Il Meridione: da terra di conquista a fronte di resistenza
Paolo Graziano
La questione delle scorie radioattive in Basilicata
|
Stampa |
...e mi avevano guardato con stupore quando io avevo
detto che lo Stato, come essi lo intendevano, era invece l’ostacolo
fondamentale a che si facesse qualunque cosa.
Carlo Levi, Cristo si è fermato ad Eboli
1. Trent’anni di sfruttamento
A scrutare tra le pieghe di un trentennio di sfruttamento, a
frugare attentamente tra gli atti amministrativi e gli indirizzi politici, il
decreto che dispone lo stoccaggio delle scorie nucleari prodotte da un’intera
nazione in un paesino sperduto sulla costa jonica della Basilicata, altrimenti
dimenticato dall’amministrazione centrale, risultava un atto annunciato.
Scanzano Jonico è un paese giovane, istituito soltanto nel 1974 sulla base di
un insediamento derivato dalla riforma fondiaria che ha prodotto un’agricoltura
fiorente - ortaggi, frutta, grano - ma a prezzo di fatiche notevoli e di una
dedizione assoluta al lavoro. Qui non c’è alternativa alla terra: è l’unica
risorsa che non è sfumata al tramonto di una stagione politica o di un
programma d’insediamento industriale. Ma le ipoteche stipulate dagli interessi
nazionali e privati sulla Lucania mettono a repentaglio, da troppo tempo, anche
la sua sopravvivenza.
A dettare la dottrina dello sviluppo tecnologico e
industriale, in questa regione, fu dapprima l’insediamento del centro dell’ENEA
nella Trisaia di Rotondella, sullo stesso litorale scanzanese: trent’anni fa
sembrava il vascello destinato a traghettare questa terra avara lontano dalle
risacche della miseria, finché l’illusione si è lentamente dissolta di
fronte ad una lunga fila di incidenti ambientali (ne sono noti 11), soltanto
recentemente denunciati. Qualche anno dopo al territorio venne inferta una nuova
ferita: cominciarono gli scavi alla ricerca dell’acqua e soprattutto del
petrolio, che attira sulla Basilicata gli interessi delle multinazionali degli
idrocarburi. Nel corso di una trivellazione condotta dall’AGIP a Terzo Cavone,
sul finire degli anni ’60, venne alla luce un’altra ipotesi di sviluppo,
sotto forma di prezioso salgemma. Il minerale, da cui si ricava sale purissimo
per l’industria farmaceutica, sembrava garantire un prospero avvenire alla
regione jonica. Ad un incerto futuro, intanto, si sacrificava il presente: nelle
zone delle cave l’agricoltura si bloccò, 120 ettari di terra (poi ridotti a
60) furono desinati all’evaporazione del salgemma. In realtà non era il sale
a suscitare il maggiore interesse, ma le enormi cavità sotterranee derivanti
dalla sua estrazione. Si attribuiva, così, un’ennesima vocazione alla
Basilicata: deposito di idrocarburi, di rifiuti tossici e radioattivi. Un
progetto probabilmente non proprio recente, come testimoniano le osservazioni di
Nico Perrone su “Liberazione” del 28 dicembre 1999 [1], ma tenuto nel cassetto fino alla firma del decreto del
novembre 2003, che designa Scanzano Jonico come sede del deposito unico
nazionale per la conservazione delle scorie radioattive. Come altre volte, senza
nulla chiedere ai Lucani. Alla delibera calata dall’alto dei palazzi romani,
però, risponde stavolta una immediata e spontanea mobilitazione popolare, ricca
di simboli e citazioni dalla storia di quella terra eppure radicalmente nuova
nella composizione e nelle modalità di espressione. Dopo circa quindici giorni
di intensa opposizione popolare, il nome di Scanzano è stato cassato dal testo
del provvedimento governativo.
2. Il Sud nelle strategie di gestione degli esiti del nucleare
“Abbiamo provocato una sollevazione popolare”. Per una
volta Berlusconi ha sintetizzato perfettamente la situazione: con questa
lapidaria affermazione - attribuitagli dai giornali all’indomani della
revisione del provvedimento legislativo per il deposito della scorie nucleari -
il presidente del Consiglio bolla l’affaire Scanzano come un disastro
comunicativo. Per una volta, dunque, bisogna dargli ragione poiché il lungo
itinerario che porta all’approvazione dello sciagurato decreto-legge n. 314
del 13 novembre 2003 risulta di un’insipienza politica evidente.
Varato in sordina, forse con l’intenzione di aggirare il
vaglio dell’opinione pubblica, il testo legislativo, divulgato sulla Gazzetta
Ufficiale n. 268 del 18 novembre, è intitolato: “Disposizioni urgenti per la
raccolta, lo smaltimento e lo stoccaggio, in condizioni di massima sicurezza,
dei rifiuti radioattivi”. Per giunta, il provvedimento si avvale dello
strumento del decreto-legge, per sua natura destinato alle procedure impellenti
che non possono attendere i tempi dell’iter parlamentare.
Probabilmente un primo macroscopico errore comunicativo è
costituito appunto dal carattere d’urgenza che il provvedimento ha acquisito
agli occhi della popolazione locale, innescando il detonatore di una violenta e
improvvisa contestazione. Tale collegamento si manifesta, con tutta evidenza,
nei timori espressi dai manifestanti all’indomani della pubblicazione della
notizia. Attorno alla vecchia miniera di Salgemma immediatamente occupata,
Antonio Massari de “il manifesto” registra la diffusione di un vero e
proprio “effetto panico”, raccogliendo da un cittadino di Scanzano questa
allarmata dichiarazione: “Le scorie potrebbero arrivare da un momento all’altro,
dobbiamo impedire che questo accada” [2]. Si tratta evidentemente di una
preoccupazione sorretta dai segnali pervenuti dal procedimento adottato nell’approvazione
del decreto.
D’altro canto, il metodo utilizzato nella fase deliberativa
appare soltanto il risultato di una linea d’azione intrapresa anni addietro,
che ha attraversato tre tappe principali:
1. Il cambiamento di strategia del decommissioning
dei siti nucleari alla fine degli anni ’90: la pratica di conservazione
passiva degli impianti ha lasciato il posto alla progettazione di interventi
relativamente rapidi di smantellamento e di stoccaggio delle scorie in siti
appositi;
2. La creazione nel 1999 della Sogin S.p.a. (Società per
la Gestione degli Impianti Nucleari), una società per azioni deputata alla
“gestione degli esiti del nucleare”, costituita dall’ENEL e passata nel
2000 sotto il controllo del Ministero del tesoro, del bilancio e della
programmazione economica. La nascita della società, cui viene successivamente
delegato il problema dello smaltimento dei rifiuti, si inserisce nel quadro
della liberalizzazione del mercato elettrico sancita dal decreto legislativo
n. 79 del 16 marzo 1999, che di fatto apre la strada all’intervento di
soggetti diversi dallo Stato nel settore energetico;
3. Il conferimento alla Sogin S.p.a. della delega in
materia di trattamento e gestione dei rifiuti radioattivi (Convenzione
E.N.E.A.- Sogin S.p.a. del 13/05/2003, eseguito con Ordinanza del Commissario
Delegato n. 9 del 29/07/2003) e l’individuazione di tale società come
soggetto deputato ad operare scelte strategiche in materia di energia
nucleare. È stata più volte segnalata, al proposito, l’inconciliabilità -
in via di principio - della carica di presidente della Sogin e di commissario
delegato dal governo per la sicurezza dei materiali nucleari, entrambe
radunate nella persona del generale Carlo Jean.
Il ruolo svolto dalla Sogin S.p.a. nella definizione delle
strategie di smaltimento risulta evidente dal resoconto dell’audizione del
generale al Parlamento, avvenuta il 26 febbraio 2003. In tale circostanza, il
Presidente della Sogin sottolinea l’impasse nella scelta del sito unico
per il deposito delle scorie, dovuto al mancato passaggio delle competenze in
materia alla s.p.a.: “La Sogin non è stata incaricata, per adesso, dal
Ministero delle attività produttive di individuare possibili siti nazionali.
Nessuno ce lo ha chiesto; se qualcuno lo farà, l’approccio che riteniamo
migliore è quello di prendere come consulenti coloro che hanno costruito all’estero
analoghi siti, perché si tratta di persone che hanno un’esperienza diretta
che supera qualsiasi apporto di conoscenza o di elaborazioni teoriche” [i]. Come
si può constatare, il metodo indicato dal vertice della Sogin prevede la scelta
del sito unico di raccolta delle scorie sulla base delle esperienze condotte da
altri paesi e del know-how pratico accumulato dai tecnici che hanno presieduto
altrove alla costruzione dei depositi. Al tempo stesso, il generale Jean giudica
inutilizzabili gli studi condotti dall’ENEA (Ente Nazionale per l’Energia
Atomica) per individuare sicuri siti di raccolta: “I criteri della commissione
Bernardini, seguiti dall’ENEA, sono stati fissati alla metà degli anni
novanta: si tratta di criteri che escludono non solamente le isole, nel caso
particolare italiano, ma anche la possibilità di mettere questi materiali in
miniere o in grotte. Le nuove direttive della Comunità europea invece
rovesciano completamente i criteri, per cui quegli studi, pur essendo stati
effettuati molto accuratamente da scienziati preclari, sono di scarsa utilità
pratica” [i]. Trattandosi dell’unica indagine ad ampio raggio
disponibile, la liquidazione del lavoro dell’ENEA (pur indiscutibilmente
datato) equivale ad avallare un approccio dirigista che ha portato all’individuazione
di un sito di raccolta per decreto legge, ignorando la fase delle “ampie
consultazioni con le popolazioni locali” previste dal protocollo dell’IAEA
(International Atomic Eneregy Agency) per la designazione dei luoghi di
stoccaggio delle scorie.
L’esigenza di una maggiore concentrazione di poteri nell’affare
dello smaltimento emerge, altresì, nella richiesta dei vertici della Sogin al
governo di strumenti legislativi più “agili”, che consentano di snellire il
complesso iter autorizzativo necessario a manovrare scorie radioattive: “Mi è
stato chiesto se occorra un’altra legge. A mio avviso sì, perché le leggi
attuali, come diceva prima l’ingegner Bolognini, ritardano qualsiasi processo
decisionale ed impediscono qualsiasi pianificazione, per cui dobbiamo andare
avanti alla giornata non sapendo se e quando verranno date le autorizzazioni
richieste [...] Per esempio [sarebbe auspicabile] una legge sul one stop
licensing. Il fatto di avere l’approvazione dell’intero progetto,
anziché pezzo per pezzo, consente di fare una pianificazione” [i].
Alla luce di questa conversazione avvenuta soltanto pochi
mesi fa in Parlamento, risulta sorprendente constatare come il decreto
novembrino sintetizzi la filosofia d’azione proposta da Carlo Jean,
individuando senza previe consultazioni un sito di stoccaggio in una zona già
più volte sacrificata sull’altare dell’interesse nazionale e prevedendo
ampi margini di azione rispetto alle normative vigenti per il commissario
straordinario addetto alle operazioni di “messa in sicurezza” dei rifiuti. L’articolo
2 del decreto n. 314, infatti, prevede la nomina di un commissario che - in
deroga alla normativa - provveda alla validazione del sito individuato, all’allestimento
di strutture temporanee da realizzare sullo stesso sito dei rifiuti radioattivi
ora distribuiti sul territorio nazionale, rilasciando le relative licenze, all’approvazione
del piano economico finanziario, all’affidamento degli incarichi di
progettazione e di costruzione del deposito nazionale, alle procedure
espropriative.
Nelle sue linee di fondo, la strategia politica rintracciabile dietro questa
vicenda appare simile a quella adottata, cinquant’anni fa, dal governo
italiano nella costruzione del primo impianto nucleare italiano, sul Garigliano.
Secondo la ricostruzione degli storici, nella primavera del 1956 la Birs (Banca
Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo) propose al governo italiano
uno studio sui vantaggi derivanti dall’installazione di una centrale nucleare
in Italia. Dopo una serie di riunioni bilaterali, si giunse alla costituzione di
una società (la Senn, una costola dell’Iri) deputata alla costruzione dell’impianto
sotto la guida di una diarchia composta da Ippolito e Allardice. “L’accordo
chiosa Melania Cavalli - fu firmato segretamente il 27 luglio 1957 ed
annunciato con molto scalpore in agosto. Prima nessuno ne aveva saputo niente:
né il Parlamento, né il Paese” [3]. Sul “Globo”
di quei giorni (15 novembre 1957), lo stesso Felice Ippolito precisava che era
stata proprio l’Italia ad imporre la condizione che l’impianto fosse
costruito nel Meridione. Un secondo accordo, quello tra la General Electric
americana e la Senn, prevedeva una prova di collaudo dell’impianto limitata a
cento ore di attività a pieno carico, quando invece la prassi ne consigliava
alcune migliaia.
È facile individuare, nella vicenda odierna, gli stessi vizi
procedurali di allora: decisioni dall’alto, accordi preliminari e poco
trasparenti che escludono il coinvolgimento della popolazione, insufficiente
approfondimento delle questioni tecniche e delle problematiche ad esse connesse
e - non ultimo - la scelta del Meridione come territorio destinato a sopportare
i costi maggiori di uno sviluppo industriale ed economico distorto e
fallimentare. Tuttavia la storia difficilmente si ripete: e qualcuno ha
osservato che, quando ciò avviene, se la prima volta è finita in tragedia (si
veda il dissesto ambientale e gli infiniti incidenti provocati dalla centrale
del Garigliano) la seconda finirà in farsa.
3. “Giù le mani dalla mia terra”: l’opposizione della popolazione
locale
Sono scesi in piazza i “nuovi briganti” [4], ammoniva uno dei cartelli utilizzati durante la protesta dai cittadini
di Scanzano, che ha vanificato il tentativo di deputare un’intera regione al
ruolo di pattumiera d’Italia. La citazione, soprattutto perché effettuata dai
contadini lucani, non va interpretata come un semplice elemento folkloristico
della reazione popolare al decreto: al contrario, essa può fornirci alcune
indicazioni per comprendere la natura della mobilitazione di Scanzano e le
ragioni del suo successo sulla strategia del governo.
All’indomani della pubblicazione del decreto, le prime
manifestazioni di rabbia e delusione dei contadini della lucania jonica vedevano
la pubblica distruzione delle tessere di partito da parte dei militanti. Si
tratta di un primo segnale di uno stato d’animo condiviso - la sensazione del
“tradimento della politica” - che prefigura una peculiarità della protesta:
la mobilitazione spontanea e partecipata, senza mediazioni di partiti o
sindacati [5]. L’iniziativa
popolare, infatti, si è sviluppata attraverso l’immediato presidio del
territorio: è stata attuata l’occupazione delle zone limitrofe al pozzo
numero tre della miniera di Salgemma e, successivamente, di alcuni luoghi
istituzionali come l’aula del Consiglio comunale. Nei giorni seguenti, la
Basilicata risultava pressoché isolata dal resto d’Italia per l’occupazione
delle arterie di collegamento principali con il resto del paese: dal 18 novembre
erano impediti i collegamenti ferroviari tra Puglia e Calabria, mentre restava
occupata la statale 106 Jonica e la Basentana che congiunge Taranto e Salerno.
Il giorno successivo, i cronisti registravano l’occupazione di un tratto di
venti chilometri circa dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria, tra Lauria e
Lagonegro [6]. Ad un osservatore attento di quelle vicende,
non poteva sfuggire il significato assolutamente eccezionale di quei presidi
spontanei: non una semplice manifestazione di protesta, ma il segnale di una
volontà di riappropriazione del territorio, l’affermazione dell’esistenza
di un legame con la terra più antico di quello sancito dalla giurisprudenza
delle relazioni internazionali. A rappresentare visibilmente questo temporaneo
“passaggio di competenze”, sono stati eretti in quei giorni improvvisati
posti di dogana che potevano essere valicati soltanto previo superamento di un
test (16 domande per un totale minimo di 30 punti) utile a dimostrare la
conoscenza dei termini della questione delle scorie [7].
Ora, il controllo e l’occupazione del territorio è un
gesto che assume una carica simbolica particolare in alcune zone del meridione e
si afferma, come manifestazione di dissenso, contemporaneamente al sorgere di un’autorità
statale centrale a seguito del processo di unificazione d’Italia. Secondo
Salvatore Scarpino, i primi fuochi del brigantaggio si manifestarono già nell’autunno
del 1860, in Calabria e in Abruzzo, “per difendere gli antichi usi civici”
legati appunto allo sfruttamento del territorio, come “far legna, seminare,
pascolare sui terreni demaniali” [8]. La mancata quotizzazione
delle terre demaniali del sud Italia, da cui si attendeva un allargamento del
ceto dei piccoli proprietari, è in effetti considerata una delle principali
cause del malcontento nei confronti dell’autorità nazionale e del nuovo
ordine sociale che essa rappresentava: “Per i cafoni era una situazione senza
uscita: erano espulsi dall’universo feudale - che tuttavia garantiva qualche
possibilità di sopravvivenza - e non potevano entrare nel mondo capitalistico,
moderno, in qualità di proprietari [...] è documentato che, ogni qual volta la
questione dei fondi si riacutizzava, si registrava nelle campagne un aumento del
brigantaggio” [i].
Ottant’anni più tardi, nelle stesse zone, la questione
agraria non ancora risolta scatenava il vasto movimento di lotte per la terra
del Mezzogiorno d’Italia, sviluppatosi nel decennio compreso tra il 1943 e il
1953. Questa volta, le pratiche di riappropriazione del territorio da parte dei
contadini meridionali assunsero risvolti tragici proprio in Lucania, con l’eccidio
della popolazione di Montescaglioso. Il luogo in cui esercitare la massima
violenza repressiva non fu probabilmente scelto a caso. Nel suo saggio sull’occupazione
delle terre, Paolo Cinanni rileva che “a cominciare dalla seconda metà di
novembre [del 1949] tutte le regioni meridionale vedono scendere in lotta le
masse contadine. Fra le prime c’è la Basilicata, e più precisamente i
contadini dei paesi jonici, che da secoli condividono con i contadini calabresi
la stessa sorte, le stesse angherie, le stesse usurpazioni” [9].
La fascia jonica della Basilicata conserva, dunque, memoria
di un rapporto conflittuale con l’apparato centrale dello Stato, espresso
soprattutto nella contesa per il possesso e la gestione del territorio. Una
lunga tradizione di studi di antropologia politica sottolinea l’importanza
della rappresentazione di legami tra persone e territorio nella costruzione
della coesione sociale, di un comune senso di appartenenza: l’esibizione di
simboli che incarnano tali relazioni - la linea della frontiera, l’occupazione
del suolo - rinvia soprattutto al concetto di proprietà del territorio, poiché
scrive Raymond Firth - “la terra è la base del potere e della libertà”
[10]. L’adozione
di questi simboli da parte della gente di Scanzano, in esplicita concorrenza con
l’esclusività con cui lo Stato li amministra, apre dunque un contenzioso tra
l’autorità centrale (e i suoi rappresentanti locali, in palese difficoltà
nel definire la propria collocazione nella geografia della lotta) e la
popolazione locale, che risulta radicale e violento sul piano dell’immaginario
anche quando evita radicalità e violenza nelle pratiche della protesta e della
repressione. I termini dello scontro, infatti, non prevedono negoziazioni: da un
lato, i lucani esibiscono il proprio ancestrale rapporto con la terra che
abitano, contestandone gli usi catastrofici disposti dal Governo; dall’altro,
lo Stato rivendica il diritto, garantito dal patto costituzionale, a gestire il
territorio in funzione del superiore interesse nazionale. Eppure, nel conflitto
delle rappresentazioni, il diritto dei contadini lucani a disporre del
territorio su cui vivono è apparso, durante la protesta, di gran lunga più
trasparente di quello dell’autorità centrale, per quanto quest’ultimo
risulti legittimato dalle norme sulla potestà del territorio, implicitamente
richiamate anche nel testo revisionato del decreto [11]. Probabilmente tale percezione deriva dall’efficacia
simbolica dei gesti e delle azioni che hanno articolato la protesta di Scanzano.
Se la forza comunicativa di un simbolo si misura dalla sua trasparenza, ovvero
dalla capacità di esibire un “legame motivato” [12] tra simboleggiante e
simboleggiato, non si può evitare di riconoscere nei volti dei contadini
bruciati dal sole e nei trattori parcheggiati di traverso sulla strada delle
icone eccezionalmente appropriate per descrivere un millenario rapporto con un
territorio avaro, cui è stato strappato ogni grammo di benessere e di agio. Nel
rilevare l’immediata riconoscibilità dei simboli di questa mobilitazione,
Sandro Medici scriveva: “si rappresentavano da sé, quelle anziane signore,
non avevano bisogno d’altro. Avevano tuttavia una forza interiore che si è
subito capito sarebbe stata invincibile. E gli stessi municipi, così come l’estesa
rete solidale delle varie rappresentanze politiche locali, hanno fatto lo
stesso: si sono mostrati per quello che sono. Per contrapporsi al deposito
nucleare hanno usato gli argomenti che trattano quotidianamente, la campagna, il
mare, la frutta, gli ortaggi, il pesce. Arcaismi? Non è così, si ricredano i
molti che pensano ancora a un sud bisognoso di fabbriche o peggio. Seminare un
campo di fragole è una scelta strategica, garantisce economie e redditi,
oltreché salute e benessere. Salvaguarda uomini e cose e, alla lunga, assicura
ricchezze” [13].
4. La linea di fuoco. Nuovi fronti e protagonisti della lotta
Il successo della protesta della “piccola patria” lucana,
che ha opposto la limpidezza dei simboli di una tradizionale empatia con la
terra al cupo atteggiamento neocolonialista dell’apparato statale, segnala
certamente i limiti della strategia politica del governo nella gestione del
post-nucleare, ma anche l’insorgenza di ulteriori fronti di lotta, di cui la
galassia antagonista non può non tener conto.
Un primo punto da considerare riguarda la geografia del
conflitto: all’attacco ormai sistematicamente condotto contro le periferie,
deputate dalle pratiche della globalizzazione alla fornitura di risorse umane ed
ambientali a basso costo, corrisponde l’emersione di nuovi soggetti
antagonisti, estranei o marginali rispetto alla tradizione della sinistra
europea. Con loro, entrano spesso nell’agone inedite modalità di lotta,
suggerite alla prassi politica da mentalità e stili di vita locali, talvolta
apparentemente arcaici ma senz’altro caratterizzati da valori riconoscibili e
condivisibili. I contadini di Scanzano e i contenuti della loro reazione ben
rappresentano - come prima e con ben altra risonanza mediatica ha fatto Jose
Bove in Francia - questa moltiplicazione delle linee di fuoco, ciò che Rusconi
chiama “il ritrovato interesse della gente a praticare la propria cittadinanza
politica nell’orizzonte locale o regionale” [14]. Non appare
peraltro una chiusura - e siamo alla seconda rilevante novità rappresentata in
Italia dalla protesta lucana - la focalizzazione della protesta sulle questioni
insorte in una piccola area geografica, poiché le popolazioni locali già
sviluppano gli anticorpi alle strategie globali e cominciano ad individuare con
chiarezza, nei problemi concreti di gruppi lontani, la prefigurazione di
eventuali questioni che diventeranno pericolosamente vicine in un futuro
prossimo. Per questo motivo le istanze della protesta di Scanzano sono state
immediatamente percepite e appoggiate dentro e fuori d’Italia, persino dalle
categorie e dalle popolazioni più colpite dalla contestazione lucana: dopo il
blocco delle strade, il consorzio locale degli autotrasportatori ha deciso di
appoggiare la piattaforma della protesta e i cittadini pugliesi e calabresi
castigati dal blocco ferroviario e viario hanno sfilato con i lucani, scandendo
lo slogan: “Scanzano siamo anche noi” [15].
Sta d’altronde in questa capacità di percepire l’ingiustizia
commessa contro le vittime designate della macina globalizzatrice, sta nella
possibilità di intervenire a riparo delle ferite aperte dalla strategia
neocoloniale la chance della sinistra antagonista internazionale per
negoziare uno sviluppo rispettoso delle esigenze e degli interessi della gente
comune.
[1] “Sottovoce si parla
anche dello stivaggio di rifiuti tossici nelle caverne del salgemma, sfruttando
il naturale e forte isolamento, costituito dalle residue pareti di sale rispetto
all’esterno”.
[2] A. Massari, La rivolta di Scanzano,
in “il manifesto”, 15 novembre 2003.
[i] Audizione
di Jean (Sogin S.p.a.) al Parlamento, seduta del 26 febbraio 2003.
[i] Ibidem.
[i] Ibidem.
[3] M. Cavalli, Il veleno nella coda. Il
problema dello smantellamento delle centrali nucleari, in “WWF Quaderni”,
n. 8, 1987, p. 5. Per i dettagli di tale passaggio politico cfr. anche M.
Silvestri, Il costo della menzogna, Einaudi, Torino 1968.
[4] Cfr. S. Medici,
La vittoria dei nuovi”briganti”, in “il manifesto”, 28 novembre
2003.
[5] A ben vedere, è una situazione analoga a quella registrata nel corso
dei recenti scioperi dei trasporti, in cui i lavoratori hanno dettato il passo
ai partiti e ai sindacati confederali. Lo sviluppo di queste azioni, a poca
distanza l’una dall’altra, segnala senz’altro l’insufficienza dell’attuale
proposta dei rappresentanti istituzionali della sinistra e del mondo del lavoro,
che determina una ripresa diffusa dell’azione di base.
[6] Cfr. A. Massari, La lunga notte di Scanzano, in “il
manifesto”, 19 novembre 2003.
[7] Cfr. A. Massari, La
rabbia di Scanzano verso l’assedio finale, in “il manifesto”, 23
novembre 2003.
[8] S. Scarpino, Il brigantaggio dopo l’unità
d’Italia, Fenice 2000, Milano 1993, p. 50.
[i] Ivi, p. 52.
[9] P. Cinanni, Lotte
per la terra nel Mezzogiorno 1943-1953, Marsilio, Venezia 1979, p. 65.
[10] R. Firth, I simboli e le mode [1972], Laterza, Bari 1977, p. 324.
[11] Nel testo emendato, le
valutazioni tecniche non saranno più attribuite solo alla Sogin ma a una
commissione tecnico-scientifica composta da 14 esperti nominati dal governo e
dalla conferenza dei presidenti delle regioni che supporterà l’agenzia
nucleare. Il gruppo valuterà le eventuali proposte dei rappresentanti delle
regioni e delle province autonome di Trento e Bolzano, per poi designare una
rosa di soluzioni tra cui scegliere. Il consenso delle amministrazioni locali
non è vincolante.
[12] Cfr. S. Briosi, Il
simbolo, La Nuova Italia, Firenze 1998, pp. 7-9.
[13] S. Medici, La vittoria dei nuovi”briganti”, cit.
[14] G. E. Rusconi, Se cessiamo
di essere una nazione, il Mulino, Bologna 1993, p. 11.
[15] Cfr. A. Massari, Scanzano si
ferma contro le scorie, in “il manifesto”, 16 novembre 2003.