1. Povertà vecchie e nuove
In teoria ci sono quattro definizioni della povertà generalmente
accettate, ognuna delle quali specifica una classe diversa di “poveri”:
1. “POVERTA’ ASSOLUTA: è la definizione “più
classica” di povertà, ovvero: “mancanza di risorse per consumare un certo
insieme di beni e servizi per soddisfare le necessità essenziali”;
2. POVERTA’ RELATIVA: ovvero basata su un confronto
relativo tra i diversi gruppi componenti la società;
3. POVERTA’ SOGGETTIVA: valutazione personale
del proprio stato di benessere. È comunque la definizione meno usata proprio
per la sua soggettività;
4. POVERTA’ UMANA: o mancanza di beni essenziali e
di particolari capacità e abilità per soddisfare i bisogni ritenuti fondamentali”
[1].
Va poi analizzato un altro aspetto: Povero non è solo
chi non ha una opportuna quota di reddito per la sussistenza, ma anche chi non
può consumare una quantità necessaria di prodotti essenziali perché è una figura
marginale del mercato del lavoro. Vi è infatti una parte della popolazione che,
pur lavorando e ricevendo quindi un regolare stipendio, risulta inclusa tra
i poveri perché il salario risulta l’unica fonte di sostentamento per la famiglia
ed è totalmente inadeguato per vivere una vita dignitosa.
Comunque povertà è soffrire la fame, è vivere senza un tetto,
è essere ammalati e non poter essere visitati da un medico; povertà significa
non andare a scuola e non sapere leggere, è non avere un lavoro o avere un lavoro
precario, intermittente, è vivere arrangiandosi, è paura del futuro.... Si potrebbe
continuare all’infinito nell’elenco dei significati di povertà, ma oggi si parla
sempre più di povertà relativa oltre alla povertà assoluta, di nuove povertà,
di lavori poveri, di impoverimento dei ceti medi.
In passato la povertà è stata quasi del tutto associata ai
paesi meno industrializzati, meno sviluppati, più “emarginati” dal moderno sistema
economico di sviluppo e si tendeva, quindi, ad allontanare il problema dai paesi
a capitalismo maturo che sembravano essere ricchi. Ma ormai negli ultimi anni
questa non è assolutamente la situazione reale.
In realtà molte analisi e ricerche anche da parte di istituti
e centri studi legati ad organismi internazionali, quali l’ONU, la Banca Mondiale,
ecc, hanno accertato che la disoccupazione, le disuguaglianze distributive anche
legate alla crescita smisurata dei prezzi alla produzione e al consumo e la
sempre maggiore precarizzazione di un gran numero di persone nel mercato del
lavoro hanno fatto sì che il “problema nuova povertà” sia diventato sempre
più grave e in continua crescita.
La globalizzazione neoliberista, l’internazionalizzazione dei
processi produttivi si accompagnano alla realtà di centinaia e centinaia di
milioni di lavoratori disoccupati e precari in tutto il mondo.
Il sistema fordista ci aveva abituato al lavoro a tempo pieno
e di durata indeterminata, ora invece un grande numero di lavoratori ha un contratto
di breve durata o con orario breve, i nuovi lavoratori possono essere impegnati
per poche ore al giorno per cinque giorni a settimana, oppure per molte ore
al giorno ma solo per due o tre giorni a settimana.
Contratti di formazione lavoro, borse di dottorato, apprendistato,
piani di inserimento professionale, borse di lavoro, contratti temporanei di
anziani in possesso dei requisiti per il pensionamento, lavori socialmente utili
e lavori di pubblica utilità, contratti atipici nella pubblica amministrazione,
sono solo alcune delle decine di forme e combinazioni dei lavori atipici. Se
guardiamo la situazione dal punto di vista dei lavoratori si hanno insicurezza
economica, totale mancanza di prospettive, difficoltà di conciliazione dei tempi,
precarietà in ogni fase della propria esistenza, ecc.
È necessario ricordare che l’aumento della precarizzazione
del lavoro porta con sè una crescita dell’instabilità del reddito da lavoro;
a ciò si aggiunge il graduale abbattimento del welfare soprattutto in campo
previdenziale e sanitario. Tutto questo fa si che la situazione peggiori incessantemente
e determini uno stato di precarietà permanente nel e del vivere sociale.
“La precarizzazione è un processo generale, un processo
che condiziona l’esistenza di tutta la forza lavoro postfordista. Il processo
di precarizzazione del lavoro, quest’esperienza d’incertezza comune al lavoro
vivo postfordista si è affermata seguendo tappe, svolte, passaggi cruciali.
Prime fra tutte le tappe degli interventi legislativi che hanno abbattuto, piano
piano, l’intero edificio di garanzie acquisite dal lavoratore fordista e hanno,
di fatto introdotto la possibilità di utilizzare la forza lavoro in un regime
flessibile” [2]
Ed è proprio con la flessibilità imposta dalle regole di efficienza
di impresa che si arriva alle condizioni di lavoro precarie, non continuative
e temporanee nelle quali il lavoratore è lasciato a se stesso e si trova solo
davanti all’imprenditore con il quale deve trattare le condizioni economiche
e di tempo del proprio lavoro.
La nuova condizione del lavoro diventa sempre più privata dei
diritti, degli ammortizzatori sociali, della democrazia stessa; il tutto diventa
precario, senza alcuna sicurezza di continuità.
“Il precario si trova, oltre che in un confine incerto
tra occupazione e inoccupazione, anche in un non meno incerto riconoscimento
giuridico dinanzi alle garanzie sociali. Flessibilità, deregolamentazione del
rapporto di lavoro, assenza di diritti. Qui la flessibilità non è ricchezza.
La flessibilità, per la parte contraente più debole, la forza lavoro, è un fattore
di rischio, e l’assenza di garanzie accresce questa debolezza. In questa guerra
di logoramento la forza lavoro è lasciata completamente scoperta, sia rispetto
al proprio lavoro presente, per il quale non possiede certezze spesso neanche
di pagamento, sia rispetto al futuro, come sicurezza di reddito, dato che nessuno
lo assicura dai momenti di in occupazione” [3]
Tutto ciò si aggiunge e non si va a sostituire alle cosiddette
vecchie forme di povertà. I dati ufficiali continuano a segnalare che nei vari
Sud del mondo sono più di 100 milioni i bambini che vivono sulla strada, sono
250 milioni i bambini che lavorano, più di 300 milioni di bambini sono soldati
e più di un milione di donne giovani sono obbligate a prostituirsi. E tali dati
non considerano il “profondo Sud” dove qualsiasi stima è impossibile. Basta
ricordare solo che l’80% della popolazione del mondo vive nei paesi del Terzo
mondo ed ha a sua disposizione meno del 20% della ricchezza mondiale ed ogni
anno oltre 14 milioni di bambini muoiono prima di arrivare a 5 anni. A ciò si
aggiunge il fatto che “Un terzo della popolazione che vive nei paesi più
poveri - che sono soprattutto paesi africani - ha una speranza di vita alla
nascita che non supera i 40 anni...., oltre 1 miliardo di persone non ha accesso
all’acqua potabile, 850 milioni di adulti sono analfabeti, 325 milioni di bambini
abbandonano le scuole elementari, 700 milioni di persone lavorano con remunerazioni
inferiori al livello di sussistenza “ [4]. Questa è la situazione.
Per dare un idea del problema della povertà basta pensare che
nel 2001 oltre 1 miliardo e 200 milioni di persone non aveva neanche un dollaro
al giorno per soddisfare tutte le proprie necessità di vita (nell’Africa sub-sahariana
il 48% della popolazione e nel sud dell’Asia, il 40% hanno meno di un dollaro
al giorno mentre in America Latina il 16% della popolazione vive ancora con
meno di un dollaro al giorno). Mentre sempre va ricordato che un settimo della
popolazione mondiale possiede i quattro quindi della ricchezza, consuma il 70%
dell’energia globale e l’85% del legno del pianeta.
2. La disinformazione statistica e la povertà... da lavoro
Ma come misurare la povertà? Chi viene ritenuto povero e perché,
in base a quali criteri?
Come convezione all’interno della Unione Europea si è adottato
come limite - soglia della povertà un valore pari al 50% del reddito medio europeo
pro capite, e quindi “viene considerato povero colui che percepisce
annualmente una quota di denaro pari o inferiore al 50% del reddito annuale
medio pro capite europeo”.
Nel Primo “Rapporto sulla povertà in Europa” dell’anno 2002
emerge che, dato come indicatore della soglia della povertà la metà del reddito
medio, tra gli Stati membri dell’Unione la percentuale più elevata della popolazione
povera tra il 1987 e il 1997 si registra in Italia (14,2%) e nel Regno Unito
(13,4%).
In realtà però questo metodo analizza solo in modo aritmetico
il problema in quanto, stabilendo la percentuale di coloro che sono al di sotto
del 50% del reddito medio pro capite, si ha una estesa generalizzazione della
situazione e non si comprende quale siano le differenze esistenti all’interno
della classe dei soggetti al di sotto del “50% di reddito medio pro capite”.
Inoltre non va sottovalutato un altro elemento: la crescita
del reddito pro capite medio in Europa, ad esempio, è sinonimo di una maggiore
ricchezza o piuttosto è dovuto ad una diminuzione delle nascite e quindi della
popolazione totale? Ed ancora: per misurare la povertà il conteggio deve essere
fatto su base individuale o familiare?
Ad oggi comunque non vi è un indicatore generale valido in
assoluto per la misurazione della povertà; non sussiste un limite fisso e valido
entro cui collocare una persona tra i poveri o meno; non vi è neppure una unità
di base sicura sulla quale lavorare (che sia reddito o che sia consumo) [5].
Tra le ipotesi studiate per misurare la povertà vi è l’indicatore
dello sviluppo umano HDI (Human Development Index), che si basa sulla “speranza
(o aspettativa) di vita”; sul livello di alfabetizzazione raggiunto
dal paese considerato, sul tasso di iscrizione alla formazione scolastica;
ed infine dal reddito pro capite. Con questo indicatore si calcola (in
percentuale o in valori relativi da 0 a 1) il valore di ogni singola voce, poi
si fa una media aritmetica per ogni paese considerato, per avere l’indice di
sviluppo umano richiesto.
È interessante notare nella tabella n. 3 l’applicazione di
questo indicatore HDI nei paesi industrializzati per l’anno 1997.
L’Italia e la Gran Bretagna raggiungono una percentuale più
alta di poveri rispetto anche a paesi come Repubblica Ceca, Ungheria e Polonia.
I motivi della povertà in Europa - secondo il rapporto - sono da attribuirsi
alle ripercussioni geopolitiche del crollo dell’Unione Sovietica e del blocco
dell’Est, che ha causato la nascita di oltre 150 milioni di “nuovi poveri”.
A ciò si aggiunge la “recrudescenza dei conflitti nel mondo
- compresa l’Europa orientale” che ha causato un aumento del numero di rifugiati,
richiedenti asilo e immigrati. Da ultimo ma non ultimo come importanza si aggiunge
l’accelerazione del processo di globalizzazione neoliberista, “occasione per
una più grande ingiustizia”, denuncia il Rapporto. Infatti si sono globalizzati
anche “la tratta di esseri umani, il traffico di stupefacenti e il terrorismo
internazionale” [6].
Si evidenzia ancora la sproporzionata distribuzione delle risorse;
ad esempio nel Regno Unito il 20% dei ricchi gode del 43% delle risorse disponibili
mentre il 20% dei poveri utilizza soltanto il 6,6%.
Tra i nuovi poveri ci sono poi i disoccupati, i lavoratori
poveri, gli anziani, le famiglie numerose.
“Disoccupati e “working poor”. La disoccupazione, soprattutto
quella di lungo periodo (oltre 6 mesi), rappresenta una delle principali cause
della povertà, collegata all’analfabetismo o a una scarsa formazione e acquisizione
di competenze, ritenute “insufficienti per rispondere alle esigenze del mondo
tecnologico attuale, in continuo cambiamento”. I disoccupati - soprattutto giovani,
persone di mezza età e disabili, fisici o psichici - si trovano in tutta Europa:
in Austria, ad esempio, il 32% dei disoccupati di lungo periodo vive sotto la
minaccia della povertà. Nel 2000 il tasso di disoccupazione in Finlandia è aumentato
del 9,8%: un dato che comprende il 21,4% dei giovani fra i 15 e i 24 anni. La
Polonia, nel 2001, contava circa 3 milioni di disoccupati.
Poi ci sono i lavoratori poveri (“working poor”) a motivo dei
salari esigui; fra loro anche medici e insegnanti. Nella Federazione russa e
in Ucraina i bassi stipendi (circa 30 euro al mese), oltre ai ritardi nei pagamenti,
provocano esodi di massa; per la scarsa retribuzione solo a Istanbul, in Turchia,
oltre un milione di persone soffrivano di denutrizione lo scorso anno. Questa
situazione incentiva, come “effetti collaterali”, conseguenze sociali negative:
dalla tossicodipendenza in crescita fra i giovani norvegesi e slovacchi, all’alcolismo,
che in Polonia coinvolge circa un milione di persone.
Gli anziani. In 17 Paesi europei - compresa l’Italia, in particolare
il centro-nord - gli anziani sono fra i più poveri della società, per le pensioni
troppo esigue. In Belgio, ad esempio, le pensioni rappresentano il 37% di un
salario medio; in Bulgaria la pensione sociale media si aggira intorno ai 40
euro e quella minima ammonta a 23 euro. In un’Europa in cui la crescita demografica
registra dati negativi e l’aspettativa di vita si allunga, gli anziani rappresentano
“una delle fasce più importanti della società”, commenta Caritas Europa. “Dopo
aver pagato per decenni contributi economici, le persone anziane dovrebbero
avere la possibilità di vivere una vecchiaia serena”.
All’alba del terzo millennio il numero dei bambini che vivono in stato di
povertà è causa di allarme. Un fenomeno che sembra riguardare 17 milioni di
bambini in Europea. In alcuni stati 3 bambini su 10 vivono in famiglie con un
reddito che è al di sotto del 60% rispetto alla media nazionale, ovvero la soglia
per calcolare lo stato di povertà ormai ampiamente accettata in tutta Europa.
All’interno dei Paesi dell’Unione Europea la situazione è molto diversa: si
va da un minimo del 5,5% di bambini che vivono questa condizione in Svezia alla
situazione della Gran Bretagna dove i minori in difficoltà risultano pari al
30,1%. Il secondo paese dopo la Gran Bretagna è proprio l’Italia con il 28,8%
di minori in stato di povertà.” [7]
Non ci sono indicatori statistici che riescono a misurare con
un livello certo l’insieme di queste condizioni di povertà, che evidenziano
in tutta Europa un appiattimento verso il modello USA, con la “vecchia povertà”
che si accompagna alle “nuove” forme di povertà da lavoro.
3. La via europea al capitalismo selvaggio: convivere con la povertà da
lavoro
È molto importante evidenziare quanto riferito mercoledì 17
dicembre 2003 nella sede dell’UE a Bruxelles:
- BRUXELLES, 17 DIC - In tutta l’Unione europea è a rischio
povertà il 15% della popolazione con grandi differenze tra paese e paese: dal
10% della Svezia al 21% dell’Irlanda. Per l’Italia invece il rischio, secondo
i dati del 2001, riguarda una percentuale del 19%, così come per la Spagna.
Ma il dato sale al 25% per la fascia di età dai 18 ai 24 anni: un giovane su
quattro in Italia, così come in Spagna e in Portogallo, è a rischio povertà.
È quanto rileva un rapporto della Commissione europea, in base al quale seppure
la percentuale di poveri negli ultimi anni sia progressivamente diminuita, più
di 55 milioni di persone e un bambino su cinque sono minacciati dalla povertà..
L’esecutivo europeo indica che la strada da seguire per raggiungere l’obiettivo
di Lisbona, di sradicare totalmente la povertà entro il 2010, è un impegno coordinato
tra gli Stati, la società civile e le autorità locali e regionali [8].
In sostanza negli anni che vanno dal 1995 al 2001 pur essendo
diminuita la percentuale di persone a rischio completa povertà (si è passati
dal 17% al 15%) restano comunque oltre 55 milioni le persone minacciate. Tra
queste i giovani e i minori sono tra le categorie più a rischio anche perché
pesa molto l’abbandono scolastico (l’Italia ha una percentuale del 29% a fronte
di una media europea del 18,5%).
Uno studio della Commissione europea evidenzia che i paesi
che investono maggiormente nella protezione sociale (come quelli del Nord Europa)
registrano i più bassi livelli di povertà (ad esempio la Svezia ha solo il 10%).
“Sei le priorità indicate oggi dall’esecutivo guidato da
Romano Prodi per poter raggiungere l’obiettivo di Lisbona, ossia quello di eliminare
la povertà entro il 2010: investire in politiche attive del mercato del lavoro,
favorire appropriati sistemi di protezione sociale, promuovere l’accesso all’abitazione
di coloro che sono più a rischio povertà, concentrare gli sforzi per prevenire
l’abbandono prematuro della scuola e facilitare un passaggio dolce dalla scuola
al lavoro, contrastare la povertà infantile e quella degli immigrati e delle
minoranze etniche. La strada da seguire, per Bruxelles, è quella di un sempre
maggiore coordinamento tra gli stati, di un maggior coinvolgimento delle realtà
territoriali e locali e della società civile.” [9]
Il Patto di Stabilità e Crescita approvato nel 1997 ha cominciato
la sua verifica nel 1998, anno in cui i criteri del trattato di Maastricht sono
stati attuati nei paesi dell’UE. I dati dell’Euro Panel (ECHP), dell’anno 1997
(ultimo anno disponibile) evidenziano che “il reddito netto mediano familiare
equivalente rilevato nei 14 Paesi dell’Unione Europea era di circa 11.623 unità
standard di potere d’acquisto; rispetto a questo valore si possono distinguere
due gruppi di Paesi: Austria, Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Olanda e
Regno Unito caratterizzati da livelli di reddito superiori alla media europea;
Finlandia, Grecia, Irlanda, Italia, Portogallo, Spagna e Svezia, con livelli
di prosperità al di sotto della media” [10].
Negli anni che vanno dal 1994 al 1997 in Italia si è avuto
un aumento del divario tra i livelli di reddito familiari nazionali da quelli
medi europei, diversamente dalla Grecia, Portogallo e Spagna, paesi nei quali
questa differenza è diminuita.
Di solito nei paesi UE con bassi livelli di reddito vi sono
disuguaglianze distributive maggiori e viceversa; gli unici due paesi che non
rispondono a questi criteri sono il Regno Unito e il Belgio che hanno alti livelli
del reddito familiare nonostante gli alti valori dell’ “indice di Gini”, che
descrive il livello delle disuguaglianze distributive.
Tra i paesi con una migliore distribuzione del reddito vi sono
la Finlandia, la Danimarca, la Svezia e l’Irlanda mentre Grecia, Italia, Portogallo
e Spagna sono quelli con la peggiore redistribuzione.
“Relativamente al problema della povertà, nel 1997 il 17,7%
dei cittadini dell’Unione europea viveva in una famiglia con reddito inferiore
alla linea nazionale di povertà. Le percentuali più elevate si registravano
in Portogallo (23,5%) nel Regno Unito (22,4%) e in Grecia (22,3%) mentre quelle
più basse in Danimarca (8%) e in Finlandia (8,5%). L’Italia era caratterizzata
da un valore superiore alla media europea (19,2%). Tra il 1994 ed il 1997 si
è comunque assistito ad una diminuzione del livello medio europeo dell’incidenza
della povertà: se nel 1994 la percentuale di individui poveri nell’Unione europea
era pari a 18,6%, nel 1997 questa percentuale si era ridotta a quota 17,7%.
Ad eccezione della Svezia, sono le donne ad essere maggiormente interessate
dal fenomeno rispetto agli uomini; anche le fasce d’età più giovani (0-16 anni)
sono caratterizzate in tutti i Paesi ad esclusione della Svezia, Grecia, Finlandia
e Danimarca da un tasso di povertà superiore alla media nazionale” [11].
Nei paesi dell’Unione la percentuale di popolazione che risulta
essere povera per più di due anni consecutivi raggiunge una percentuale dell’11%.
Questo valore arriva all’8% per persone povere da più di 3 anni e al 7% per
persone povere per oltre 4 anni. Il Portogallo risulta essere il paese con la
più alta percentuale di povertà persistente, in quanto l’11,8% della popolazione
resta in condizione di povertà mediamente per 4 anni consecutivi. Il paese invece
con la minore diffusione di povertà risulta essere la Danimarca.
Per quanto riguarda le retribuzioni nei paesi dell’Unione Europea
lo sviluppo dei principi di flessibilità occupazionale e l’adesione al Trattato
di Maastricht hanno portato ad un progressivo impoverimento dei salari con una
conseguente diminuzione del peso dei redditi da lavoro sul PIL. Anche per la
struttura e l’andamento del salario indiretto le condizioni europee tendono
ad avvicinarsi sempre più alle determinanti del capitalismo selvaggio anglosassone.
Infatti se si analizzano i sistemi di protezione sociale è evidente che negli
ultimi 20 anni si è avuto un progressivo deterioramento di ogni sicurezza e
di welfare. Infatti in tutti i paesi dell’UE sono stati avviati processi di
riforma anche radicale dei precedenti sistemi di protezione sociale e nei mercati
del lavoro, fino a giungere ad intensi processi di privatizzazione della sanità,
della previdenza, dell’assistenza. A risentirne sono ovviamente le fasce più
deboli della società, quelle prive di lavoro e quelle sempre più numerose dei
lavoratori intermittenti, precari e atipici in genere. C’è anche un dato importante
da evidenziare che riguarda la popolazione rientrante nella fascia cosiddetta
della “terza età”. “Sono più di 60 milioni le persone che nei 15 Paesi dell’Unione
europea hanno oltre 65 anni di età. Un esercito che rappresenta il 15% della
popolazione totale, destinato a superare la soglia del 20% entro il 2020.......
La logica dell’invecchiamento della popolazione richiede di essere reinterpretata,
utilizzando gli anziani forti e vitali che sono alla ricerca di una ‘piena cittadinanza’
sotto ogni profilo”. Secondo il Rapporto ‘Essere anziano oggi’, il 90% delle
persone ‘mature’ si trovano in condizioni discrete pur convivendo con qualche
disagio. Per l’Italia il 12,6% degli anziani, si legge nel rapporto, dichiara
di avere ‘qualche problema’ pur rimanendo autosufficiente. Questa categoria
rappresenta solo il 5,6% in Francia, il 6% in Germania, il 10,2% in Gran Bretagna
e il 10,7% in Spagna. Differenze sostanziali anche per quanto riguarda la condizione
economica. Le famiglie anziane con un reddito superiore ai 1.000 euro passano
dal 24,3% in Spagna fino al 90,6% in Francia. In Italia, la percentuale si attesta
al 42,8%, in Gran Bretagna al 49,2% e in Germania al 78,5%... E allora, parte
l’appello alle istituzioni europee perché vengano incontro alle esigenze della
popolazione over 65... Secondo la ricerca - sottolinea Delai - le risorse economiche
che gli anziani sono in grado di trasferire alla famiglia arrivano a 82 miliardi
di euro l’anno, pari al 15% del totale delle spese delle famiglie italiane”.
[12]
La tabella n. 4 evidenzia la percentuale delle persone a rischio
povertà in ogni paese dell’Unione Europea per gli anni 1995 e 2001.
Ma il precedente dato va supportato e analizzato in funzione
della potenzialità di povertà derivante anche dalla disoccupazione e dal lavoro
precario in genere. La tabella n. 5 riporta i dati disponibili a livello europeo
ed evidenzia sia gli occupati che le persone in cerca di occupazione e in età
lavorativa nell’UE a 15 paesi tra il 1993 e il 2000.
I dati dell’Eurostat riferiti a dicembre 2003 evidenziano che
la disoccupazione nella zona dell’euro è dell’8,8% e dell’8% nell’UE a 15 (si
consideri che nel dicembre dell’anno 2002 la disoccupazione era dell’8,6% nella
zona dell’euro e del 7,9% nei paesi dell’UE a 15).
Se si considera la disoccupazione su base annuale l’Eurostat
segnala che il Lussemburgo (3,9%), l’Olanda (4,1%), l’Irlanda (4,5%) e l’Austria
(4,6) sono i paesi con tassi minori mentre la Spagna registra la percentuale
più alta (11,2%).
Sempre a dicembre 2003 il tasso di disoccupazione per i giovani
con meno di 25 anni è stato del 16,6% nella zona euro e del 15,4% nell’Ue a
15. [13]
Per quanto riguarda il lavoro temporaneo i dati del 1995, registrano
un valore di ore di lavoro temporanei pari 1.671.000 posti di lavoro a tempo
pieno annuo nella sola Unione Europea. Il Regno Unito e l’Olanda sono i paesi
che hanno utilizzato maggiormente il lavoro temporaneo: la percentuale di richiesta
di questa forma di flessibilità è del 3,31% in Gran Bretagna e del 2,68 in Olanda;
nel 1997 poi si parla di 880mila lavoratori temporanei occupati giornalmente
nel Regno Unito e 225mila in Olanda.
[1] Le definizioni sono state date da: L. Frey, R. Livraghi in “Sviluppo umano,
povertà umana ed esclusione sociale”, Franco Angeli, 1999
[2] A.Tiddi, Precari, percorsi di vita tra lavoro e non lavoro”,
Derive Approdi, Roma, aprile 2002, pag. 25
[3] A.Tiddi, Precari, percorsi
di vita tra lavoro...”, op. cit. pag.75
[4] Cfr. M.Zupi, Si può sconfiggere
la povertà, Laterza edit., Roma, maggio 2003, pag.XXI
[5] In
Italia ci sono 2 fonti principali dei dati a riguardo: l’indagine campionaria
sulle famiglie della Banca d’Italia e l’indagine ISTAT annuale
sui bilanci delle famiglie.
[6] Cfr. www.Caritas.it ; Caritas Europa , studio statistico e
descrittivo della condizione sociale nel continente grazie ai contributi di
43 Caritas nazionali.
[7] Cfr. http://www.edscuola.it/archivio/handicap/poverta2.html
[8] http://www.ueitalia2003.it/ITA/Notizie/Notizia_12171735236.htm
[9] http://www.didaweb.net/fuoriregistro/leggi.php?a=4040
[10] Consiglio Nazionale dell’Economia
e del Lavoro CNEL Commissione per l’Informazione Commissione Politica economica
SESTO RAPPORTO CNEL SULLA DISTRIBUZIONE E REDISTRIBUZIONE DEL REDDITO IN EUROPA
2000 - 2001, Luglio 2002, pag. 9.
[11] Consiglio
Nazionale dell’Economia e del Lavoro CNEL Commissione per l’Informazione Commissione
Politica economica SESTO RAPPORTO CNEL SULLA DISTRIBUZIONE E REDISTRIBUZIONE
DEL REDDITO IN EUROPA 2000 - 2001, Luglio 2002, pag. 10.
[12] Sabrina Rosci http://www.labitalia.com/articles/Approfondimenti/4361.html
[13] www.ansa.it