Ancora una riforma delle pensioni tra crisi fiscale e attacco al salario
Vladimiro Giacché
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1. La riforma delle pensioni: a cosa NON serve
Il Governo Berlusconi ha lanciato l’assalto definitivo
alla previdenza pubblica. È un attacco che deve essere contrastato e battuto
“senza se e senza ma”. Per farlo, però, bisogna avere le idee chiare
innanzitutto su un punto: la riforma della previdenza non è per nulla
necessaria, come hanno ben evidenziato R.Martufi e L. Vasapollo nel loro
“Le pensioni a fondo” (Mediaprint ediz., Roma, 2000), che
costituisce un testo importante di riferimento anche per le osservazioni fatte
in questo articolo.
O meglio: non è necessaria per nessuno dei motivi che
governo, Confindustria ed opinionisti al seguito, continuano a riproporre.
Infatti:
a) Non è vero che la spesa previdenziale è insostenibile
Se l’INPS oggi è in passivo (peraltro non drammatico) lo
si deve a cause ben diverse dall’”insostenibilità” della spesa
previdenziale. Storicamente, il sistema previdenziale pubblico italiano è
infatti stato caricato di oneri impropri, a cominciare dalle spese per l’assistenza.
L’assistenza (pensioni sociali, di invalidità, ecc.) dovrebbe gravare
direttamente sulla fiscalità generale. Il fatto che tali spese gravino invece
sull’INPS non soltanto costituisce una grave ingiustizia (in questo modo,
infatti, i percettori di redditi da capitale semplicemente non contribuiscono
a questo tipo di spese sociali), ma contribuisce a falsare i dati reali sull’equilibrio
dei conti dell’INPS.
Ma c’è di più. L’INPS è stata caricata di ulteriori
oneri impropri ancora di recente, e precisamente con la legge finanziaria
dello scorso anno, in cui fu inserita la confluenza dell’INPDAI nell’INPS.
Ora, l’INPDAI (Istituto previdenziale dei dirigenti industriali), a
differenza dell’INPS, all’epoca era in rosso (il buco era stato nel 2001
di 772 milioni di euro; nel 2002 di 900, e nel 2003 avrebbe raggiunto i 1.200
milioni di euro di passivo). Questo perchè già allora 83 mila dirigenti in
attività pagavano le pensioni di 90 mila dirigenti a riposo (mentre per l’INPS
il rapporto tra lavoratori attivi e pensionati è di 1,3). [1]
Tale squilibrio è aggravato dal fatto che si trattava (e si tratta) di
pensioni elevate: 38 mila euro in media all’anno.
L’effetto concreto della confluenza dell’INPDAI nell’INPS
è stato quello di mandare in rosso i conti dell’INPS. [2]
Morale della favola: lo stesso Tremonti che oggi propone la controriforma
delle pensioni per “risolvere la crisi dell’INPS”, un anno fa questa
crisi l’ha creata!
b) Non è vero che la spesa previdenziale diventerà insostenibile nel 2030
La spesa previdenziale in rapporto al prodotto interno
lordo italiano sarà nel 2030 (l’anno in cui sarà più elevata) pari al
15,7%. È una percentuale inferiore a quella di Grecia, Francia, Austria,
sostanzialmente pari a quella della Germania e di poco inferiore a quella di
Danimarca e Finlandia. [3] Si tratta
di una percentuale tutt’altro che “insostenibile”, in presenza di una
politica fiscale adeguata. Tra l’altro, un sondaggio recente (ultimamente i
sondaggi danno qualche grattacapo al Cavaliere...) ha evidenziato che una
larga maggioranza della popolazione sarebbe disponibile a tollerare un
maggiore prelievo fiscale se questo consentisse di erogare pensioni dignitose.
c) Non è vero che l’allungamento delle aspettative di vita e la
denatalità mettono in crisi il sistema pensionistico
Questo pseudoragionamento, pur essendo molto diffuso, è
completamente sbagliato in termini economici: infatti, siccome la
produttività del lavoro cresce in media dell’1-2% all’anno, col passare
del tempo sarà perfettamente possibile sostenere un numero maggiore di
pensionati da parte di chi lavora. A patto, ovviamente, che il maggiore valore
aggiunto non finisca tutto ai profitti. [4]
Non solo. Per quanto riguarda in particolare il “problema
delle culle vuote”, abbiamo a che fare con un argomento tanto assurdo da
risultare ridicolo.
In primo luogo, le “culle piene” significano in primo
luogo risorse assorbite: e quindi le culle vuote rendono disponibili
risorse per altri impieghi, tra cui il mantenimento degli anziani. Come ha
osservato di recente Giovanni Mazzetti, “se pensiamo che intorno al 2050
avremo in Italia circa 5 milioni in meno di persone con età compresa tra i
0-25 anni, rispetto a oggi, e che ci saranno circa 6 milioni di
ultrassessantacinquenni in più, è evidente che non c’è alcun
peggioramento delle forme di dipendenza”.
In secondo luogo, per pagare le pensioni a qualcuno non è
sufficiente essere nati, ma bisogna, una volta arrivati in età da
lavoro, riuscire effettivamente a lavorare regolarmente. Da questo
punto di vista, preoccuparsi della denatalità in una situazione in cui
abbiamo 2 milioni e mezzo di disoccupati e milioni di sottoccupati, è
veramente una bestialità. [5]
Infine, non è scritto da nessuna parte che solo i figli
possano pagare le pensioni agli anziani. In altri termini, la “crisi
delle nascite” non sarebbe un problema se si consentisse agli immigrati di
entrare liberamente nel nostro Paese e si dessero loro lavori regolari (tutto
il contrario, cioè, del prenderli a cannonate, come ha proposto tempo fa l’orrorevole
Bossi, leader dell’attuale partito di riferimento di Tremonti): in tal caso,
infatti, semplicemente, i contributi previdenziali li pagherebbero loro e chi
li assume. È decisamente curioso che tale possibilità - tanto ovvia da
essere banale - in generale non venga neppure presa in considerazione.
[6]
d) Non è vero che la riforma pensionistica garantirà le pensioni future
ai giovani
È vero il contrario. Siccome tra i provvedimenti previsti
dal governo nel “decretone” vi è la decontribuzione (sino a 5
punti percentuali!) degli oneri pensionistici a carico delle imprese per i
nuovi assunti, e siccome le pensioni di chi inizia a lavorare ora saranno
calcolate in base ai contributi versati, i trattamenti pensionistici per i
giovani saranno più bassi a seguito della “riforma”. Inoltre, già
da subito diminuiranno le risorse destinate al pagamento delle pensioni,
aumentando le difficoltà del sistema pensionistico: in pochi anni, le entrate
a tale riguardo diminuiranno in misura dello 0,8% del PIL. Questi soldi in
meno per l’INPS saranno soldi in più nelle tasche dei padroni: già a
partire dal 2004, infatti, le imprese risparmieranno 5 mila miliardi di lire;
e nel 2010, quando il nuovo sistema entrerà a regime, il risparmio per le
imprese sarà di 25 mila miliardi di lire all’anno. Per contro, il debito
patrimoniale dell’INPS causato dalla decontribuzione sarà giunto ai
60-70 mila miliardi di lire.
Di fatto, la decontribuzione ha due sole conseguenze
possibili: o si ridurrà (ulteriormente) il valore delle pensioni erogate, o
si porrà la decontribuzione a carico del bilancio pubblico (vanificando i
risparmi che oggi vengono sbandierati). Nel primo caso, i soldi risparmiati
dalle imprese in termini di minori contributi saranno “pagati” dai
lavoratori con una perdita secca del valore delle pensioni (una perdita di
circa il 16-17%); nel secondo, saranno pagati dallo Stato. [7]
e) Non è vero che la previdenza integrativa garantirà
pensioni dignitose
Come ha ricordato un esperto come Beppe Scienza, professore
di matematica all’università di Torino, “l’immeritato successo della
previdenza integrativa si basa su un cumulo di frottole. La prima di queste è
la pretesa sicurezza che offrirebbero tali formule. Questa sicurezza è solo
sulla carta. Assai più valide sono invece le garanzie offerte dal sistema
previdenziale pubblico, oggetto di continue critiche infondate e chiaramente
interessate.” In primo luogo, infatti, per essere sicuri dell’investimento
effettuato con la previdenza integrativa bisognerebbe avere sicurezze sulla
solvibilità delle assicurazioni tra 10-20 anni, cosa impossibile (è infatti
statisticamente probabile che molte di esse falliscano nel lungo termine). In
secondo luogo, “diverse polizze vita rivalutabili, che da alcuni lustri
vengono rifilate agli italiani, sono scelte autolesioniste anche a prescindere
dai rischi d’insolvenza delle compagnie di assicurazioni. Infatti basta fare
quattro conti e si vede come le polizze rivalutabili, ...conducono
strutturalmente a ottenere mediamente meno che investendo direttamente negli
stessi mercati dove vengono messi i soldi delle compagnie d’assicurazione.”
Che fare, allora? L’intervistato non ha dubbi: “in linea di principio la
migliore difesa è ...scappare via in fretta, riscattando le polizze, e
riprendere così il controllo dei propri risparmi”. [i]
Per convincersi che non si tratta di giudizi pessimistici
è sufficiente considerare che dal 1999 al 2002 il valore dei fondi pensione a
livello mondiale si è ridotto di qualcosa come 2.800 miliardi di dollari.
Negli USA la perdita media per ciascuna famiglia americana che si è affidata
ai fondi pensione è stata del 43% (ossia quasi la metà delle somme
investite). Quanto alla Gran Bretagna, nel settembre scorso le perdite dei
fondi pensione aziendali inglesi ammontavano a qualcosa come 49 miliardi di
sterline. [8]
f) Non è vero che il trasferimento del TFR ai fondi pensione sia
conveniente per i lavoratori
Il trasferimento obbligatorio del TFR alle pensioni
integrative rappresenta uno degli aspetti più gravi del “decretone”
Tremonti. Con il trasferimento forzoso del TFR ai fondi pensione si avrà tra
l’altro il risultato che chi cambia professione (o viene licenziato) non
riceverà più il trattamento di fine rapporto maturato fino ad allora; il TFR
rimarrà nel fondo pensione e sarà quindi indisponibile per il lavoratore
sino al momento di andare in pensione. La cosa è tanto più grave se si pensa
che il TFR è a tutti gli effetti salario differito, e in quanto tale
soltanto i lavoratori dovrebbero poter decidere come disporne (anche su tale
argomento molto ricco è il testo di Martufi e Vasapollo).
Ma non si tratta “soltanto” di una questione di
principio. C’è anche un problema di convenienza economica: basti pensare
che fra il 1° gennaio 2000 e il 30 giugno 2003 il rendimento complessivo del
TFR è stato del 14%, a fronte del + 1,7% [!] dei fondi pensione chiusi, e del
-13,9% [!!] dei fondi pensione aperti. [9]
Insomma: tutto si può dire tranne che per i lavoratori il
trasferimento del TFR ai fondi pensione sia vantaggioso. Per qualcun altro,
però, il vantaggio ci sarà eccome: si tratta delle società di gestione del
risparmio e delle società assicurative. In particolare queste ultime. Ma
quali saranno le compagnie più avvantaggiate? Federico Salerno,
analista finanziario di Ubm (Gruppo Unicredito), non ha dubbi: “Sicuramente
Alleanza e Mediolanum, dove il settore Vita pesa per il 100% del totale
raccolto, senza dimenticare che sono anche le uniche due compagnie che offrono
polizze di lunga durata”. [10] Ovviamente, il fatto
che Mediolanum faccia capo al signor Berlusconi è una semplice coincidenza...
2. Cui prodest? Le pensioni come merce di scambio
Se i motivi che Berlusconi, Tremonti & Soci adducono
per motivare la “necessità” della loro ulteriore riforma delle pensioni
sono così inconsistenti come abbiamo visto, quali sono allora i motivi veri?
È presto detto: l’attacco alle pensioni serve per coprire la crisi
fiscale dello Stato. I conti pubblici sono in una situazione drammatica,
grazie alla politica fiscale del governo Berlusconi. E allora il nuovo assalto
alle pensioni diventa necessario. A un duplice riguardo.
In primo luogo, è una merce di scambio per ottenere un
alleggerimento del Trattato di Maastricht (così da poter sforare il tetto
del deficit pubblico), anche a fronte di una finanziaria inadeguata a
garantire nuove entrate strutturali. Questo primo motivo è stato formulato in
maniera esplicita da Tremonti: “una Finanziaria leggera e una riforma delle
pensioni pesante”. [11] Ossia: invece di far
pagare le tasse a chi le evade, continuo con i condoni ma offro all’Europa
una stretta sulle pensioni. Il risultato si equivale. Salvo che in questo modo
sono i lavoratori che pagano la bolletta indirizzata a qualcun altro.
In secondo luogo, serve ad evitare che le agenzie di
rating internazionali declassino il debito italiano. Questo motivo è
stato riportato con estrema chiarezza da un settimanale finanziario: “senza
la riforma delle pensioni le agenzie di rating Standard & Poor’s e Moody’s
avrebbero declassato il credito paese dell’Italia, facendo salire
enormemente il costo del debito pubblico, cioè degli interessi che lo Stato
deve pagare ai sottoscrittori di Bot e Cct”. [12] In effetti, già da mesi si parla di un probabile
declassamento del debito italiano a causa della politica fiscale del governo.
Ed è chiaro che questo declassamento darebbe il colpo definitivo alla
credibilità, già ridotta al lumicino, di Berlusconi & C.
[1] Fra l’altro i
dirigenti (anche a causa delle numerose crisi aziendali in atto) usufruiscono
in misura massiccia dei prepensionamenti: quest’anno questa modalità di
pensionamento nel loro caso è stata pari al 60,7% del totale (cfr. D. Pirone,
“Pensione d’anzianità, ai manager piace di più”, il Messaggero, 7/9/2003).
[2] Vedi in proposito
le dichiarazioni del presidente del Civ-INPS: “Smolizza: ‘Ecco perché
l’INPS va male’”, in Finanza & Mercati, 13/8/2003.
[3] Fonte: Comitato di politica economica UE.
[4] Questo ragionamento è svolto con la
consueta lucidità da L. Gallino, “Le variabili nascoste nella riforma
delle pensioni”, la Repubblica, 8/7/2003 e da R.Martufi e L. Vasapollo
“Le pensioni a fondo”, op. cit.
[5] Intervista di P. Andruccioli a G. Mazzetti, il
manifesto, 18/10/2003.
[6] Questo accade non solo da noi, ma anche in altri Paesi europei. V. S.
Gaschke, “Wo sind die Kinder? Im Land der Egoisten: Kein Nachwuchs, keine
Rente [sic!]”, Die Zeit, 14/8/2003. Analoghe posizioni si sono
potute leggere di recente sull’Economist.
[7] Cfr. F. R.
Pizzuti, “Pensioni più povere e investimenti all’estero”, il
manifesto, 8/10/2003; A. Mazzieri, “Togliere ai poveri per dare ai
ricchi: ecco la legge di Berlusconi per riscrivere lo stato sociale”, la
Rinascita, 17/10/2003; anche su queste argomentazioni si veda R.Martufi e
L. Vasapollo “Le pensioni a fondo”, op. cit.
[i] Bloomberg
Investimenti, 28/9/2002.
[8] Le stime sugli USA sono della società di revisione Watson Wyatt:
vedi F. Capozzi, “Il caso California: che aiuto ad Arnie dal Calpers in
crisi”, Borsa & Finanza, 11/10/2003. Quelle relative al Regno Unito
sono tratte dal settimanale di “Fund management” del Financial
Times, 29/9/2003.
[9] Dati riportati in R.E. Bagnoli, “Fondi
e Tfr, trasferimento sotto tutela”, CorrierEconomia, 22/9/2003.
[10] C. Conti, “Alleanza e Mediolanum le ‘baciate’
dalla riforma”, Borsa & Finanza, 11/10/2003.
[11] Cfr. “Tremonti, missione Ecofin - la riforma
basterà all’Europa”, il Riformista, 4/10/2003.
[12] Editoriale del settimanale Milano
Finanza, 4/10/2003.