La proposta di Zoellick di eliminare completamente entro il
2015 le imposte sui manufatti. Il tentativo di rendere definitivo il doppio
privilegio degli USA: i benefici di uno scambio impari e le transazioni
internazionali nella propria moneta. La facoltà di arrestare l’importazione
secondo il grado di difficoltà generato. I limiti al libero scambio imposti
dalla politica nordamericana ed europea. L’illusione della fine degli aiuti
all’agricoltura. Il rafforzamento del mercato interno come risposta all’avanzamento
di quello periferico.
1. Generalità
La proposta divulgata nell’ultima settimana di novembre dal
Segretario del Commercio degli USA, Robert Zoellick, di arrivare ad eliminare
completamente, in maniera progressiva entro il 2015 e su scala planetaria le
imposte sui manufatti, deve per forza di cose farci riflettere. Potremo ad
esempio chiederci quali sono gli obiettivi non dichiarati di questo annuncio
così drastico, in un periodo in cui gli USA non sembrano essere particolarmente
propensi al libero scambio.
La riflessione potrebbe continuare su piani differenti ma lo
scopo di questa analisi, per una sua maggiore consistenza, sarà quello di
esaminare approfonditamente e valutare la proposta come tale. Il criterio
adottato lascia da parte interrogativi essenziali e legittimi come quello già
accennato. Ci si chiede ad esempio se questa non possa essere l’ennesima
manovra propagandistica statunitense attuata allo scopo di distogliere l’attenzione
da alcuni atteggiamenti protezionisti da essi perseguiti o magari il tentativo
di attestarsi su posizioni migliori nelle negoziazioni in corso nell’OMC (l’Organizzazione
Mondiale del Commercio) o sull’ALCA (l’Area di libero commercio delle
Americhe).
Per ben focalizzare il risultato di questa analisi bisogna
tener presenti alcuni importanti elementi di riferimento. Iniziamo ricordando
che la ricerca del libero scambio implica la volontà di esportare e al tempo
stesso importare di più, contrariamente alle tendenze protezioniste o ancor di
più a quel tipo di mercantilismo, che privilegia la prima a discapito della
seconda.
A quanto già detto si deve aggiungere un dato chiave: nel
sistema capitalista, l’impulso principale dell’economia proviene dal
mercato. Di conseguenza, la difficoltà principale da affrontare non è quella
di dover produrre, infatti il nodo gordiano da disfare è quello per cui si
rende necessario vendere quanto prodotto. Si tratta di una caratteristica
fondamentale e peculiare del sistema in cui viviamo. In tutt’altro contesto -
diverso dal nostro - lo stimolo viene dall’alto verso il basso e non
viceversa. In questo senso, ad esempio, in natura non è la dimensione del lago
a determinare la portata del fiume, ma è quest’ultimo che provoca in
definitiva la larghezza dello specchio d’acqua. Nel capitalismo avviene il
contrario.
Ci sembra che la proposta di Zoellick debba essere giudicata
all’interno di questo contesto. Una prospettiva di libero scambio entro il
2015, implica la considerazione che gli USA, con una economia più aperta,
possano essere in grado di comprare e vendere maggiormente nel resto del mondo.
Ma cosa significa questo, quando si parla dell’economia più potente del
mondo, ossia quella americana? Rispondere a questa domanda ci porta a
considerare un certo numero di caratteristiche che le sono proprie ma che non
sono esclusivamente sue.
2. Il possesso di palla
La caratteristica più evidente è quella che si tratta di un
paese sviluppato tra quelli più avanzati del pianeta. Questo presenta
importanti differenze a proprio favore sul piano dei salari; più o meno
proporzionali alle differenze nel grado di sviluppo rispetto alla maggioranza
dei paesi con il quale intrattiene rapporti commerciali.
Gli USA sono - tanto da controllare e muovere l’ago della
bilancia - il paese che emette la moneta internazionale, non soltanto perché il
dollaro americano è la moneta utilizzata nelle transazioni internazionali, ma
anche perché è sempre accettato come bene di scambio.
Gli Usa presentano una struttura commerciale con l’estero
in perenne deficit, imputabile alla loro responsabilità di inondare con nuove
liquidità (dollari di prima emissione) l’economia mondiale; anche se ciò non
è del tutto corretto, dal momento che esistono altre possibilità - prestiti
esteri, investimenti diretti all’estero, ecc. - che permettono di ottenere lo
stesso risultato.
Tenendo conto a grandi linee di queste caratteristiche la
prima peculiarità si traduce in ciò che l’economista greco A. Emmanuel
(1911-2001) ha definito come lo scambio impari, nel quale le nazioni povere
vendono a prezzi bassi semplicemente perché hanno bassi salari ma comprano a
prezzi più cari a causa degli alti salari delle nazioni ricche. Ne consegue che
si produce un trasferimento di valore dai primi verso i secondi, privando i più
di quella sostanza che gli consentirebbe un ritmo d’accumulazione sufficiente
a raggiungere un livello di sviluppo paragonabile a quello degli altri, ossia di
coloro che vivono nei paesi ricchi.
La seconda caratteristica da luogo a ciò che può essere
definito come una forma d’assoggettamento, vale a dire che in cambio della
moneta messa in circolazione a livello internazionale da un certo paese, a
compensazione del suo stesso debito, questo non sarà mai obbligato a cedere in
cambio beni, servizi o attività finanziarie per una somma equivalente. In
effetti, una certa quantità di questa moneta è utilizzata in transazioni tra
altri paesi nelle quali non è direttamente coinvolto o anche all’interno d’altre
economie, come nel caso della maggior parte dei paesi dell’America Latina.
Tuttavia bisogna considerare che la presenza di riserve in dollari consente
depositi remunerati dalle banche americane. Di conseguenza l’assoggettamento
è incrementato, anno dopo anno, solamente per effetto dell’aumento della
diffusione di dollari in circolazione al di fuori degli USA, oltre che per il
tasso d’interesse al quale sono remunerati i depositi in dollari nel resto del
mondo. La terza caratteristica non dipende esclusivamente dagli americani, dal
momento che nulla impedisce al resto del mondo di non comperare più dagli USA,
fatta eccezione per la quantità di dollari necessaria per comperare in altri
luoghi dove è più conveniente. Tuttavia, si sa che vi sono paesi, anche se non
è necessariamente il caso di quelli in via di sviluppo, che mantengono una
condotta simile a quella dell’avaro: accumulano riserve per consuetudine, come
nel caso del Giappone, di Hong Kong e come faceva la RFA.
In definitiva gli USA godono di un doppio privilegio: da un
lato quello di potersi appropriare d’una parte della ricchezza dei paesi con
cui commerciano grazie a quel meccanismo di mercato che genera uno scambio
impari. Dall’altro, la possibilità di effettuare transazioni internazionali
nella loro stessa moneta, vale a dire attraverso il loro stesso debito, gli
consente di mantenere uno status di deficit strutturale accettato da tutti,
senza che ciò comporti le stesse conseguenze a cui andrebbe incontro qualsiasi
altro paese che debba procurarsi il mezzo di pagamento necessario attraverso i
propri guadagni o con richieste di prestiti.
In ogni caso questo duplice processo indica - sembrerebbe
superfluo ricordarlo ma non sempre lo si tiene in considerazione nella giusta
misura - che gli USA vivono fino a un certo punto (in principio di pari entità
con il deficit), a spese del resto del mondo e che per giunta questo è lontano
dal lamentarsene; al contrario ciò che gli viene rimproverato è di non farne
maggiore abuso spendendo ancora di più.
3. Dare sfogo all’appetito
Dalle condizioni descritte sul reale funzionamento dell’economia
internazionale, appare chiaro perché una maggiore attività commerciale che
porti al libero scambio, si traduca in una maggiore richiesta di merci da parte
degli USA, senza un aumento dei costi reali per il colosso mondiale dell’economia.
Ma in realtà le cose sono di una complessità maggiore e il lettore potrebbe
chiedersi a questo punto: perché ciò non è stato proposto prima o ci si è
limitati ai soli manufatti?
Dicevamo all’inizio che il sistema capitalista è
condannato a vendere. A vendere e vendere sempre qualunque cosa anche a
qualsiasi prezzo. E ciò vale anche per gli USA. Anche se è vero che, secondo
la duplice situazione di privilegio in cui si trovano, le merci che importano
sono in numero maggiore rispetto a quelle che esportano verso il resto del mondo
e che hanno un tenore di vita superiore a quello avrebbero avuto se non ci fosse
stata l’iniquità di ricevere senza dare, anch’essi devono sottostare, come
tutti i sistemi capitalisti, al rischio di recessione completa o parziale per
alcuni settori specifici.
Importare tutto comporta potenzialmente uno spostamento della
produzione locale con conseguente diminuzione di posti di lavoro. Ma se il
fallimento del sistema sovietico o la riconversione al capitalismo selvaggio dei
figli di Mao testimoniano lo sbando del socialismo, o almeno di un certo tipo di
socialismo, non per questo la vecchia e cara lotta di classe è scomparsa dalla
scena mondiale. Questa stessa lotta di classe, che ha permesso durante la
seconda metà del XIX Secolo che i salari salissero nei paesi del Nord e che
rimanessero fermi al loro basso livello nei paesi del Sud, non termina oggi e
non terminerà neanche un domani quando saranno stravolti i posti di lavoro e
quando, nel caso auspicato con tanto fervore da alcuni settori periferici,
verranno regalate merci provenienti dall’estero.
Dunque, sebbene la mancanza di equità negli scambi -
diversità di valori e maggior deficit commerciale non sanzionabile - faciliti
la collaborazione tra classi e la pace sociale, il limite alle importazioni è
dato dall’obbligo del sistema di garantire una continuità nel sostentamento
della classe operaia organizzata e degli altri settori, come ad esempio agli
agricoltori. Il processo politico che guida il sistema capitalista nei paesi
sviluppati è fatto, nel bene e nel male, di questa materia, con contraddizioni
che possono portarlo a privarsi della possibilità di sfruttare oltre le sue
capacità la periferia; ciò comporta, per gli USA, di vivere ancora di più
sulle spalle del resto del mondo e del Terzo Mondo in particolare.
Questa impostazione chiarifica la logica della proposta di
Zoellick. Un commercio internazionale su scala più ampia permette, come
dicevamo, maggiori importazioni con conseguenti vantaggi, già accennati, per il
centro - anche se svantaggiosi per la periferia. Una maggiore importazione può
anche contribuire a mantenere l’occupazione. Ma se per caso, ad un certo
punto, ciò non si verificasse? L’obiezione sembra più che legittima, quando
si considera il carattere ciclico che caratterizza l’evoluzione delle economie
capitaliste. La risposta si trova nei testi e nella pratica del libero scambio,
almeno per quanto riguarda l’atteggiamento a cui gli USA ci hanno abituati.
Quando con un trattato si stabilisce un regime di libero
scambio questo si traduce in un abbassamento delle barriere doganali e in una
serie di disposizioni tendenti, all’inizio, ad evitare che altre barriere non
doganali vengano frapposte e limitino il commercio - norme tecniche,
igenico-sanitarie ad esempio - o che, al contrario, altri fattori facilitino lo
svilupparsi di una concorrenza sleale. Per contrastare quest’ultima si
stipulano generalmente clausole del tipo anti-dumping, sociale ed
ambientale.
Infine viene sempre data la possibilità di strappare una
clausola transitoria, detta di salvaguardia, che permetta di fare fronte ad un
eventuale importante squilibrio che si crei per una qualunque tipologia di bene.
In definitiva, quando la soluzione lo richiede vengono interrotte le
importazioni, a seconda delle difficoltà accorse. Ciò è quanto gli USA fanno
ogni giorno sempre più in maniera unilaterale, senza interpellare nessuno. Lo
hanno fatto ultimamente con l’acciaio, senza tener conto delle regole imposte
dall’OMC e con il Messico in ambito NAFTA per la circolazione dei camion
messicani all’interno degli USA. L’unica difficoltà, se la si può
considerare tale, è quella di dover scegliere il pretesto da utilizzare,
considerato che non ne manchi mai uno.
4. Il gioco interno
Resta ancora un ultimo punto che avevamo segnalato: perché
solamente i manufatti? Perché se i manufatti consentono il gioco descritto tra
libero scambio e protezionismo, l’agricoltura al contrario non concede alcun
margine. Gli USA in questo non sono diversi dai loro compagni della triade:
europei e giapponesi non rinunceranno mai alla protezione del settore agricolo.
Ciò per ragioni culturali, storiche e politiche. Quello che è in gioco qui è
l’identità culturale, la sicurezza alimentare e l’equilibrio rurale ed
urbano, oltre che allo stesso impiego in un settore in cui la produzione in ogni
azienda agricola è spesso organizzata - soprattutto nel caso europeo - in base
al nucleo familiare e dove il rapporto salariale è minoritario.
Sulla base di quanto accade, continuare a credere che i paesi
sviluppati prima o poi rinunceranno alle sovvenzioni sull’agricoltura e
apriranno i loro mercati ad altri prodotti agricoli, ricorda il “sogno del
ragazzino”, senza contare che in un certo senso può essere anche illegittimo.
Il fatto che le borghesie del Terzo Mondo si siano dimostrate fino ad ora
incapaci di avere un progetto nazionale di sviluppo non significa che si debba
scegliere lo stesso progetto adottato nei paesi sviluppati. Non è affatto
così.
La volontà di inserirsi in un contesto globale basandosi
sulle nozioni ricardiane dei vantaggi comparativi basati sui salari bassi e sui
prodotti primari, come vorrebbero i neoliberali dell’America Latina - e alcuni
settori che si dichiarano agli antipodi dei liberali - costituisce “l’errore”.
Si possono certo volere limitazioni minori per le eccedenze agricole del centro,
in modo da assicurare un funzionamento più normale del commercio agricolo
mondiale, ma l’importante è altro: rivalutare i salari, commerciare con paesi
allo stesso livello di sviluppo, privilegiare l’integrazione regionale,
diversificare le esportazioni e i mercati, sviluppare il mercato interno, anche
quando questo richiede un certo livello di protezione.