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Tendenze della competizione globale

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Claudio Jedlicki
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Ricercatore CNRS, Parigi

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Quando gli americani propongono il libero scambio

Claudio Jedlicki

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La proposta di Zoellick di eliminare completamente entro il 2015 le imposte sui manufatti. Il tentativo di rendere definitivo il doppio privilegio degli USA: i benefici di uno scambio impari e le transazioni internazionali nella propria moneta. La facoltà di arrestare l’importazione secondo il grado di difficoltà generato. I limiti al libero scambio imposti dalla politica nordamericana ed europea. L’illusione della fine degli aiuti all’agricoltura. Il rafforzamento del mercato interno come risposta all’avanzamento di quello periferico.

1. Generalità

La proposta divulgata nell’ultima settimana di novembre dal Segretario del Commercio degli USA, Robert Zoellick, di arrivare ad eliminare completamente, in maniera progressiva entro il 2015 e su scala planetaria le imposte sui manufatti, deve per forza di cose farci riflettere. Potremo ad esempio chiederci quali sono gli obiettivi non dichiarati di questo annuncio così drastico, in un periodo in cui gli USA non sembrano essere particolarmente propensi al libero scambio.

La riflessione potrebbe continuare su piani differenti ma lo scopo di questa analisi, per una sua maggiore consistenza, sarà quello di esaminare approfonditamente e valutare la proposta come tale. Il criterio adottato lascia da parte interrogativi essenziali e legittimi come quello già accennato. Ci si chiede ad esempio se questa non possa essere l’ennesima manovra propagandistica statunitense attuata allo scopo di distogliere l’attenzione da alcuni atteggiamenti protezionisti da essi perseguiti o magari il tentativo di attestarsi su posizioni migliori nelle negoziazioni in corso nell’OMC (l’Organizzazione Mondiale del Commercio) o sull’ALCA (l’Area di libero commercio delle Americhe).

Per ben focalizzare il risultato di questa analisi bisogna tener presenti alcuni importanti elementi di riferimento. Iniziamo ricordando che la ricerca del libero scambio implica la volontà di esportare e al tempo stesso importare di più, contrariamente alle tendenze protezioniste o ancor di più a quel tipo di mercantilismo, che privilegia la prima a discapito della seconda.

A quanto già detto si deve aggiungere un dato chiave: nel sistema capitalista, l’impulso principale dell’economia proviene dal mercato. Di conseguenza, la difficoltà principale da affrontare non è quella di dover produrre, infatti il nodo gordiano da disfare è quello per cui si rende necessario vendere quanto prodotto. Si tratta di una caratteristica fondamentale e peculiare del sistema in cui viviamo. In tutt’altro contesto - diverso dal nostro - lo stimolo viene dall’alto verso il basso e non viceversa. In questo senso, ad esempio, in natura non è la dimensione del lago a determinare la portata del fiume, ma è quest’ultimo che provoca in definitiva la larghezza dello specchio d’acqua. Nel capitalismo avviene il contrario.

Ci sembra che la proposta di Zoellick debba essere giudicata all’interno di questo contesto. Una prospettiva di libero scambio entro il 2015, implica la considerazione che gli USA, con una economia più aperta, possano essere in grado di comprare e vendere maggiormente nel resto del mondo. Ma cosa significa questo, quando si parla dell’economia più potente del mondo, ossia quella americana? Rispondere a questa domanda ci porta a considerare un certo numero di caratteristiche che le sono proprie ma che non sono esclusivamente sue.

2. Il possesso di palla

La caratteristica più evidente è quella che si tratta di un paese sviluppato tra quelli più avanzati del pianeta. Questo presenta importanti differenze a proprio favore sul piano dei salari; più o meno proporzionali alle differenze nel grado di sviluppo rispetto alla maggioranza dei paesi con il quale intrattiene rapporti commerciali.

Gli USA sono - tanto da controllare e muovere l’ago della bilancia - il paese che emette la moneta internazionale, non soltanto perché il dollaro americano è la moneta utilizzata nelle transazioni internazionali, ma anche perché è sempre accettato come bene di scambio.

Gli Usa presentano una struttura commerciale con l’estero in perenne deficit, imputabile alla loro responsabilità di inondare con nuove liquidità (dollari di prima emissione) l’economia mondiale; anche se ciò non è del tutto corretto, dal momento che esistono altre possibilità - prestiti esteri, investimenti diretti all’estero, ecc. - che permettono di ottenere lo stesso risultato.

Tenendo conto a grandi linee di queste caratteristiche la prima peculiarità si traduce in ciò che l’economista greco A. Emmanuel (1911-2001) ha definito come lo scambio impari, nel quale le nazioni povere vendono a prezzi bassi semplicemente perché hanno bassi salari ma comprano a prezzi più cari a causa degli alti salari delle nazioni ricche. Ne consegue che si produce un trasferimento di valore dai primi verso i secondi, privando i più di quella sostanza che gli consentirebbe un ritmo d’accumulazione sufficiente a raggiungere un livello di sviluppo paragonabile a quello degli altri, ossia di coloro che vivono nei paesi ricchi.

La seconda caratteristica da luogo a ciò che può essere definito come una forma d’assoggettamento, vale a dire che in cambio della moneta messa in circolazione a livello internazionale da un certo paese, a compensazione del suo stesso debito, questo non sarà mai obbligato a cedere in cambio beni, servizi o attività finanziarie per una somma equivalente. In effetti, una certa quantità di questa moneta è utilizzata in transazioni tra altri paesi nelle quali non è direttamente coinvolto o anche all’interno d’altre economie, come nel caso della maggior parte dei paesi dell’America Latina. Tuttavia bisogna considerare che la presenza di riserve in dollari consente depositi remunerati dalle banche americane. Di conseguenza l’assoggettamento è incrementato, anno dopo anno, solamente per effetto dell’aumento della diffusione di dollari in circolazione al di fuori degli USA, oltre che per il tasso d’interesse al quale sono remunerati i depositi in dollari nel resto del mondo. La terza caratteristica non dipende esclusivamente dagli americani, dal momento che nulla impedisce al resto del mondo di non comperare più dagli USA, fatta eccezione per la quantità di dollari necessaria per comperare in altri luoghi dove è più conveniente. Tuttavia, si sa che vi sono paesi, anche se non è necessariamente il caso di quelli in via di sviluppo, che mantengono una condotta simile a quella dell’avaro: accumulano riserve per consuetudine, come nel caso del Giappone, di Hong Kong e come faceva la RFA.

In definitiva gli USA godono di un doppio privilegio: da un lato quello di potersi appropriare d’una parte della ricchezza dei paesi con cui commerciano grazie a quel meccanismo di mercato che genera uno scambio impari. Dall’altro, la possibilità di effettuare transazioni internazionali nella loro stessa moneta, vale a dire attraverso il loro stesso debito, gli consente di mantenere uno status di deficit strutturale accettato da tutti, senza che ciò comporti le stesse conseguenze a cui andrebbe incontro qualsiasi altro paese che debba procurarsi il mezzo di pagamento necessario attraverso i propri guadagni o con richieste di prestiti.

In ogni caso questo duplice processo indica - sembrerebbe superfluo ricordarlo ma non sempre lo si tiene in considerazione nella giusta misura - che gli USA vivono fino a un certo punto (in principio di pari entità con il deficit), a spese del resto del mondo e che per giunta questo è lontano dal lamentarsene; al contrario ciò che gli viene rimproverato è di non farne maggiore abuso spendendo ancora di più.

3. Dare sfogo all’appetito

Dalle condizioni descritte sul reale funzionamento dell’economia internazionale, appare chiaro perché una maggiore attività commerciale che porti al libero scambio, si traduca in una maggiore richiesta di merci da parte degli USA, senza un aumento dei costi reali per il colosso mondiale dell’economia. Ma in realtà le cose sono di una complessità maggiore e il lettore potrebbe chiedersi a questo punto: perché ciò non è stato proposto prima o ci si è limitati ai soli manufatti?

Dicevamo all’inizio che il sistema capitalista è condannato a vendere. A vendere e vendere sempre qualunque cosa anche a qualsiasi prezzo. E ciò vale anche per gli USA. Anche se è vero che, secondo la duplice situazione di privilegio in cui si trovano, le merci che importano sono in numero maggiore rispetto a quelle che esportano verso il resto del mondo e che hanno un tenore di vita superiore a quello avrebbero avuto se non ci fosse stata l’iniquità di ricevere senza dare, anch’essi devono sottostare, come tutti i sistemi capitalisti, al rischio di recessione completa o parziale per alcuni settori specifici.

Importare tutto comporta potenzialmente uno spostamento della produzione locale con conseguente diminuzione di posti di lavoro. Ma se il fallimento del sistema sovietico o la riconversione al capitalismo selvaggio dei figli di Mao testimoniano lo sbando del socialismo, o almeno di un certo tipo di socialismo, non per questo la vecchia e cara lotta di classe è scomparsa dalla scena mondiale. Questa stessa lotta di classe, che ha permesso durante la seconda metà del XIX Secolo che i salari salissero nei paesi del Nord e che rimanessero fermi al loro basso livello nei paesi del Sud, non termina oggi e non terminerà neanche un domani quando saranno stravolti i posti di lavoro e quando, nel caso auspicato con tanto fervore da alcuni settori periferici, verranno regalate merci provenienti dall’estero.

Dunque, sebbene la mancanza di equità negli scambi - diversità di valori e maggior deficit commerciale non sanzionabile - faciliti la collaborazione tra classi e la pace sociale, il limite alle importazioni è dato dall’obbligo del sistema di garantire una continuità nel sostentamento della classe operaia organizzata e degli altri settori, come ad esempio agli agricoltori. Il processo politico che guida il sistema capitalista nei paesi sviluppati è fatto, nel bene e nel male, di questa materia, con contraddizioni che possono portarlo a privarsi della possibilità di sfruttare oltre le sue capacità la periferia; ciò comporta, per gli USA, di vivere ancora di più sulle spalle del resto del mondo e del Terzo Mondo in particolare.

Questa impostazione chiarifica la logica della proposta di Zoellick. Un commercio internazionale su scala più ampia permette, come dicevamo, maggiori importazioni con conseguenti vantaggi, già accennati, per il centro - anche se svantaggiosi per la periferia. Una maggiore importazione può anche contribuire a mantenere l’occupazione. Ma se per caso, ad un certo punto, ciò non si verificasse? L’obiezione sembra più che legittima, quando si considera il carattere ciclico che caratterizza l’evoluzione delle economie capitaliste. La risposta si trova nei testi e nella pratica del libero scambio, almeno per quanto riguarda l’atteggiamento a cui gli USA ci hanno abituati.

Quando con un trattato si stabilisce un regime di libero scambio questo si traduce in un abbassamento delle barriere doganali e in una serie di disposizioni tendenti, all’inizio, ad evitare che altre barriere non doganali vengano frapposte e limitino il commercio - norme tecniche, igenico-sanitarie ad esempio - o che, al contrario, altri fattori facilitino lo svilupparsi di una concorrenza sleale. Per contrastare quest’ultima si stipulano generalmente clausole del tipo anti-dumping, sociale ed ambientale.

Infine viene sempre data la possibilità di strappare una clausola transitoria, detta di salvaguardia, che permetta di fare fronte ad un eventuale importante squilibrio che si crei per una qualunque tipologia di bene. In definitiva, quando la soluzione lo richiede vengono interrotte le importazioni, a seconda delle difficoltà accorse. Ciò è quanto gli USA fanno ogni giorno sempre più in maniera unilaterale, senza interpellare nessuno. Lo hanno fatto ultimamente con l’acciaio, senza tener conto delle regole imposte dall’OMC e con il Messico in ambito NAFTA per la circolazione dei camion messicani all’interno degli USA. L’unica difficoltà, se la si può considerare tale, è quella di dover scegliere il pretesto da utilizzare, considerato che non ne manchi mai uno.

4. Il gioco interno

Resta ancora un ultimo punto che avevamo segnalato: perché solamente i manufatti? Perché se i manufatti consentono il gioco descritto tra libero scambio e protezionismo, l’agricoltura al contrario non concede alcun margine. Gli USA in questo non sono diversi dai loro compagni della triade: europei e giapponesi non rinunceranno mai alla protezione del settore agricolo. Ciò per ragioni culturali, storiche e politiche. Quello che è in gioco qui è l’identità culturale, la sicurezza alimentare e l’equilibrio rurale ed urbano, oltre che allo stesso impiego in un settore in cui la produzione in ogni azienda agricola è spesso organizzata - soprattutto nel caso europeo - in base al nucleo familiare e dove il rapporto salariale è minoritario.

Sulla base di quanto accade, continuare a credere che i paesi sviluppati prima o poi rinunceranno alle sovvenzioni sull’agricoltura e apriranno i loro mercati ad altri prodotti agricoli, ricorda il “sogno del ragazzino”, senza contare che in un certo senso può essere anche illegittimo. Il fatto che le borghesie del Terzo Mondo si siano dimostrate fino ad ora incapaci di avere un progetto nazionale di sviluppo non significa che si debba scegliere lo stesso progetto adottato nei paesi sviluppati. Non è affatto così.

La volontà di inserirsi in un contesto globale basandosi sulle nozioni ricardiane dei vantaggi comparativi basati sui salari bassi e sui prodotti primari, come vorrebbero i neoliberali dell’America Latina - e alcuni settori che si dichiarano agli antipodi dei liberali - costituisce “l’errore”. Si possono certo volere limitazioni minori per le eccedenze agricole del centro, in modo da assicurare un funzionamento più normale del commercio agricolo mondiale, ma l’importante è altro: rivalutare i salari, commerciare con paesi allo stesso livello di sviluppo, privilegiare l’integrazione regionale, diversificare le esportazioni e i mercati, sviluppare il mercato interno, anche quando questo richiede un certo livello di protezione.