Una buona scuola o la società dello spettacolo: da che parte stanno i progressisti italiani?
Michele Loporcaro
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In questa discrasia fra modello proposto al popolo e modello
riservato agli intellettuali, e da loro soli praticato (si notino ancora, oltre
al nella misura in cui, gli scelti palesarsi, idioma, regredire,
parole non certo del lessico italiano di base), sta gran parte della
contraddizione dell’analisi. Il problema reale era che la maggioranza degli
italiani era, ed è rimasta, esclusa dal dominio degli strumenti di gestione e
di decodifica della complessità linguistica. Si è invece voluto far credere
che questi fattori di complessità costituissero essi stessi il problema: che
fossero ostacoli alla democrazia, artifici creati ex nihilo da una
secolare volontà di oppressione e che potessero essere eliminati, dalla scuola
e dalla lingua, per mezzo dell’azione politica.
Si è allora demolito il tema di italiano, sostituendo all’esercizio
formale (spesso, certo, mal condotto e male utilizzato) dapprima lodevoli
intenzioni e, alla fin fine, nessun vero esercizio di scrittura. [1] E si è attaccato lo studio di tutte le
materie che sostanziavano la nostra tradizione culturale: tutte materie con un
fondamento e un orientamento storico, dalla storia alla storia della
letteratura, alle lingue classiche. Tutto questo è stato attaccato in quanto
segno presunto del privilegio di casta del «gruppo dominante» di «estrazione
avvocatizia». Indicativo, nel primo passo citato, l’ironico occasionalismo glottodidàscalo,
non registrato dai dizionari, neppure dal Grande dizionario italiano dell’uso,
frutto di una grandiosa impresa lessicografica progettata e diretta dal futuro
ministro. [2] L’invenzione di glottodidàscalo è
sottilmente funzionale: si parla, denotativamente, del maestro stolido, che usa
la grammatica per fare epurazione classista, e si suggerisce allo stesso tempo -
connotativamente, col brillante conio con materiale greco (da glôtta ’lingua’
e didásko# ’insegno’) - che questo «glottodidàscalo» è così
stolidamente classista perché è esecutore di un’ideologia da classe
dominante «avvocatizia», che ha studiato al liceo classico. C’è dietro un’etimologia
isidoriana: classico, perché classista.
Sarebbe facile documentare come, con questo sottile discorso,
le giuste istanze di democratizzazione siano state incanalate in una direzione
sbagliata: quella di un’aggressione sistematica alle sedi in cui si perpetuava
la nostra tradizione culturale. Un’aggressione che si è estesa a tutto lo
spettro dei temi legati all’istruzione, dalla scuola elementare all’università.
Qui, nelle discipline linguistiche, la nostra tradizione di studi viveva, alcuni
decenni fa (oggi, nell’università riformata, sopravvive stentatamente) sotto
un’etichetta, quella di glottologia, legata al nome di Graziadio Isaia
Ascoli (1829-1907). Ora, di Ascoli non si può che dire bene: ha elevato la
cultura linguistica in Italia. E infatti ne dice bene anche De Mauro, lamentando
anzi che fosse un isolato: «Ascoli è, in sostanza, un solitario, è, per dirla
con Gramsci, un’“alta palma” che si erge nel deserto». [i] Ma di chi
ha raccolto l’eredità di Ascoli che cosa si dice, negli anni Sessanta del
Novecento? Che sarebbe meglio chiudesse bottega. Oggi lo spirito dei tempi, in
linguistica come nella società, esige ben altro che non degli studi i quali,
già nel nome (glottologia!), si rivelano cosa da «glottodidascali»,
legati dunque oggettivamente a quella classe di oppressori d’estrazione
avvocatizia. Bisogna denunciare questi retrogradi, perché serve qualcosa di
nuovo e di più utile:
«Che cosa insegnano i docenti di glottologia? chi stanno preparando e per
quali fini? La prima cosa da fare è conoscere e divulgare queste situazioni.
Evidentemente, però, non basta limitarsi a questo [...]: ormai, fuori d’Italia
si chiudono ogni giorno i vecchi seminari di linguistica comparativa [che è
quanto dire, storica, M.L.], nei paesi anglosassoni come in URSS, e si
aprono seminari di linguistica generale [...]. In Italia, invece, abbiamo ancora
una linguistica attestata su posizioni ottocentesche». [i]
Anche qui si fa leva su giuste esigenze di modernizzazione.
Ma c’è (ci sarebbe stato) un altro modo di porre simili esigenze, a tutti i
livelli dell’istruzione. Nella scuola, elementare e media, miglioriamo l’esercizio
linguistico sullo scritto (il tema) - migliorando la preparazione degli
insegnanti - e aggiungiamo esercizi di altra natura, per l’acquisizione della
consapevolezza sociolinguistica. Si è scelto invece di puntare all’introduzione
di questi ultimi attraverso l’eliminazione del primo: in assenza di una reale
riqualificazione degli insegnanti (ne parleremo fra un momento), si è rimasti
col nulla.
Nella media superiore, si sarebbe potuto lasciar vivere il
liceo classico e concentrarsi invece sulla creazione di una scuola professionale
degna di questo nome. Era ed è questo, infatti, il problema della scuola
superiore pubblica di massa in Italia: l’inesistenza di istituti superiori
professionali degni di questo nome (l’unica istituzione efficace essendo gli
istituti salesiani), non certo l’esistenza del liceo classico. E all’università,
si sarebbero potute introdurre discipline di taglio nuovo, veicolo di nuove idee
e nuove conoscenze, ma lasciando vivere la tradizione che, attenzione, non era -
nel momento in cui si svolgeva quel dibattito - torre d’avorio con arroccati
dentro quattro parrucconi imbecilli. Insegnavano glottologia (cioè linguistica storica)
in Italia, allora, Benvenuto Terracini, Tristano Bolelli, Giuliano Bonfante,
Giacomo Devoto, Vittore Pisani, e altri specialisti quotati internazionalmente.
Era un settore degli studi umanistici in cui l’Italia figurava egregiamente.
La scelta politica perseguita da parte di questa linea - lo
ripeto, incarnata al massimo livello d’impegno e di consapevolezza dall’intellettuale
di cui ho riportato le parole, ma divenuta largamente dominante nella sinistra
italiana - è stata un’altra. È stata, nel campo dell’istruzione di ogni
ordine e grado, quella di un «gioco a somma zero»: via le discipline
compromesse in qualche modo col passato (tutte discipline storiche), e avanti il
nuovo. E il giocare a somma zero, spiega Paul Watzlawick, è la prima delle Istruzioni
per rendersi infelici.
O almeno, per rendere infelice chi abbia davvero a cuore la
salvaguardia dei presupposti culturali del libero dibattito democratico. Abbiamo
detto finora che le intenzioni che hanno ispirato quest’azione politica
«democratizzante» erano lodevoli. Ora è il momento di distinguere. Nel
discorso sopra citato contro l’insegnamento della glottologia («Che cosa
insegnano i docenti di glottologia? chi stanno preparando e per quali fini?»)
si mostra con evidenza qual fosse il principio guida di questa battaglia: il
sapere - specie il sapere umanistico - non si giustifica da sé, ma solo se
serve a fini di utilità sociale immediata. Dunque, non «glottologia»
(linguistica storica) ma al posto di essa («ormai, fuori d’Italia si
chiudono ogni giorno i vecchi seminari di linguistica comparativa») soltanto
formazione linguistica degli insegnanti di italiano, in quanto direttamente
utile alla società.
Là dove resti privo di questa giustificazione sociale, il
sapere umanistico (e dunque lo studio che deve prepararlo e perpetuarlo) va
smascherato come odiosa prerogativa della classe dominante «avvocatizia».
Classico, dunque classista. Per l’educazione linguistica scolastica questo
principio utilitaristico, di subordinazione assoluta del sapere alla prassi, è
enunciato chiaramente nella seconda delle Dieci tesi per l’educazione
linguistica democratica del GISCEL:
«Lo sviluppo e l’esercizio delle capacità linguistiche non
vanno mai proposti e perseguiti come fini a se stessi, ma come strumenti di
più ricca partecipazione alla vita sociale e intellettuale» [corsivo
aggiunto]. [3]
Sotto l’apparente condivisibilità degli specifici
obiettivi proposti (chi vorrà mai negare che sia bene una «più ricca
partecipazione alla vita sociale e intellettuale»?) si cela il problema di
fondo: sta nell’asserire la necessità di immediata e costante giustificazione
dello studio (e del sapere). Questa subordinazione, a obiettivi dapprima
lodevoli ma pur sempre subordinazione, apre direttamente la porta ad una
ridefinizione degli obiettivi stessi quale quella cui stiamo oggi assistendo. Il
Piccolo dizionario della riforma che il ministero berlusconiano dell’istruzione
ha messo a punto nell’ottobre 2003 parla della «costruzione del portfolio
delle competenze» del bimbo alle elementari (primo ciclo), e della necessità
da parte del corpo docente di «percepire il profilo professionale» del bambino
al termine di quel ciclo (a dodici anni). Ne riferisce Michele Serra,
concludendo che così la scuola diventa «una lunghissima anticamera davanti
alla porta del capufficio. Una precocissima, spietata selezione del
personale». [4] È proprio così, ed è evidente a chi
questo giovi. Non ad un’ottica progressista, perché ogni subordinazione del
sapere (e dello studio) a finalità pratiche dirette è oggettivamente
incompatibile con un ideale umanistico di formazione dell’individuo che si
deve invece tradurre, politicamente, nella formazione del cittadino di una
libera società democratica, capace di riflettere autonomamente, capace di senso
critico.
Eppure, la sinistra italiana per decenni ha condotto una
politica culturale improntata proprio al principio della subordinazione
utilitaristica, un principio che doveva necessariamente - e consapevolmente, per
i suoi ideologi - portare alla marginalizzazione delle discipline umanistiche:
il latino e greco sono classisti, la storia è inutile (forse dannosa) per i
bambini. Dunque, sostituire tutto. Ed ecco dove conduce questo tipo di gioco:
«Si giochi dunque a somma zero a livello relazionale e si
stia pur certi che a livello oggettivo tutto andrà lentamente ma sicuramente in
rovina». [5]
Nella prassi politica della sinistra italiana, la linea guida
della subordinazione utilitaristica si è sposata con un’altra componente:
quella del libertarismo demagogico antimeritocratico e antiefficientista.
Vediamo come, sempre nel caso dell’istruzione.
Per una reale riqualificazione della scuola, la preparazione
degli insegnanti è il fronte strategico. A parole, tutti l’hanno detto, dagli
anni Sessanta ad oggi. [6] Ma nel frattempo, nei fatti,
chi ha governato ha lasciato che il ceto insegnante s’immiserisse, rendendo
questa professione strategica un mestiere da paria: un secondo lavoro, per il
singolo o la famiglia, e un lavoro di secondo rango per la società.
Contemporaneamente, la sinistra italiana lottava con ogni energia perché si
liberassero dalle pastoie della repressione non solo gli studenti ma anche gli
insegnanti: nessuna selezione, prima (a nessun livello, né a scuola né all’università),
nessun controllo di qualità, poi. Lo slogan, che si può sentire ancor oggi
ripetere (specie da politici di sinistra di formazione sindacale, come Fausto
Bertinotti), era «la meritocrazia è il contrario della democrazia». [7] E dunque contestare i «carichi di studio» e gli esami,
evviva i «corsi abilitanti»; contestare i concorsi pubblici, evviva l’immissione
in ruolo dei precari; e via dequalificando.
Sul precariato serve qualche parola in più. Andrebbe,
anzitutto, evitato il formarsi di queste fasce di lavoratori irregolari,
passibili di sfruttamento (oggi si dice, con odiosa mistificazione,
«flessibilizzati»). L’unico modo per evitarlo è reclutare regolarmente con
concorsi seri. Che dunque non vanno contestati, ma al contrario ben gestiti. Una
volta costituitasi, comunque, una tale fascia svantaggiata, essa può e deve
essere tutelata, per esempio attraverso l’attribuzione di un punteggio per il
servizio precario svolto: ma pur sempre un punteggio da far valere in concorsi
pubblici, che accertino in modo onesto e trasparente la competenza. La sinistra
sindacale italiana ha invece costantemente tenuto un’altra linea: quella,
appunto, della rivendicazione dell’immissione automatica in ruolo a
prescindere dall’accertamento della competenza.
Sfuggiva a questa visione dissennata che la vera battaglia
democratica e progressista doveva esser quella della democratizzazione dei
criteri di selezione, non della loro abolizione. Una selezione - operata con
criteri strettamente di merito, dopo aver garantito a tutti pari opportunità di
partenza - è necessaria per ottenere un ceto insegnante preparato: nessuno
affiderebbe la guida di un autobus pubblico a qualcuno, senza essersi accertato
che questi abbia la patente. Per la scuola e l’università, la sinistra
italiana ha ragionato e operato altrimenti.
Sfuggiva anche, e sfugge tuttora, la valenza doppiamente
reazionaria dell’antimeritocrazia. Proteggendo corporativamente l’insegnante
o il bibliotecario in quanto tali, anche se incapaci, e contribuendo
quindi a rendere inefficiente la struttura pubblica, s’impedisce,
immediatamente, che possa progredire culturalmente proprio chi è, di suo,
svantaggiato. Potrà farlo, invece, chi di suo ha i mezzi. Se vuole. Ma alla
lunga - e qui sta il secondo effetto - la squalificazione dell’istituzione si
rifletterà sul valore socialmente percepito del suo oggetto e delle sue
finalità: se la scuola e l’università pullulano d’incapaci e immeritevoli,
la cultura e l’attività intellettuale tout court cesseranno di essere
in onore, di godere di prestigio, presso l’intera compagine sociale. Ne
risulterà di necessità la depressione della capacità di riflessione, di
critica e dunque di analisi politica.
Per le discipline umanistiche in particolare, la politica di
massificazione è arrivata all’apice con la recente riforma universitaria,
frutto di un accordo europeo ma gestita in concreto in Italia, nella sua fase di
attuazione, da governi di centro-sinistra. Qui si sono fuse le due linee di cui
abbiamo parlato: la demagogia lassista e antiefficientista e l’ideale della
subordinazione utilitaristica del sapere alla prassi e all’effetto sociale
immediato, ideale aggiornato con l’etichetta di «professionalizzazione». Sul
primo fronte, per le discipline umanistiche, si è pensato che, come già li si
«liberò» dal tema, si potessero finalmente liberare i poveri studenti da
quella odiosa e oppressiva tesi di laurea. In particolare, gli studenti
destinati a diventare insegnanti di materie letterarie. Per loro basterà il
triennio: la tesi è riservata al ciclo di studi superiore, il biennio della
laurea specialistica. Ma a loro non serve. Basta che, dopo il triennio, imparino
a insegnare frequentando le SSIS (Scuole di Specializzazione per l’Insegnamento
Secondario), affidati alle cure di pedagogisti, in teoria; in mano a insegnanti
medi, nella realtà di molte università italiane. La «democratizzazione» dell’università
è compiuta. Insegnanti medi, a loro volta mal preparati (e mal pagati, ma così
faranno qualche soldarello in più), preparano i docenti di domani, e ciò in
alternativa all’unico momento di esposizione (almeno potenziale) al lavoro
creativo autonomo nell’ambito specifico di competenza. In alternativa,
cioè, alla tesi di laurea, di fatto abolita. Perché è ovvio, se non è
richiesto per andare a insegnare, nessuno s’iscriverà al biennio
specialistico: non si può pensare che lo facciano per amore della
specializzazione (del sapere di più alto livello), quando dall’inizio degli
studi universitari li si è addestrati al culto dell’utilità diretta
(«professionalizzazione»). È in questo culto che ha origine quella «IKEA di
università» di cui ha scritto Maurizio Ferraris. [8]
[1] Per le
lodevoli intenzioni, basta consultare la bibliografia ora citata e inoltre le Dieci
tesi per l’educazione linguistica democratica del GISCEL [Gruppo d’intervento
e di studio nel campo dell’educazione linguistica, costituito in seno alla
Società di Linguistica Italiana], ispirate dal futuro ministro, del 1974, in
Renzi e Cortelazzo, cit., pp. 93-104.
[2] Tullio De Mauro, Grande dizionario italiano dell’uso, 6
voll., Torino, UTET 2000. Nel vol. VI, a p. 266 si passa direttamente da glottocronologico
a glottodidattica.
[i] Id., La
questione della lingua, in Corrado Stajano, La cultura italiana
del Novecento, Roma-Bari, Laterza 1996, pp. 423-444, a p. 431.
[i] Id., contributo
al dibattito su Come si insegna nelle università l’italiano in Italia, «Rinascita»,
19 marzo 1966 [rist. in Oronzo Parlangèli, La nuova questione della lingua, Brescia,
Paideia 1971, pp. 391-432, a p. 396.
[3] Cit. alla n. 10, a p. 101.
[4] Michele Serra, Il bimbo manager della Moratti,
«Repubblica» 9 ottobre 2003, p. 17.
[5] Paul Watzlawick, Anleitung zum unglücklich sein, Monaco,
Piper, 1983, trad. it. Istruzioni per rendersi infelici, Milano,
Feltrinelli, 1984, p. 100.
[6] Si ripete continuamente, nelle pagine che abbiamo
citato (alle note 6, 7 e 11), che la nuova educazione linguistica avrebbe dovuto
essere più ardua e impegnativa della precedente, affidata a insegnanti più
competenti, certamente non lassista, ecc. ecc.
[7] L’ho
(ri)sentito da lui con le mie orecchie durante una puntata di Sciuscià
(di Michele Santoro, Rai 3, inverno 2001), quando ancora in Rai, prima della
serrata berlusconiana postelettorale (all’insegna del «non faremo
prigionieri») andavano in onda con qualche frequenza dibattiti politici degni
di questo nome.
[8] Maurizio Ferraris, Una
ikea di università. Milano, Raffaello Cortina 2001.