La scialuppa del Titanic. Dalla crisi ai servizi pubblici: il punto d’approdo delle grandi famiglie del capitalismo italiano
Vladimiro Giacché
|
Stampa |
“Nell’ultimo decennio del secolo Ventesimo l’Italia
ha perso la sua grande industria manifatturiera”
(M. Mucchetti, Licenziare i padroni?, Milano, Feltrinelli, 2003, p. 160)
“La grande stagione delle privatizzazioni ha sì lasciato
la gran parte delle attività dismesse in mani italiane, ma a costo di
indebolire lo slancio competitivo di importanti pezzi dell’industria,
offrendo occasioni di più facili profitti”
(Giangiacomo Nardozzi, Il Sole 24 ore, 20/10/2002)
1. Prologo in Borsa
“A scorrere l’elenco delle società via via ammesse al
listino azionario della Borsa milanese, è possibile ripercorrere le tappe
evolutive del capitalismo italiano e dei suoi maggiori protagonisti dall’Unità
fino ai nostri giorni. Attraverso la successione delle imprese e dei loro
settori di attività si osserva il passaggio dal capitalismo bancario e
ferroviario degli ultimi decenni dell’Ottocento a quello tipico della seconda
rivoluzione industriale - basato su siderurgia, metalmeccanica e chimica - dell’Italia
giolittiana; si coglie il consolidarsi di quello elettrico durante il primo
dopoguerra - quando Milano è oramai la piazza mobiliare di riferimento per il
Paese - e l’emergere della presenza dello Stato dopo la crisi degli anni
Trenta; si vede il successo del capitalismo metalmeccanico-energetico degli anni
del miracolo economico e l’avvio, dopo la nazionalizzazione del comparto
elettrico, di quello chimico a metà tra pubblico e privato; si percepisce,
forse meglio che da qualsiasi altro osservatorio, la tendenza dell’élite del
capitalismo italiano a esercitare, dalla crisi petrolifera del 1973, sempre meno
l’industria e sempre più la finanza, intesa non come mezzo per sostenere la
crescita della produzione, ma come attività a sé stante, vera e propria ’industria’
capace di realizzare nelle sue operazioni la parte principale dei profitti; si
svela infine la logica finanziaria, che in questo scorcio di secolo, fa da
sfondo a molti dei processi di privatizzazione delle grandi imprese pubbliche
italiane”. [1]
Il passo ora citato, tratto da uno dei migliori studi di
sintesi sulle vicende della Borsa italiana, merita di essere letto con grande
attenzione, soprattutto nella sua ultima parte. In primo luogo perché inquadra
con precisione il processo di abbandono della grande industria da parte
delle principali dinastie imprenditoriali italiane, e ne data (correttamente) l’inizio
agli anni Settanta. È in questi anni che - come si legge più avanti nello
stesso saggio - “molte grandi imprese - ma il fenomeno fu
internazionale - iniziano a potenziare le unità specializzate nell’intermediazione
finanziaria; intervenendo direttamente in operazioni di arbitraggio e sui
titoli, esse ’contaminano’ [sic] i loro profitti con elementi
propri di altre forme di reddito (interesse, guadagni speculativi) e l’apporto
della gestione extra-industriale al risultato operativo diventa sempre
crescente, contribuendo a spostare gli obiettivi primari dalla produzione alla
massa di manovra disponibile per gli interventi di breve impegno e di molta resa”.
[2] In altri termini, in questi
anni inizia la sostituzione della produzione industriale con speculazioni
finanziarie quale mezzo per realizzare profitti. Il motivo di questo fenomeno,
di cui l’autore giustamente sottolinea il carattere internazionale, è dato
dalla crisi di sovrapproduzione e di accumulazione del capitale che dagli anni
Settanta si prolunga sino ai nostri giorni (e che in Italia ha avuto effetti
particolarmente devastanti sul tessuto produttivo). È in questo contesto che le
grandi famiglie del capitalismo italiano imboccano la strada della “finanziarizzazione”.
In un senso molto concreto: a partire da quegli anni, molte società prima a
carattere industriale vengono trasformate in società finanziarie che, “più
che dirette a reperire risorse” per le attività industriali dei gruppi di
appartenenza, appaiono “volte a realizzare vantaggi di tipo speculativo” in
quanto tali. [3] Sfogliando l’elenco delle società quotate alla
Borsa di Milano si può toccare con mano l’entità di questa trasformazione.
Così, nel solo 1973 sono quotate in borsa, con funzione di holding
finanziarie: la Concerie Italiane Riunite (CIR; nel 1976 verrà acquisita dal
gruppo De Benedetti e denominata Compagnie Industriali Riunite); la Gilardini
Industriale, costituita nel 1905, e venuta in possesso di De Benedetti (nel 1976
passerà a Fiat, e nel 2000 sarà incorporata nella Magneti Marelli); la
Nazionale Partecipazioni Finanziaria; la Riva Finanziaria, nata il 1946 come
Simic; l’Acqua Marcia, costituita nel 1867 (ora fa parte del Gruppo
Caltagirone). Negli anni successivi sarà la volta della Finrex (1974) e delle
Terme Demaniali di Acqui (1978). Negli anni Ottanta avremo l’Italmobiliare
(1980), Gemina (1981), Cofide (1985), Cam Finanziaria e Sogefi (1986), Ferruzzi
Finanziaria (1988) e Franco Tosi (1989). Negli anni Novanta, il definitivo
svuotamento di Olivetti e la sua trasformazione in scatola finanziaria. In quasi
tutti questi casi, si tratta di ex società manifatturiere trasformate in
veicoli per operazioni finanziarie. Esse portano non di rado impressa nel loro
stesso nome la storia di una radicale metamorfosi del capitalismo italiano. Una
metamorfosi che ha condotto le imprese finanziarie italiane a pesare sulla
capitalizzazione di borsa per qualcosa come il 37% (a fronte del 15% della
Francia, del 25% del Regno Unito, del 30% della Germania - dove pure le banche
hanno storicamente un peso significativo in borsa). [4]
Ma veniamo al secondo motivo di interesse del brano citato in
apertura: in esso si accenna, fuori dagli schemi consueti, al processo di
privatizzazione delle imprese pubbliche, ponendo l’accento sulla “logica
finanziaria” (e non “industriale”) che lo ha ispirato. Si tratta di un’affermazione
pienamente condivisibile. Ma è possibile fare un passo avanti, e mostrare come
il processo di abbandono dell’industria da parte del grande capitale italiano
e processo di privatizzazione delle aziende pubbliche siano strettamente legati.
E precisamente nel senso che le privatizzazioni hanno consentito di portare a
compimento il processo di abbandono della grande industria da parte del ’gotha’
del capitalismo italiano. È quanto si cercherà di dimostrare in queste
pagine.
2. Addio alla grande industria: le cifre della crisi
Cominciamo dalla fine, ossia dalla situazione attuale.
Parlare di “addio alla grande industria” può sembrare eccessivo. Ma le cose
stanno proprio così. Ce lo conferma la più recente indagine condotta da
Mediobanca sulle imprese multinazionali. Cominciamo con le dimensioni: su
274 multinazionali mondiali, le 18 principali multinazionali tedesche nel 2001
hanno fatturato 737 miliardi di euro; le 24 francesi, 478 miliardi di euro; le
15 italiane, 170 miliardi di euro. Tra esse, di dimensione comparabile agli
omologhi europei sono soltanto Fiat [e i dati si riferiscono ad un periodo
precedente l’aggravarsi della crisi], Eni [che è controllata dallo Stato] e
Telecom [che è una società di servizi e non manifatturiera]. E veniamo all’occupazione:
le multinazionali tedesche impiegano 2.700.000 lavoratori, quelle francesi
1.900.000, le nostre appena 600.000. Quanto ai settori, se a livello
mondiale il 31,4%, circa un terzo del fatturato delle multinazionali, è
prodotto nei due settori più avanzati, elettronica e chimica, per quanto
riguarda l’Italia soltanto l’1,1% del fatturato proviene dall’elettronica,
e solo il 3% dalla chimica (4,1% in tutto). Non è finita. Gli utili prodotti
da queste società sono decisamente miseri: soltanto 3 multinazionali italiane
su 15 (Italcementi, Eni e Telecom) hanno avuto buoni risultati nel 2001. In
compenso, le imprese italiane hanno, a parte l’Eni, debiti elevati e capitale
proprio scarso. Inoltre, sono all’ultimo posto nelle spese per
ricerca e sviluppo, a cui destinano soltanto il 2,4% del fatturato (contro
il 3,7% della media europea, il 4,7% degli USA, ed il 5,7% del Giappone). L’unica
cosa in cui i capitalisti nostrani sono imbattibili è la capacità di tenere
basso il costo della forza-lavoro anche in presenza di rilevanti aumenti di
produttività: a fronte di un incremento del valore aggiunto per addetto dell’89,5%
nel periodo 1992-2001, il costo della forza-lavoro è aumentato appena del 15,9%
(in valori nominali); si tratta di un dato inferiore a quello di tutti
gli altri principali Paesi presi in considerazione dalla ricerca. [5]
A quanto pare, questo non invidiabile primato non ha affatto
allontanato la crisi. Anzi. Per avere chiara la gravità della situazione
basterà riferirsi a quanto ha detto il 31 maggio scorso il governatore della
Banca d’Italia, un signore che ancora 2 (due) anni fa riteneva possibile il
“miracolo italiano” sbandierato dal re delle televendite e dal suo
commercialista di fiducia.
Nel 2002 in Italia la produzione ha ristagnato, ed il PIL è
cresciuto appena dello 0,4% (nell’area euro la crescita è stata dello 0,8%).
Le importazioni sono cresciute dell’1,5%, mentre le esportazioni sono scese
dell’1% (quelle dei Paesi dell’area dell’euro sono cresciute in media dell’1,2%),
e questo nonostante la ripresa del commercio mondiale (+3%). Ma, soprattutto, l’indice
della produzione industriale è diminuito nel 2002 dell’1,4%. Il grado di
utilizzo della capacità produttiva nei settori manifatturieri “è sceso al
livello più basso dalla metà degli anni novanta”. Ed è proseguito il
rallentamento degli investimenti fissi lordi in tutti i settori: dove spicca
però la flessione del 4,1% nel comparto manifatturiero. Il peggio, però, a
quanto pare deve ancora venire: le previsioni per il 2003, in base alle evidenze
dei primi mesi dell’anno, sono di un’ulteriore “contrazione della
produzione manifatturiera” e di un PIL “sostanzialmente stagnante”. Ma,
soprattutto, di un crollo dell’accumulazione per il complesso delle imprese
(-10,7%), particolarmente accentuato nel comparto manifatturiero (-13,6%). [i]
Si tratta di una crisi che viene da lontano. Essa si inscrive
nella più generale crisi di sovrapproduzione, e quindi di accumulazione del
capitale, che caratterizza ormai dagli anni Settanta le principali economie
capitalistiche. Ma, anche in questo contesto, assume particolare gravità.
Ascoltiamo cosa ci dice il governatore della Banca d’Italia: “Dalla metà
degli anni novanta è iniziato un declino della competitività che ha riportato
la partecipazione italiana agli scambi mondiali al livello raggiunto alla metà
degli anni sessanta. A prezzi costanti, la quota di mercato è diminuita dal
4,5% nel 1995 al 3,6% nel 2002 [cioè del -20% in sette anni, n.d.r.]. La
perdita è diffusa in tutti i mercati... È scarsa la presenza delle nostre
merci nei settori tecnologicamente avanzati... L’aumento degli acquisti dall’estero
per soddisfare una porzione crescente della domanda interna di prodotti finiti e
di beni intermedi ha nettamente superato quello delle esportazioni... Nelle
altre economie dell’area dell’euro le maggiori importazioni sono state più
che compensate dall’aumento delle vendite all’estero”. Inoltre, dulcis
in fundo, “il carattere dualistico del sistema economico italiano,
attenuatosi sino agli anni settanta, grazie agli elevati investimenti nelle
regioni meridionali in infrastrutture e nei settori di base attuati con l’intervento
straordinario, si è di nuovo accentuato negli ultimi decenni”. [i] Non c’è male davvero...
3. La “nuova” mappa del potere borsistico
La situazione che questi dati di fatto lasciano intravedere
è a dir poco drammatica. Ci si aspetterebbe, quindi, un vero e proprio
terremoto anche per quanto riguarda le quotazioni della Borsa italiana. E in
effetti le cose stanno proprio così, come è facile verificare.
Chi avesse voluto disegnare una mappa del capitalismo
italiano, poniamo, verso la fine degli anni Ottanta, non avrebbe dovuto faticare
granché. A quell’epoca, infatti, le partecipazioni Fiat capitalizzavano da
sole un terzo dell’intera Borsa italiana: tra esse c’erano società come
Snia, Gemina (Rizzoli e Corriere della Sera), Magneti Marelli, Unicem,
Sorin, Olcese, Toro Assicurazioni, Rinascente. E il resto del listino? I nomi
storici della grande industria italiana: Pirelli (nome abbinato sin dagli anni
Sessanta a quello degli Agnelli in un delizioso distico scandito nelle
manifestazioni), Olivetti, Montedison; e per finire qualche titolo finanziario,
a cominciare dalle assicurazioni Generali. Nel complesso, i primi nove gruppi
nazionali potevano vantare la quasi totalità della capitalizzazione di borsa.
La Montedison rappresentava il 16% della capitalizzazione di borsa, la Olivetti
(all’epoca già di De Benedetti) il 10%. [6]
A distanza di quindici anni, le cose sono cambiate. E di
molto. Montedison è stata cancellata dal listino. Olivetti anche. Fiat continua
a perdere colpi (qualche anno fa è stata superata in capitalizzazione da
Tiscali: poi la cosa è rientrata - ma solo perché Tiscali ha perso di più
di Fiat...). Pirelli va maluccio nei suoi settori storici (pneumatici e cavi), e
comunque la sua più importante partecipazione è oggi rappresentata dal gruppo
Telecom. Che, assieme a Eni ed Enel (entrambe controllate dallo Stato), fa la
parte del leone quanto a capitalizzazione di borsa. Vanno bene anche titoli
quali Autostrade e Autogrill (il primo, in particolare, è ai massimi storici).
Poi ci sono banche e società finanziarie, che venti anni fa non erano quotate
(o lo erano in minima percentuale): Intesa (che ha fagocitato la Comit),
Unicredito, Sanpaolo-IMI, Capitalia, Montepaschi, BNL. E restano, unico elemento
di continuità del listino di borsa, le Assicurazioni Generali, che - benché
dimezzate rispetto al loro massimo storico - rappresentano pur sempre la terza
società assicurativa europea.
Quale è il significato di questi cambiamenti? È duplice. Da
un lato, prosegue la “finanziarizzazione” del listino di Borsa - processo
iniziato con la crisi degli anni Settanta, ed accentuatosi nel corso del tempo:
aumenta, cioè, il peso delle società finanziarie tra le società quotate. Dall’altro,
aumenta anche il peso dei servizi di pubblica utilità (public utilities).
Di contro, diminuisce in misura drastica il peso del settore manifatturiero.
4. Che fine hanno fatto le grandi famiglie del capitalismo italiano?
Di fronte a tutto questo, viene da chiedersi se dobbiamo dire
addio anche alle grandi famiglie del capitalismo italiano. Stando alla vera e
propria frana del sistema industriale italiano che abbiano descritto più sopra,
ed al terremoto di borsa degli ultimi anni, ci si aspetterebbe di sì. Ma è
necessario ricredersi. Niente di questo è successo: praticamente nessuna delle
principali famiglie è scomparsa. A cominciare dagli Agnelli: negli
ultimi mesi la crisi rovinosa del settore auto li ha costretti a dismissioni
dolorose (come quella della Toro Assicurazioni), ma resta pur sempre in piedi un
impero economico di notevoli proporzioni, che va dalla Fiat ad una quota del
Sanpaolo-IMI, dalla Juventus alla Rinascente. [7]
Veniamo ai Pirelli. Vale la pena di spendere qualche
parola sulla storia di questa società (e della relativa dinastia), in quanto è
paradigmatica della parabola del capitalismo italiano. La Pirelli & C. fu
costituita nel 1883 dall’ingegner Giovanni Battista Pirelli. Lo sviluppo della
società, specializzata nel produzione di articoli di gomma, fu propiziato nel
1886 da un grosso appalto del Ministero dei Lavori pubblici per la costruzione
di cavi telegrafici sottomarini. La società, quotata in borsa nel 1922, sin
dall’inizio del secolo ebbe una forte penetrazione nei mercati stranieri, e
conquistò importanti posizioni nel mercato dei pneumatici a livello mondiale.
Fu la prima società italiana a quotarsi a Wall Street (in un anno non molto
felice: il 1929). La società prosperò sotto il fascismo, al punto che nel 1939
lo stesso Ettore Conti, industriale elettrico e presidente della Confindustria,
incluse il nome di Pirelli tra i membri di “un’oligarchia finanziaria che
ricorda, in campo industriale, l’antico feudalesimo”. [8] Finita la guerra, la Pirelli fu
tra i principali beneficiari (assieme alla Fiat) del Piano Marshall, e poi tra i
protagonisti del cosiddetto “miracolo economico”. Nel giugno 1969 proprio
alla Pirelli nacque il primo Comitato Unitario di Base sindacale, che strapperà
un importante successo nel novembre dello stesso anno (un buon rinnovo
contrattuale e il diritto di assemblea). La crisi degli anni Settanta colpisce
la società. La forza lavoro viene ridotta e si tenta la strada delle
acquisizioni internazionali: Leopoldo Pirelli prova a scalare prima l’americana
Firestone, poi la tedesca Continental. In entrambi i casi patisce una severa
sconfitta, e dopo il secondo insuccesso deve cedere il comando al genero Marco
Tronchetti Provera. Negli anni Novanta il gruppo, pur mantenendo le attività
tradizionali (cavi e pneumatici), orienta risorse verso il settore immobiliare
(Pirelli Real Estate), costruito a partire dalla riconversione delle gigantesche
aree industriali precedentemente occupate dai propri stabilimenti. Ma,
soprattutto, nel 2001 assume il controllo del gruppo Telecom Italia, che oggi
rappresenta di gran lunga la più importante partecipazione del gruppo: si
tratta di uno dei principali “gioielli di famiglia” privatizzati nel corso
degli anni Novanta, ed è un gruppo che ha registrato nel 2002 un fatturato di
oltre 30 miliardi di euro. In definitiva, oggi la Pirelli & C. è una
holding finanziaria, la cui principale controllata non appartiene al settore
manifatturiero.
Qualche parola sulla situazione attuale delle altre famiglie
del capitalismo italiano. De Benedetti possiede tuttora il gruppo
editoriale Espresso (proprietario tra l’altro del quotidiano la
Repubblica), diverse società finanziarie (Cir, Cofide), una società
“new economy” (CDB Web Tech) che rappresenta uno dei più clamorosi flop del
Nuovo Mercato italiano, oltre a società attive nella componentistica (Sogefi) e
nel settore energetico (Energia). Per quanto riguarda altre famiglie
storiche del capitalismo italiano, la famiglia Pesenti ha la
Italmobiliare (finanziaria) e l’Italcementi (una delle principali società
cementiere europee, con stabilimenti in Italia, Bulgaria, Marocco, Tailandia,
Kazakistan) ed è tuttora presente nel patto di sindacato di Mediobanca. Orlando
ha il gruppo Gim, cui fanno capo la Smi (settore metallurgico) e - attraverso la
Smi - la Kme (prodotti in rame e leghe di rame).
Per quanto riguarda i Benetton, va detto innanzitutto
che abbiamo a che fare con una famiglia per così dire “di nobiltà recente”:
il gruppo Benetton fu infatti fondato nel 1965, e quotato soltanto nel 1986. Tra
le attività principali che fanno capo alla famiglia Benetton rientrano oggi non
soltanto l’abbigliamento, ma anche società quali Autogrill e Autostrade.
Inoltre, i Benetton fanno parte - assieme a Pirelli - del patto di sindacato che
ha il controllo di Telecom Italia. Quanto all’ineffabile Berlusconi,
come è noto le sue principali partecipazioni sono nel campo televisivo
(Mediaset e RAI), editoriale (Mondadori) e assicurativo (Mediolanum); oltre
ovviamente al monopolio nel settore governativo (Palazzo Chigi e le controllate
Camera e Senato; l’OPA ostile lanciata da tempo sul settore giudiziario non ha
dato finora i frutti sperati).
Morale della favola: tanto le famiglie storiche del
capitalismo italiano quanto i parvenu mantengono saldamente le loro
posizioni. Non solo: come vedremo subito, le mantengono avvalendosi della stessa
struttura del controllo societario che adoperano da decenni.
5. Concentrazione del controllo e scatole cinesi
Bisogna prima di tutto partire da un dato: la concentrazione
del controllo delle società quotate da parte di uno o più soci è maggiore
in Italia che negli altri principali Paesi europei: “per circa tre quarti
delle società quotate è infatti presente un azionista di controllo”. In
particolare, “la concentrazione proprietaria delle principali società quotate
italiane è superiore in misura notevole rispetto a quelle delle imprese
tedesche e francesi e, in misura minore, rispetto a quelle delle imprese
spagnole”. [9]
Non solo: in Italia negli ultimi anni la concentrazione è cresciuta.
È cresciuta, in particolare, la concentrazione attraverso le “scatole
cinesi”, uno strumento che consente agli azionisti più importanti di una
determinata società di controllare un quota del capitale assai maggiore di
quella effettivamente detenuta. E quindi fa sì che si abbia la concentrazione
del controllo senza che ci sia la concentrazione della proprietà. L’ex
Presidente della Consob, Spaventa, ha così descritto (eufemisticamente) la
situazione: “l’esercizio del controllo con un impegno più modesto nella
proprietà viene sovente ottenuto ricorrendo a lunghe e complicate strutture
piramidali”. [i]
Ma come funzionano in concreto le “scatole cinesi”?
Praticamente abbiamo a che fare con una catena di società, che può essere
anche molto lunga. Il primo anello della catena è una società in accomandita
per azioni. Si tratta rigorosamente di una società non quotata, e quindi non
contendibile. Spesso è di diritto olandese o lussemburghese, per pagare meno
tasse (del dovuto). Facciamo un esempio. Tutto comincia con una società in
accomandita il cui capitale è detenuto al 99,36% da un singolo capitalista.
Questa società possiede il 56% di un’altra società non quotata; questa
seconda società possiede a sua volta il 56% di una piccola società quotata in
borsa; quest’ultima ha in portafoglio il 29,9% di un’ulteriore società
quotata in borsa; questa controlla il 38% di una terza società quotata in
borsa; che controlla il 60% di una società non quotata; questa società non
quotata controlla il 28,7% di una quarta società quotata, che controlla il 55%
di una quinta società quotata; quest’ultima controlla con il 56% una sesta
società quotata e con il 57% una settima società quotata.
Con questo sistema gli Agnelli hanno il controllo della Fiat,
Tronchetti Provera di Pirelli e di Telecom (l’esempio di cui sopra non è
fittizio: si tratta proprio della catena di controllo su Pirelli e su Telecom,
come si presentava sino a pochi mesi fa). Il tutto, con un risparmio
considerevole rispetto all’acquisizione diretta di queste società. Quanto
considerevole? Qualcuno si è preso la briga di fare due conti, e i risultati
sono questi: “la famiglia Agnelli governa su un impero che vale cento
rischiando di tasca propria, in proporzione, non più di dodici”, mentre “Tronchetti
regna su Telecom con solo lo 0,54% del capitale”. [10]
L’uso del meccanismo delle “scatole cinesi” accomuna
praticamente tutte le dinastie imprenditoriali italiane che controllano società
quotate in borsa. In concreto, in questo modo sono controllati 130 miliardi di
euro, ossia il 30% del valore totale della Borsa italiana. In questo contesto, i
piccoli investitori quale ruolo giocano? La risposta è facile: il ruolo di
mettere i soldi nelle società controllate da quei signori, rendendo loro
possibile di controllarle senza doverle possedere. Intendiamoci:
niente di nuovo sotto il sole. Di questo fenomeno si parlò molto sin dalla fine
dell’Ottocento. Anche Lenin lo affrontò nell’Imperialismo, traendone
queste conclusioni: “La ’democratizzazione’ del possesso di azioni, dalla
quale i sofisti borghesi e gli opportunisti ’pseudosocialdemocratici’ si
ripromettono (o fingono di ripromettersi) la ’democratizzazione del capitale’,
l’aumento di importanza e di funzione della piccola produzione, ecc., nella
realtà costituisce un mezzo per accrescere la potenza dell’oligarchia
finanziaria”. [11] Ma Lenin, si sa, è superato...
6. Il capitalismo delle bollette
Se quanto alla forma del controllo societario non si vedono
grandi novità (non si può certo dire che la forma dell’accomandita e lo
strumento delle scatole cinesi rappresentino l’ultimo grido della finanza
internazionale...), diversamente vanno le cose per quanto riguarda i settori
di attività dei capitalisti italiani. Qui invece le novità ci sono,
eccome: negli ultimi anni le principali famiglie del capitalismo italiano sono
state protagoniste di una vera epropria migrazione generalizzata dal settore
manifatturiero e industriale a quello dei servizi di pubblica utilità.
Quanto è avvenuto è stato così sintetizzato da un giornalista economico: “I
gruppi industriali italiani cadono come birilli, l’uno dopo l’altro, nelle
mani di strutture internazionali più attrezzate alla competizione globale;
mentre ciò che resta delle grandi famiglie, vecchie e nuove, cerca riparo sotto
l’ombrello delle non proprio innovative utility”. [12]
Ma cosa ha reso possibile questa fuga dalla grande industria?
La risposta è semplice: le massicce privatizzazioni effettuate nel corso
degli anni Novanta. Può sembrare paradossale, se si pensa a tutti i Soloni
che ci avevano spiegato come le privatizzazioni sarebbero servite non soltanto a
diminuire il debito pubblico, ma anche a creare “un mercato finanziario
sviluppato”. [13] Ora, questo obiettivo si componeva, a sua volta, di
due obiettivi-condizioni. In primo luogo, la diffusione dell’investimento
azionario a livello di massa, presentato come un fattore di “democrazia
economica”. In secondo luogo, la quotazione in borsa di un numero maggiore di
imprese private. In che modo le privatizzazioni avrebbero potuto contribuire a
raggiungere questi obiettivi? È semplice: le società da privatizzare sarebbero
state quotate in borsa, facendone delle public companies (aziende ad
azionariato molto frammentato) ed invogliando i risparmiatori ad acquisirne
delle quote. In questo modo la quantità dei titoli trattati alla borsa di
Milano sarebbe cresciuta, lo “spessore” del mercato - come si dice in gergo
sarebbe aumentato, e questo avrebbe indotto alla quotazione molti proprietari
di imprese private che sinora non avevano preso in considerazione tale
possibilità.
Questa operazione è riuscita solo a metà: la prima metà.
Molti risparmiatori hanno partecipato alle privatizzazioni. Ma in Italia il
modello delle public companies non si è affermato. I capitalisti
italiani, salvo pochissime eccezioni, si sono ben guardati dal portare le
proprie imprese in Borsa, tant’è vero che dal 1999 ad oggi il numero delle
società quotate si è ridotto (a testimonianza, tra l’altro, delle
difficoltà in cui si dibattono le piccole e medie imprese ed i tanto mitizzati
“distretti industriali”). [14] In compenso, i più forti tra loro hanno
acquisito le società privatizzate assumendone il controllo. In questo modo,
“la maggior parte delle principali società privatizzate ad azionariato
diffuso sono state oggetto di successive acquisizioni che hanno portato in
alcuni casi al loro delisting [cancellazione dal listino di Borsa, n.d.r.]
o alla determinazione di un assetto di controllo fortemente concentrato”.
[15]
Tra le società privatizzate, le attenzioni dei capitalisti
industriali del nostro Paese si sono rivolte verso i servizi di pubblica
utilità. [16] C’è
addirittura un caso in cui la stessa società, nel volgere di pochi anni,
è entrata nell’orbita di 3 distinti nomi storici del capitalismo
italiano: è il caso di Telecom, che prima viene privatizzata dandone il
controllo di fatto (con appena lo 0,8% del capitale!) agli Agnelli, sia pure
attraverso un patto di sindacato con altri soci; poi subisce la scalata di
Olivetti (nel frattempo diventata una scatola finanziaria nelle mani di
Colaninno); infine passa sotto il controllo della Pirelli di Tronchetti Provera.
Ma anche famiglie meno blasonate condividono la passione per le società in via
di privatizzazione. È il caso dei Benetton, che hanno recentemente acquisito il
controllo totale di Autostrade (e in precedenza avevano comprato Autogrill e GS,
e si erano messi in cordata con Tronchetti Provera per Telecom).
Il perché di questa passione generalizzata è presto detto:
queste società rappresentano una fonte di profitti certa, che può
godere di una rendita di monopolio (o, nel peggiore dei casi,
oligopolistica); si tratta tra l’altro di una fonte di profitti sottratta
non soltanto alle fasi alterne del ciclo economico (le bollette si pagano
sempre), ma anche alla concorrenza internazionale. Il percorso quindi è
questo: le grandi famiglie del capitalismo italiano sbarcano dal settore
manifatturiero, dove perdono colpi non riuscendo a sostenere la concorrenza
internazionale, e si imbarcano sulla scialuppa di salvataggio rappresentata
dalle società pubbliche in via di privatizzazione. La riprova? L’impressionante
coincidenza tra il momento del passaggio ai servizi pubblici e la crisi nei
settori di origine.
Così, la Fiat si lancia nell’avventura di Edison al
peggiorare della situazione nel settore auto. Pirelli si compra Telecom nel
2001, quando si avvertono i primi segni della crisi nei suoi comparti
tradizionali, ed in particolare nel settore cavi e sistemi di telecomunicazione,
che nel 2002 si aggraverà drasticamente (perdita netta di 58,4 milioni di euro
e giro d’affari in calo del 13,2%). Infine, Benetton nei primi mesi del 2003
lancia un’OPA [offerta pubblica di acquisto in borsa] sulle azioni di
Autostrade. Negli stessi giorni il principale quotidiano economico italiano
metteva in luce come il conto economico della società nel 2002 avesse visto la
contrazione di tutte le voci principali, dal fatturato (-5%) al risultato
operativo (-15%), per finire con una perdita netta di 9,8 milioni di euro
(contro l’attivo di 148 milioni dell’anno prima).
Sul manifesto abbiamo letto che “fa un po’
pena vedere la famiglia più innovativa d’Italia abbandonare i colors per
indossare il grigio abito dell’esattore al casello autostradale”
(23/2/2003). Ma forse non è il caso di commuoversi troppo: infatti il
rendimento sul capitale investito nelle magliette è (quando va bene) del 7%,
quello dei pedaggi autostradali arriva al 18%. [17] La
famiglia Benetton, insomma, non ha di che lamentarsi: alla crisi di
valorizzazione del settore manifatturiero ha risposto saltando sulla scialuppa
di salvataggio di una utility che dà una rendita monopolistica. Noi
invece sì: perché un’economia il cui settore manifatturiero dà forfait
non ha futuro.
Ma se questo è vero, bisogna avere il coraggio di dire la
verità che nessuno dice: che le privatizzazioni italiane, anziché
rappresentare un momento di crescita per l’economia italiana, hanno avuto
effetti nefasti sul tessuto produttivo del nostro Paese, accelerandone il
declino, in quanto hanno offerto alle principali dinastie imprenditoriali una
comoda e redditizia via di fuga dal settore manifatturiero.
[1] G. De Luca, “Dall’economia industriale all’’industria
della finanza’: le società quotate al listino azionario della Borsa di Milano
dal 1861 al 2000”, in Le società quotate alla Borsa valori di Milano
dal 1861 al 2000. Profili storici e titoli azionari, a c. di G. De Luca,
Milano, Scheiwiller, 2002, pp. 25-27. Il corsivo nel testo è mio.
[2] Ivi, pp. 63-64. Il corsivo nel testo è mio.
[3] Ivi, p. 64.
[4] Dati riportati in P.
Ciocca, La nuova finanza in Italia, Torino, Bollati Boringhieri, 2000, p.
246.
[5] R & S, Multinationals:
Financial Aggregates (274 Companies). 2002 edition, Milano, gennaio 2003. La
ricerca è scaricabile dal sito internet www.mbres.it. Per la cronaca, i dati
sulla produttività ed il costo del lavoro sono stati riportati anche dal Sole
24 ore, il 28/1/2003. In una tabella e non nel titolo, come è ovvio...
[i] Relazione
del governatore sull’esercizio 2002, maggio 2003, pp. 89, 91-93, 95-6,
108, 111.
[i] Considerazioni
finali del governatore della Banca d’Italia, 31 maggio 2003, pp. 15-17,
21. Corsivi miei.
[6] Vedi G. De Luca, art. cit., p.
65.
[7] Per le vicende della Fiat
rimando al mio “Cent’anni di improntitudine”, pubblicato sul n.
3/2002 di Proteo.
[8] Cit. in U. Bertone, Capitalisti
d’Italia, Milano, Boroli, 2003, p. 37.
[9] Consob, Relazione per l’anno 2002, pp. 7, 4.
[i] Incontro annuale con il mercato finanziario, 8 aprile
2002, p. 11.
[10] Vedi, rispettivamente, M.
Mucchetti, op.cit., pp. 52, ed il titolo in prima pagina del quotidiano
finanziario MF del 17 luglio 2003.
[11] V.I. Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo,
1916-7; tr.it. in Scritti economici, a cura di U. Cerroni, Roma,
1977, p. 535.
[12] O. De Paolini, “La
classe che non c’è più”, Borsa & Finanza, 19/10/2002.
[13] Su questo ed altri aspetti delle motivazioni addotte per le
privatizzazioni vedi R. Martufi, L.Vasapollo, Vizi privati... senza pubbliche
virtù. Lo stato delle privatizzazioni e il Reddito Sociale Minimo, Napoli,
Mediaprint, 2003, p. 82.
[14] A questo argomento sarà dedicato il prossimo
articolo di questa serie dedicata alle evoluzioni recenti ed alla situazione
attuale del capitalismo italiano.
[15] Consob, Relazione per l’anno 2002, p. 3.
[16] A questo proposito vale la pena di notare che le società
industriali tra quelle privatizzate sono invece state acquistate quasi
esclusivamente da società multinazionali straniere.
[17] Queste cifre sono state citate
da Il Riformista dell’8/2/2003 come apprese dagli stessi Benetton.