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Armando Fernández Steinko
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Professore titolare di Sociologia, Università Complutense, Madrid

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Per nuove conquiste del movimento dei lavoratori. Democrazia economica, una strategia possibile?
Armando Fernández Steinko

 

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Per nuove conquiste del movimento dei lavoratori. Democrazia economica, una strategia possibile?

Armando Fernández Steinko

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1. Vivere di rendita delle lotte del passato

La storia del XX secolo è, in larga misura, la storia di tre periodi, di tre cicli di protesta durante i quali si sono concentrate la maggior parte delle dinamiche di emancipazione sociale (1917-1924, 1944-1950 e 1968-1980) [1]. Queste dinamiche hanno lasciato solchi profondi sulla superficie del secolo, si sono cristallizzate in costituzioni, leggi, culture politiche e differenti organizzazioni, il cui obbiettivo comune era la migliore divisione del potere. In primo luogo del potere politico (lotta per il suffragio universale portata avanti dai partiti di sinistra e, in minor misura, di centro). Poi, del potere che deriva dall’accesso universale alla cultura e al sapere (lotta per un’istruzione per tutti pagata con denaro pubblico). Terzo, del potere sulle decisioni economiche e d’impresa (lotta per la regolamentazione politica dell’economia, per la libertà sindacale nelle imprese, per la cogestione, autogestione o la partecipazione nella gestione della impresa). Molte di queste conquiste sono state totalmente o parzialmente annullate applicando procedimenti diversi. O in modo violento (colpi di stato e regimi imposti dall’occupazione tedesca nella maggior parte dell’Europa dell’Est, Francia, ecc.), o in maniera graduale (restaurazione politica negli anni della Guerra Fredda o negli anni ’80 per mezzo della controrivoluzione monetaria, ecc.). Però molte altre conquiste democratiche hanno avuto una portata tale da perdurare (e perdurano) anche per diverse decadi successive. In realtà, noi, generazioni di europei occidentali siamo loro figli, sono queste conquiste che hanno portato un benessere materiale durante la nostra infanzia e gioventù, una stabilità lavorativa per i nostri padri (non per le nostre madri), determinati diritti del lavoro e un accesso universale alla cultura. Grazie ad esse, un numero notevole di cittadini può parlare di questi temi e non essere solamente immerso nella lotta per la sussistenza quotidiana, sono esse ad aver creato il contesto oggettivo nel quale ci siamo formati e in un certo senso viviamo della loro rendita.

La dinamica capitalista non ci avrebbe mai regalato tutto questo spontaneamente, se i nostri padri, nonni e bisnonni non si fossero mobilitati per ottenerlo. Se il modello attuale di sviluppo sociale è insostenibile, lo è anche perché consuma più risorse e diritti democratici di quelli che rinnova e sostituisce.

2. Il ruolo fondamentale (non esclusivo) delle imprese

Ognuno di questi tre cicli, sarebbe stato impensabile se non si fossero verificati progressi sostanziali nella democratizzazione della gestione delle imprese. I consigli di fabbrica dei tempi di Gramsci, il fiorire dell’autogestione operaia nella Russia e nella Spagna del 1917, i Consigli Operai nella Germania di Weimar, i Consigli di Gestione nell’Italia antifascista (1944-1948), la coodeterminazione del settore dell’acciaio e del carbone nella Germania dell’ora zero, l’Autunno Caldo italiano del 1969, i “Fondi Suecos” dei lavoratori Salariati o la Legge tedesca della Codeterminazione del 1976 ecc. non sono periferie o sottoprodotti di tutte quelle dinamiche che hanno coinvolto le società. Le imprese sono state spesso gli spazi dove si sono prodotte le prime mobilitazioni, proteste organizzate, i primi risultati nella conquista dei diritti democratici non solo a livello lavorativo, ma democratici in generale. Il maggiore livello di organizzazione dei lavoratori salariati rispetto al resto della società, l’enorme grandezza delle imprese (la Puntilov di San Pietroburgo, ad esempio, comprendeva più di 10.000 lavoratori) e soprattutto il fatto che al loro interno si vivessero situazioni di ipersfruttamento, di autoritarismo e arbitrarietà ancora più evidenti che fuori, tutti questi fattori hanno trasformato le imprese in autentici centri politici che si sono poi irradiati nel resto della società (richieste di democrazia nel lavoro come parte di una richiesta di democratizzazio e di tutta la società, richieste di controllo sociale sulle grandi imprese collaboratrici con il fascismo dopo la Seconda Guerra Mondiale come parte di un desiderio di democratizzazione generale dell’economia, ecc.). Alcune conquiste, come lo stesso suffragio universale, la legalizzazione del divorzio, o le riforme fiscali, sarebbero state impensabili senza il coinvolgimento del movimento operaio. Questo, e per varie ragioni come, per esempio, la situazione eccezionale che si è vissuta durante la Guerra del ’14, ha permesso al mondo del lavoro di migliorare la propria capacità di pressione non solo economica, ma anche politica, capacità che successivamente esso ha utilizzato non solo per beneficio esclusivamente proprio, ma per il beneficio della democratizzazione di tutta la società.

Tutto ciò ha alimentato per molte decadi la visione avanguardista o addirittura isolazionista del movimento operaio rispetto al resto della società. Si tratta di visioni, in generale, che sono costate molto care al movimento operaio e alla cittadinanza nel suo insieme, soprattutto perché erano basate su delle premesse false. I lavoratori salariati non superarono numericamente praticamente mai e in nessun paese la somma tra “autonomi tradizionali” (piccoli agricoltori, proprietari di laboratori, piccoli negozi e taverne) e i loro rispettivi, aiutanti, braccianti e apprendisti che mantenevano più un rapporto familiare che strettamente professionale con quelli, ed il cui comportamento politico era più che altro conservatore o addirittura reazionario [2]. Queste sacche, questi spazi tradizionali di funzionamento autoritario e totalmente chiusi nella capsula ermetica della privazione familiare, sono servite di volta in volta per togliere al mondo del lavoro le maggioranze elettorali, o addirittura per appoggiare i movimenti autoritari nemici del suffragio universale. Non è affatto casuale che i paesi dove la sinistra riformatrice ha accumulato più forza rispetto alle forze conservatrici, non sono stati quelli con il settore capitalista moderno più numeroso (Gran Bretagna, Germania, Austria), ma quelli dove il movimento operaio è riuscito ad allearsi con quegli “autonomi tradizionali” strappando loro l’appoggio che nei paesi più “moderni” essi davano alle forze borghesi e restauratrici (la mezza luna che va dalla Russia, passando per i Balcani, l’Italia e la Spagna e parte della Francia). Ciò nonostante, è un fatto storicamente irrefutabile, che il movimento operaio ha avuto, nei momenti chiave del XX secolo, un certo carattere di “avanguardia sociale e politica”, che il suo indebolimento si è trasformato quasi sempre nell’indebolimento di tutta la società democratica. Con la controrivoluzione monetaria e la “Seconda Guerra Fredda” (E. Hosbawm), il movimento operaio entra in una fase difensiva storica senza precedenti dal 1945, ma con esso entra in crisi anche la dinamica di democratizzazione di tutta la società. La storia non ha fatto altro che ripetersi un’altra volta dal momento che verso il 1930 (in Italia sette anni prima, in Spagna nove anni dopo), i movimenti autoritari prima attaccarono il mondo del lavoro, per poi attaccare la democrazia politica in tutta la società.

Però, se è così, a cosa è dovuto che il movimento operaio e sindacale abbia abbandonato dal 1980 quasi in tutti i paesi occidentali le rivendicazioni di democrazia economica e nell’impresa, come parte di una strategia più ambiziosa di democratizzazione di tutta la società? È coerente chiedere ancora una volta la democrazia economica, è realista farlo oggi?

3. La democrazia economica alle origini

La “democrazia economica”, intesa come obbiettivo strategico, è nata in una situazione di difensiva e arretramento del movimento sindacale tedesco [3]. È stata una proposta elaborata da Fritz Naphtali in collaborazione con altri intellettuali del sindacato ADGB (Rudolf Hilferding, Otto Brenner ecc.) e presentata al congresso di Amburgo del 1928. Si poneva l’obbiettivo di rinnovare un progetto sindacale che fino a quel momento era stato estremamente conciliante con il capitale e le forze reazionarie, passare all’offensiva e fare fronte alla perdita di iscritti, ma anche per contrastare la capacità del sindacato comunista [4]. La “democrazia economica” si proponeva di ampliare la democrazia politica appena cominciata con la Repubblica di Weimar tramite la democratizzazione dell’economia e dell’impresa (“arrivare al socialismo per mezzo della democratizzazione dell’economia”) e intendendo con democrazia “l’autogoverno del popolo”. Le reazioni contro l’”autocrazia economica” erano dunque, almeno a livello programmatico, unite ad una democratizzazione politica di tutta la società. Includevano misure tali come la lotta contro il “dispotismo impresariale”, contro il “controllo del mercato del lavoro e dei mercati da parte delle imprese capitaliste”, e contro le politiche economiche che subordinano lo Stato agli interessi del capitale. Significava “trasformare gli organi del governo capitalista dell’economia in organi del governo dell’insieme della società”. Dal momento che per i sindacalisti tedeschi la democrazia politica era inimmaginabile senza lo Stato (lo Stato aveva in Germania un ruolo centrale in tutti gli obbiettivi politici, anche in quelli di segno liberale e conservatore), la proprietà dei principali mezzi di produzione doveva passare ad appartenere in maggioranza ad un organismo che rappresentasse, non il benificio di pochi, ma di tutti, ossia, dello Stato. In questo senso, il raggiungimento della democrazia economica era sinonimo di socialismo, con i suoi tre punti principali: lo sviluppo della democrazia nell’impresa, la crezione di un sistema di imprese pubbliche e la pianificazione statale dell’economia. I sindacati dovevano creare “contropoteri”, prima di portare avanti strategie di adattamento agli interessi delle grandi imprese, che era quello che avevano continuato a fare fino a quel momento e con dei risultati per nulla soddisfacenti per il consolidamento della giovane Repubblica di Weimar e per il movimento operaio e sindacale in particolare.

In quel momento, la strategia della democrazia economica era considerata la migliore e la più matura, il più moderno dei programmi economici del continente (H.Mommsen). Molti suoi punti furono incorporati per decadi nei programmi dei partiti socialisiti, socialdemocratici e comunisti europei dopo la Seconda Guerra Mondiale. Lo stesso Fritz Naphtali, che dovette lasciare la Germania per la sua origine ebrea, divenne Ministro del Lavoro dell’appena creato stato di Israele, la cui economia e organizzazione è stata, fino alla drammatica deriva a destra della società israeliana negli anni Ottanta, un esempio unico di combinazione tra efficienza, proprietà collettiva (in questo caso sindacale) e gestione partecipata di quella economica, paragonabile soltanto alle esperienze iugoslave di quelle stesse decadi [5].

Però la messa in pratica, addirittura la stessa concezione iniziale, comportò degli errori, errori che, pur considerando la distanza storica, conviene tener presenti per l’attualizzazione di questa strategia. In primo luogo, si voleva concentrare nei sindacati il ruolo di protagonisti della trasformazione sociale lasciando un po’ al margine i partiti politici e i settori non salariati (o non sindacalizzati) della società. Questo potè funzionare nel nuovo Stato di Israele, per esempio, che nacque praticamente dal nulla, in circostanze eccezionali e con livelli di coesione e uniformità interni che non si trovano (o non si trovavano, perché la società israeliana di oggi non ha nulla a che vedere con quella) quasi da nessun’altra parte. Però in altri contesti, come in quello della Germania tra le due guerre, questo “avanguardismo sindacale” poteva solo portare all’isolamento, alla endogamia del ADGB, non solo rispetto al resto della società, ma anche rispetto agli altri sindacati (comunista, cristiano, ecc.). L’amara esperienza del fascismo ha obbligato a una drastica revisione di questa strategia e, dopo la Seconda Guerra Mondiale, la Germania Federale è diventata, almeno, uno dei pochissimi paesi in cui la Guerra fredda non è riuscita ad impedire la creazione di un sindacato unitario (il DGB).

Un altro secondo errore non meno importante, e che verso il 1933 sarebbe stato fatidico, è stato che la strategia di “democrazia economica” non si inserì all’interno di una strategia di mobilitazione cittadina e operaia. Tese ad essere nell’immaginario colletivo il lavoro brillante di alcuni intellettuali, senza proposte sul come, con quali soggetti e in che modo metterlo in moto “È mancato qualsiasi tentativo di sottomettere le azioni approvate nei sindacati della codecisone ad un controllo ed ad una legittimazione conseguente da parte delle basi, sia che fossero lavoratori, sia i loro rappresentanti diretti. A causa del suo forte orientamento istituzionale, la “democrazia economica” di Naphtali è stata sempre sottomessa ad una posizione subalterna anche se doveva corresponsabilizzarsi di tutti gli accordi presi nei sindacati.” [6]. Questo rimanda al problema dei modelli di partecipazione cittadina, al dilemma massimalismo versus minimalismo democratico.

4. Il dilemma massimalismo-minimalismo democratico

La struttura interna e le ideologie del movimento democratico del XX secolo si possono analizzare da molte angolazioni. Noi proponiamo di farlo utilizzando due concetti: quello di “minimalismo” e quello di “massimalismo” democratico.

Il minimalismo democratico è un modo di organizzare e gestire la partecipazione che consiste nell’allargare gli spazi di delega tra rappresentanti e rappresentati. Questo porta ad una professionalizzazione della rappresentanza e, per estensione, di tutta la cultura politica. I cittadini partecipano, però solo all’elezione dei propri rappresentanti che cambiano dopo un tot di tempo e che sono gli unici che conoscono i retroscena dell’attività politica e della negoziazione con la controparte. All’interno di questo schema, la partecipazione diretta dei cittadini è considerata una dispersione inutile di risorse e forze, la centralizzazione della “gestione politica” è considerata più efficace. Il suo vantaggio consiste nel permettere di unificare criteri e interessi di fronte alla controparte (altri partiti, lo Stato, la direzione delle imprese ecc.), nel lasciare ai cittadini tempo per molte altre cose (per esempio per consumare, o per “stare con la famiglia”) e consente di attuare riforme graduali senza troppi scombussolamenti e senza dover contare sulla collaborazione diretta degli interessati. Lo svantaggio è che tende ad annullare la soggettività e la creatività politica e organizzativa delle persone, genera cittadini passivi e sempre meno sicuri dei mezzi per lottare per i propri interessi. Gli spazi della delega tendono ad ampliarsi, il conflitto si “istituzionalizza” e la cultura della partecipazione tende inesorabilmente, negli anni, a venir meno. Questo venir meno della cultura della partecipazione sarebbe un fatto meno grave se le conquiste democratiche fossero eterne, cioè, se non esistessero gruppi sociali interessati a ridurle o ad annullarle, se non ci fosse bisogno di difenderle, di accumulare strumenti per fare ciò. È “minimalista”, senza smettere di essere un obiettivo per la democrazia (il termine è troopo impreciso per essere utilizzato senza sfumature), perché può funzionare anche - a volte perfino meglio- quando c’è solo appena partecipazione o quando essa è molto scarsa (per esempio quando l’astensione elettorale è molto elevata, o quando un sistema parlamentare è tutelato dai militari, o, in generale, quando le “elezioni libere” diventono un fatto puramente formale che non risveglia l’interesse di molti cittadini). Il minimalismo tende a ridurre la partecipazione alla politica, o meglio, alla parte istituzionalizzata di essa (elezione dei parlamentari) e quando si impone nelle imprese o in qualsiasi altra associazione, la riduce alla elezione di delegati o rappresentanti. Un altro svantaggio è che, poiché necessita di un apparato di professionisti relativamente consistente, tende alla burocratizzazione e alla gerarchizzazione delle strutture di rappresentanza [7].

Il modello di “democrazia massimalista” non esclude la partecipazione indiretta e istituzionalizzata, ma la vede come un modo in più, come un complemento. La partecipazione diretta, quotidiana e legata al personale e al soggettivo non è considerata fonte di squilibri, caos o disordine, ma il modo più efficace, e allo stesso tempo più legittimo, di partecipazione. Non solo non evita la prtecipazione nell’impresa, ma la cerca e la promuove, considerandola un’attività continua e quotidiana, come parte di un’attività cittadina globale e indivisibile, che non deve fermarsi all’entrata delle fabbriche (“cittadinanza piena”), ma nemmeno all’entrata delle associazioni di vicini, delle parrocchie o dei consigli economici o sociali. Il suo difetto è che tende a disperdere mezzi se non si combina con alcuni elementi di partecipazione indirtetta e professionalizzata, fatto che richiede maggiori sforzi di coordinazione, e che, almeno all’inizio, quando non esiste una cultura della partecipazione massimalista o manacano le conoscenze necessarie per svilupparla, tende a consumare più tempo che il primo modello. I vantaggi sono che crea una profonda cultura della partecipazione che non è solo più intensa e tende a coinvolgere maggiormente la cittadinanza, ma, inoltre, funziona tramite strutture non gerarchiche (o meno gerarchiche), è molto più flessibile dell’altro modello e, soprattutto, serve a mobilitare la creatività e le risorse soggettive delle persone. Quando queste hanno un livello elevato di conoscenze e qualificazione e, per una ragione o per l’altra, sono molto motivate a partecipare, possono generare dinamiche democratiche molto potenti e intense, molto più difficili da annullare da parte delle forze conservatici, che, ovviamente, temono, evitano e tentano di screditare continuamente le culture massimaliste.

Le rivoluzioni (rotture storiche), i cambiamenti politici rapidi e profondi si producono, non casualmente, con forti dosi di cultura massimalista, mentre i cambiamenti graduali, le rivoluzioni “dall’alto” e le “rivoluzioni passive” di cui parla Gramsci, funzionano sulla base del minimalismo democratico. I tre cicli democratici che ha conosciuto il secolo sarebbero stati impossibli senza lo schema massimalista di partecipazione. A volte il minimalismo è un impegno che accettano le forze conservatrici per frenare o sviare le dinamiche democratiche forti, per sostituirle con forme più “allegerite” e anche controllabili di cambiamento, forme che, una volta scemata la marea massimalista, possono essere smontate poco a poco senza troppi costi politici. La restaurazione politica del secondo postguerra mondiale, con la quale si è messo fine alle dinamiche democratiche che si stavano verificando in Francia, Italia o Germania verso il 1945, è un buon esempio di minimalismo democratico. Le rivolte nelle imprese e nelle università della fine degli anni Sessanta, il movimento dei soviets nella Russia rivoluzionaria o dei consigli di Soldati e Lavoratori nella Germania del 1918 o le ultime esperienze partecipative a Porto Alegre, sono tipici esempi della cultura massimalista.

Il massimalismo e il minimalismo non corrispondono però esattamente a partiti politici, ma piuttosto ad alcune correnti, “sensibilità” o culture al loro interno. Così, sia Antonio Gramsci che Amadeo Bordiga e Angelo Tasca erano comunisti, ma il primo mirava più ad una cultura massimalista mentre i secondi ritenevano che il “controllo operaio” si verificasse attraverso la creazione di uno Stato proletario centralizzato, più che attraverso la moltiplicazione delle iniziative di autogestione nelle imprese, considerate una dispersione inutile di forze e di mezzi rivoluzionari. Nel secondo postguerra mondiale, all’interno della democrazia cristiana italiana e tedesca, ma anche all’interno del gaullismo francese, fervevano sia i settori massimalisti che quelli minimalisti. I primi erano egemoici appena finita la guerra, i secondi finirono con imporsi all’interno dei rispettivi partiti grazie al cambiamento provocato dalla Guerra Fredda e dalle condizioni politiche imposte dai nordamericani. Allo stesso modo, intorno al 1970 esistevano settori all’interno della socialdemocrazia tedesca che avevano come obbiettivo quello di riformare lo Stato e la società tedesca “dall’alto”, applicando formule di tipo tecnocratico-keynesiano. Invece, altri settori all’interno del SPD, cercavano maggiormente l’alleanza con i nuovi movimenti extraparlamentari che stavano nascendo ovunque intorno ad una nuova cultura massimalista. La transizione spagnola è incominciata sulla base del massimalismo democratico, verso il 1978 la maggior parte delle forze politiche passò al minimalismo.


[1] In Fernández Steinko (2002) abbiamo delineato questi diversi cicli, con particolare riferimento alla Spagna, alla Russia, alla Germania, alla Gran Bretagna, alla Svezia e all’Italia.

[2] Fa eccezione la Gran Bretagna, paese dove intorno al 1925 il settore capitalista-moderno era già più importante del settore tradizionale.

[3] Naphtali (1977).

[4] Hecker (2001:342). In Fernández Steinko (2002:122ss.) forniamo più dettagli sul contesto in cui nacque e cercò di dare i suoi frutti quella strategia.

[5] Ver Gavron (2000).

[6] Schneider / Kuda: Studio introduttivo in: Naphtali (1977:45).

[7] Vedere il già classico lavoro di Mitchels (1991).