive che si verificherebbero
in questa situazione. Tutto ciò rende evidente che è un equivoco pensare alla
sparizione o alla fine del lavoro, mentre perdura la società capitalistica
produttrice di merci e fondamentalmente non è neanche possibile prospettare
nessuna possibilità di eliminazione della classe-che-vive-di-lavoro,
mentre rimangono in vigore i pilastri costitutivi del modo di produzione e del
sistema di metabolismo del capitale.
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Nota del traduttore (Antonio Infranca, con revisione del
Com. Prog. Scient. PROTEO)
Il termine portoghese terceirização, che è molto
comune in quella lingua, è stato tradotto con “terzizzazione”, che è
invece molto raro in italiano, mentre il termine portoghese sub-contratação
è stato tradotto con “indotto”, che più comune in italiano, e così per
tutti i loro derivati. In realtà i due termini sono sinonimi, ma si è voluto
rispettare lo stile in portoghese dell’autore.
NOTE
* Professore Titolare di Sociologia, UNICAMP/Brasil. “Visiting Research
Fellow”, Università del Sussex (Inghilterra) e autore di Os Sentidos do
Trabalho (Boitempo Editorial) e Addio al Lavoro? (Biblioteca Franco
Serrantini e pubblicato anche in Brasile, Spagna, Argentina, Venezuela e
Colombia). È membro di redazione delle riviste Margem Esquerda (Brasil),
Herramienta (Argentina), Latin American Perspectives (EUA) e Asian
Journal of Latin American Studies (Korea).