1. A Bruxelles il 13 dicembre la Conferenza
Intergovernativa dell’Unione Europea ha sancito la mancata ratifica da parte
dei venticinque paesi (già membri o prossimi componenti) dell’Unione del
trattato costituzionale predisposto dalla Convenzione presieduta dall’ex
Presidente della Repubblica francese Valery Giscard d’Estaing (e che vedeva
come vice presidente l’ex Presidente del Consiglio italiano Giuliano Amato).
Il testo è stato difeso a spada trattata dallo stesso
Giscard e presentato come immodificabile: si diceva che quel lavoro
rappresentava la più alta mediazione possibile e che senza di esso sarebbe
stato impossibile andare avanti nel percorso di costituzionalizzazione del nuovo
gigante continentale.
Sappiamo invece che quel percorso e quel testo si sono
arenati di fronte alle difficoltà ed in primo luogo di fronte alla accesa
opposizione da parte di Spagna e Polonia (ovvero del quinto tra gli attuali
quindici paesi dell’Unione e del paese più grande tra i paesi coinvolti nel
cosiddetto allargamento).
Si è chiuso così il semestre di presidenza italiana dell’Unione,
un semestre segnato peraltro (e per altri versi) da violentissime polemiche, che
certamente non hanno favorito la positiva conclusione del percorso
costituzionale europeo; un semestre peraltro che ha seguito quello segnato dall’accesissimo
confronto e dalle aspre divisioni sulla politica americana della guerra
preventiva.
La domanda - a due mesi di distanza dal fallimento della
Conferenza intergovernativa - su quale sarà d’ora in avanti il processo
politico europeo resta allo stato senza risposta.
Andrà in crisi il progetto stesso dell’Unione, l’Unione
è destinata a restare soltanto un grande spazio economico, o invece il grande
progetto istituzionale che - tra difficoltà e contraddizioni - è comunque
avanzato in questi anni andrà ancora avanti, sia pure con tempi e modalità
diverse da quelle definite a Laeken?
Sotto questi ed altri interrogativi è cominciato il semestre
di presidenza irlandese, un semestre caratterizzato dalla competizione
elettorale in primavera per il rinnovo del Parlamento europeo, una grande
consultazione cui per la prima volta parteciperanno gli elettori dei dieci Stati
che dal primo maggio entreranno nell’Unione1.
Molti considerano più saggio un semestre di riflessione per
poi passare la mano nella seconda metà del 2004 alla presidenza olandese, molto
più avvezza a chiudere importanti trattati (come è avvenuto a Maastricht e ad
Amsterdam).
Nel corso del primo semestre di quest’anno sono appunto
previste le elezioni per il rinnovo del parlamento europeo, ma anche le elezioni
politiche in Spagna, ovvero in uno dei due paesi che più si sono opposti al
sistema di voto della doppia maggioranza caldeggiato principalmente da Francia e
Germania.
Questa esigenza di riflessione costringe anche noi a
modificare i tempi di lavoro che ci eravamo proposti, e che prevedevano in
questo numero di Proteo l’esame della terza parte del trattato costituzionale,
la parte più voluminosa, più dettagliata ed anche la più criticata e
criticabile. Rinviamo quindi necessariamente una analisi attenta del testo - se
ci sarà un testo da esaminare, ovvero se il processo iniziato a Laeken andrà
in porto - ad un momento successivo alla sua approvazione. Ora converrà
analizzare alcune questioni di carattere generale che - nonostante gli esiti del
semestre di presidenza italiano - si impongono alla nostra attenzione, con uno
sguardo anche a quale potrebbe essere l’atteggiamento della sinistra, dei
movimenti, del mondo del lavoro rispetto al percorso costituzionale europeo.
Sino ad ora questi attori del dibattito politico-sociale sono stati i grandi
assenti nella scena del dibattito sul futuro dell’Unione Europea.
2. Torniamo alla vicenda elettorale. Il 13 giugno si va
al voto per un Parlamento europeo che muta fortemente nella sua composizione.
Per fare spazio ai rappresentanti dei dieci nuovi stati
membri (che entreranno formalmente nell’Unione il primo maggio 2004) il numero
dei deputati aumenta da 626 a 732 e per i quindici paesi attuali componenti dell’Unione
i seggi vedranno una diminuzione, con l’eccezione della Germania che manterrà
i suoi novantanove seggi. Nel 2007 quando faranno il loro ingresso nell’Unione
la Bulgaria e la Romania i seggi diventeranno 786 e tale numero di parlamentari
permarrà sino alla fine della legislatura, ovvero sino al 2009. A meno di nuovi
ingressi il numero dei parlamentari - con la nuova legislatura - dovrebbe
tornare a 732, con un nuovo ridimensionamento del numero di parlamentari
previsto per ogni gruppo nazionale.
Va considerato ancora che i venticinque dovranno - nel vertice di dicembre
2004 - decidere cosa fare della richiesta di Ankara, e cioè dovranno definire
se iniziare le trattative per la adesione della Turchia all’Unione. Sulla
decisione, come è ovvio, pesano molti fattori e molte incognite (rese ancora
più pesanti dalla vicenda del ruolo giocato dai paesi nuovi entranti, in
primis la Polonia, in questa fase della vita politica dell’Unione).
Tornerà anche con riguardo alla Turchia, e con maggiore vigore, la polemica in
ordine alla ripartizione dei voti nel Consiglio e sulla proposta giscardiana
della doppia maggioranza (ovvero il cinquanta per cento degli stati che
rappresentino almeno il sessanta per cento della popolazione dell’Unione): la
Turchia - unico paese musulmano - avrebbe il peso demografico maggiore.
Intorno alla vicenda turca si colloca, tra le altre
questioni, il problema di Cipro. L’isola entra dal primo maggio nell’Unione,
ma solo con la sua componente greco-cipriota: certamente una soluzione rapida
del conflitto con la parte turco-cipriota faciliterebbe il cammino di Ankara
verso l’Europa.
Oltre alla questione turca, la presidenza irlandese dovrà
anche seguire l’evoluzione del rapporto con gli stati balcanici, ed
innanzitutto con la Croazia, che appare tra i paesi di quell’area la candidata
più probabile all’ingresso nell’Europa.
Accanto al problema del rapporto tra gli Stati si pone
evidentemente quello del rapporto tra i grandi schieramenti politici dell’Europa:
la lotta è innanzitutto tra socialisti e popolari per ottenere la maggioranza a
Strasburgo e con essa la presidenza del Parlamento (e perché no, anche della
Commissione).
Si lavora per affiliare politicamente i partiti dei dieci
nuovi stati con tentativi di accorpamenti sempre più spregiudicati (si leggano
anche sotto tale profilo, ad esempio, alcune delle scelte più recenti assunte
da Fini e da Alleanza Nazionale).
Il primo novembre 2004 terminerà il mandato della
Commissione presieduta da Romano Prodi. E dal primo maggio ognuno dei dieci
stati membri avrà un suo commissario, senza portafoglio ma con il potere di
voto.
Questo elemento rimanda ad un altro: nei prossimi mesi la
battaglia forse più dura in Europa sarà quella intorno al bilancio
comunitario. La Commissione sta presentando le proposte per l’esercizio
2007/2013, e quindi per definire obiettivi e priorità dell’Unione, con l’assegnazione
delle relative risorse. Quindi inizierà lo scontro vero e proprio, ma le
pressioni si fanno già sentire.
Va considerato che all’indomani dell’interruzione del
processo di adozione del trattazione costituzionale europeo, alcuni paesi forti
(Francia, Germania, Regno Unito, Svezia, Olanda e Austria) hanno chiesto di
diminuire il tetto del bilancio comunitario, che è attualmente fissato allo 0,2
del Prodotto Interno Lordo dell’Unione Europea. Si tratta naturalmente di una
mossa in danno di Spagna e Polonia, un attacco principalmente rivolto cioè ai
due paesi riottosi sulla questione del calcolo dei voti. Questo avviene nel
momento in cui entrano in Europa settantacinque milioni di nuovi cittadini, con
nuove esigenze ed un grande divario da colmare rispetto ai quindici, e mentre il
PIL cresce a stento.
3. Accanto a questo quadro fatto di incertezze, di
scontri palesi e meno palesi, di tensioni che si sommano a quelle già
prodottesi nel corso dell’anno passato specie intorno al rapporto con gli
Stati Uniti d’America nella vicenda irakena, riprende forza e fiato la
questione e la prospettiva - rispetto alla quale abbiamo già avuto modo di
soffermarci - dell’Europa a due velocità.
Di fronte al quadro di insieme fatto di posizioni
difficilmente conciliabili tra loro, di intrecci e di incroci non governabili e
sino ad ora non governati, di alleanze a schemi variabili, riprende forza la
prospettiva di una sorta di direttorio, ovvero due o tre locomotive che in
qualche modo possano guidare questo variopinto convoglio di oltre venti vagoni.
La novità - rispetto a qualche mese fa - è che accanto al
duo ormai consolidato ed affiatato costituito da Francia e Germania (la Framania
di Schroeder e Chirac) si affianca in modo abbastanza stabile ed organico la
Gran Bretagna di Blair, ovvero la grande avversaria sul versante del rapporto
con gli U.S.A. di Bush di non più di pochi mesi fa.
Con un paradosso: mentre la tendenza europeista di Francia e
Germania è nota ed indiscutibile, e questi paesi - nel sistema a cerchi
concentrici che caratterizza l’Unione - costituiscono il nucleo duro dei
processi di integrazione, l’Inghilterra è culturalmente, storicamente,
strategicamente, geograficamente euroscettica se non, in alcuni momenti,
euro-ostile.
Si rifletta, tanto per fare un esempio, sul fatto che la Gran
Bretagna non ha adottato l’euro e non è assolutamente certo (anzi non è
neanche probabile) che in tempi medi la sterlina possa essere abbandonata.
E quindi la collocazione stessa di questo direttorio appare
sicuramente diversa rispetto alla situazione in cui il duo Francia-Germania
guidava il processo di integrazione, spingendo verso l’adozione di un trattato
costituzionale, verso una difesa comune, una politica estera autonoma, un sempre
maggior grado di indipendenza nei confronti dell’altra sponda dell’Atlantico.
Sembra quasi che l’intesa tra i tre grandi paesi dell’Unione
(il quarto paese, l’escluso, pur facendo anch’esso parte del G8, è l’Italia)
nella costruzione di un tavolo comune sia fatta, più che per rilanciare il
percorso unitario (federale o unionista che sia), per evitare che la situazione
di stallo determini complicazioni irrisolvibili, e che nel caos tutto vada a
pezzi divorato dalla logica del particulare e del contingente.
È probabile che di fronte alla posizione unitaria dei tre
grandi - nonostante gli inevitabili mugugni di Italia, Spagna e Polonia - nessun
altro paese abbia la forza di creare ostacoli; ma è altrettanto probabile che
si tratti piuttosto di una alleanza finalizzata alla tenuta e non alla
creazione, perlomeno in tempi brevi, di un nuovo impulso per uscire dallo stagno
in cui ci si è cacciati.
4. Comunque, qualora i Governi dovessero trovare un
accordo, il 9 maggio 2004 è la data prevista per l’eventuale firma a Roma del
trattato costituzionale.
Certo è che da parte delle forze sociali, delle correnti
democratiche, dei movimenti non è ancora nato neanche l’avvio di un percorso
comune per giungere ad un progetto unitario sull’Europa, sul suo processo di
costituzionalizzazione, né vi sono state ancora vere riflessioni e
mobilitazioni comuni dei diversi attori sociali, sindacali e politici nella
direzione di una sfida per un’Europa pacifista, democratica, federalista e
sociale.
Ancora una volta questo grande ed inedito percorso storico è
stato (ed è, con le sue contraddizioni, i suoi limiti, le incertezze che esso
determina) un fatto di gruppi ristretti, di poche persone, di circoli limitati.
È ancora una volta un Trattato a definire competenze ed
ambito di azione dell’Unione, saranno ancora dei Trattati (nell’impostazione
che viene data nella parte IV del testo redatto dalla Convenzione presieduta da
Giscard) a regolare la revisione costituzionale, in un percorso in cui gli Stati
(signori dei trattati) restano l’elemento determinante dei processi
decisionali, legislativi, politici e costituzionali.
L’Unione - dotata di un sistema di norme che ha il primato,
con diverse modalità, sul diritto statale - non è più un’associazione di
Stati ma non è ancora una federazione, né si è creato un sistema fatto di una
pluralità di forme di partecipazione democratica (municipale, regionale,
nazionale, europea) in un fecondo rapporto di sussidiarietà verticale.
È evidente che solo attraverso una modifica della parte IV
della proposta di trattato (precisamente dell’art.7) la competenza in ordine
alla procedura di revisione costituzionale può essere attribuita - con
procedure rafforzate - al Parlamento europeo, e non più agli Stati membri. Una
tale innovazione porrebbe evidentemente fine all’epoca dei trattati, aprendo
la via ad una Unione effettivamente sopranazionale.
5. Non si è affermato a livello continentale un
movimento di lotta per la democrazia costituzionale europea, per limitare
attraverso la fissazione di principi, valori, competenze il primato del mercato,
per uno sviluppo veramente democratico e sociale dell’Unione.
Né ancora si espressa con forza una critica alla parte III
del trattato costituzionale: essa non fa che recepire, con semplici adattamenti
lessicali, a volte peggiorativi, l’intero testo dell’attuale Trattato CE.
Non si è espresso, ad esempio, un orientamento di dissenso
netto e forte in relazione al modo in cui vengono trattate (nel progetto
elaborato dalla Convenzione) le politiche economiche. Il progetto di trattato
costituzionale rende da un lato la Banca Centrale responsabile della politica
monetaria ma non prevede (neanche per i paesi dell’area dell’euro) l’introduzione
di una comune politica fiscale e di bilancio e quindi la possibilità stessa di
avviare e concretizzare vere politiche sociali.
È evidente che non si è avviato a livello europeo ed a
livello dei singoli paesi un movimento per rivendicare che la procedura
legislativa debba essere democratizzata e che il Parlamento europeo
democraticamente eletto dai popoli dell’Unione debba divenire la sede
competente per l’adozione delle leggi europee, superando le forme della
codecisione che danno al Parlamento solo un diritto di veto e per di più solo
su una serie definita e circoscritta di materie (sia pure di rilievo); che il
diritto di iniziativa legislativa non debba essere monopolizzato dalla
Commissione europea, ma che esso deve essere condiviso dal Parlamento; che
occorre introdurre forme di iniziativa legislativa popolare; che il Consiglio
europeo si trasformi in una seconda camera, tale da rappresentare le diverse
realtà territoriali in modo da strutturare un vero e proprio sistema federale
sovranazionale ed in maniera tale da superare la commistione tra potere
esecutivo e legislativo che caratterizza attualmente il Consiglio (anche nella
forma prevista dall’art.23 della I parte della proposta di trattato
costituzionale); che sollevi la necessità che la Commissione venga sottoposta
al voto di fiducia del Parlamento (anzi delle due Camere).
Insomma non si è aperta una battaglia democratica europea
per rivendicare la costruzione vera e partecipata di istituzioni pienamente
democratiche, specie con riferimento alla procedura di adozione e di revisione
del testo costituzionale e di approvazione delle leggi, pur essendo ormai
evidenti (nonostante il fallimento della Conferenza intergovernativa dello
scorso dicembre) che molte delle decisioni che condizionano la vita dei singoli
stati membri dell’Unione sono adottate in sede europea. La vita democratica
interna dei singoli stati è cioè fortemente condizionata dalle scelte adottate
da organismi la cui legittimazione democratica appare insufficiente.
Lo stesso pratico superamento dei parametri di Maastrich
avrebbe dovuto condurre ad una riflessione sui limiti imposti allo sviluppo
economico e sociale dell’Europa da politiche economiche miopi e di corto
respiro: ma la situazione venutasi a creare sotto la spinta dei disavanzi
pubblici di Francia e Germania non ha condotta ad un dibattito complessivo, ad
un ripensamento, all’indicazione di nuove linee strategiche. Si è avviata
invece una fase confusa di recriminazioni, dentro la quale le forze più
avanzate non hanno saputo inserire elementi critici e propositivi tali da
rilanciare politiche innovative e socialmente sostenibili.
6. La democrazia non è solo metodo decisionale (ovvero
non si tratta soltanto di individuare chi decide e come decide), è anche
affermazione di valori validi per tutti, che siano vincolo e limite per l’azione
di tutte le istituzioni e gli organismi politici.
Si tratta di cioè di adottare principi e valori che siano
sottratti alla disponibilità della maggioranza, valori che vengono posti a
garanzia dei diritti e delle libertà delle persone, che devono essere poste
nelle condizioni di esercitare la propria autonomia e di sviluppare il proprio
progetto di vita senza intrusioni arbitrarie.
Conseguentemente la questione della determinazione di questi
valori, e la loro declinazione anche nel senso dei diritti sociali, è questione
essenziale nel processo di determinazione di un nuovo ordinamento
costituzionale.
Così come assume grande importanza il fatto che la pace non
viene assunta come valore fondante della società europea.
Pace non concepita soltanto per i popoli dell’Europa ma
come elemento centrale dell’ordinamento mondiale, delle relazioni tra i
popoli: ovvero manca un riferimento all’obiettivo che la guerra venga
ripudiata come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali.
Il movimento pacifista può far pesare nel processo di
costruzione della costituzione europea - a partire dalla sua vocazione e dalla
sua natura di realtà non confinata nell’ambito degli angusti limiti dei
vecchi stati nazionali - la propria estensione e la propria forza, quella che
nel suo punto più alto - ed a livello mondiale - si è espressa nelle grandi
manifestazioni del 15 febbraio 2003.
La richiesta di eliminazione della formulazione contenuta
nell’art.40 della parte I della proposta di trattato costituzionale potrebbe
in tal senso divenire elemento politico unificante sul piano continentale dei
movimenti contro la guerra.
7. Il primo comma dell’art.1 della prima parte della
proposta di trattato costituzionale lega ancora la cittadinanza dell’Unione
alla cittadinanza di uno Stato nazionale membro, e nella parte III della
proposta si delineano le politiche securitarie nei confronti dell’immigrazione.
Si concepisce in tal modo una “democrazia europea” dimezzata ed anche
razzista, che definisce chi è cittadino e chi no: non può essere considerata
democratica una società che attribuisce uno status inferiore a milioni di
persone che vivono e lavorano in Europa.
A tutti i migranti dovrebbero essere garantiti i diritti
civili e sociali fondamentali.
Il diritto di asilo andrebbe garantito ampliando la tipologia
dei casi in cui esso va riconosciuto (dall’oppressione politica alle
situazioni di guerra, di calamità e di disastri ambientali, alle persecuzioni
causate dalle scelte sessuali, alle violazioni dei diritti della persone).
E quindi l’obiettivo di una Europa multietnica e
multiculturale, rispettosa dei diritti delle minoranze passa attraverso una
attenta lettura del testo in discussione ed è attraverso la battaglia sul
contenuto del trattato costituzionale che può concrettizarsi ed avanzare il
percorso verso un’Europa quale laboratorio della cittadinanza in netta
antitesi con le previsioni contenute nella parte III della proposta della
Convenzione., la cui seconda sezione è dedicata alle “politiche relative
ai controlli alle frontiere, all’asilo e all’immigrazione”.
8. Il diritto del lavoro è stato profondamente
ridimensionato se non sovvertito dalle politiche liberistiche sviluppatesi negli
ultimi venti anni, l’occupabilità è divenuta la parola magica per spezzare
la solidarietà del lavoro e far diventare il lavoratore imprenditore di sé
stesso.
Siamo alla piena mercificazione della persona: il migrante
può restare nel paese di arrivo solo fin quando ha un contratto di lavoro, il
lavoratore diventa un precario a vita. L’insicurezza diventa la condizione per
accettare qualsivoglia condizione normativa e salariale. L’individualizzazione
del rapporto di lavoro diventa l’obiettivo delle riforme del mercato del
lavoro con la moltiplicazione delle forme contrattuali che frammenta il mondo
del lavoro e rende sempre più difficile la difesa e la crescita del salario,
così come la qualità della vita e del lavoro (è quello cui abbiamo assistito
in Italia da ultimo con la legge 30 del 2003 ma che è possibile vedere anche -
sia pure con strumenti diversificati - nei diversi paesi dell’Europa).
È nel quadro costituzionale della nuova Unione, che
andrebbero previsti diritti e garanzie per il lavoro, con riguardo all’intreccio
di lavoro e non lavoro, di formazione e lavoro, così come ai nuovi modi in cui
si andranno ad articolare la rappresentanza e la democrazia sindacale.
È nel quadro costituzionale dell’Europa che può essere
inserito l’obiettivo del reddito sociale, reso sempre più necessario dalle
trasformazioni profonde che attraversano il mondo del lavoro, dal dilagare della
precarietà e del disagio sociale, dall’emergere di nuove e diffuse povertà
che rischiano di innescare (e sempre più attivano) processi viziosi di
stagnazione economica e di abbassamento dei livelli complessivi di vita.
9. Il mercato non è una forza di integrazione né
sociale né politica.
Il disegno dei padri fondatori di gestire in termini
sovranazionali settori economici chiave - il carbone e l’acciaio, il mercato
comune, l’energia nucleare e poi il mercato unico con i vincoli del Patto di
stabilità - ha sempre sofferto di un deficit politico e di legittimità
democratica che la Carta di Nizza sui diritti fondamentali dell’Unione
Europea, adottata nel 2001 (ed ora trasfusa nella parte II del progetto di
trattato costituzionale), non poteva certamente sanare.
L’Unione europea è divenuta paladina dell’impresa e
della competitività.
All’inizio del processo di integrazione europea la
Comunità europea del carbone e dell’acciaio ed il Trattato di Roma
salvaguardavano le competenze sociali degli stati, e dunque i processi di stampo
keynesiano e di inclusione sociale marciavano in parallelo con i processi di
integrazione sovranazionale basati sulla supremazia del mercato: alla fine degli
anni ottanta - sotto l’egemonia del pensiero neoliberista - impresa, moneta e
mercato si sono affermati quali forze unificatrici della società, ed in
particolare della società europea.
Il processo costituente viziato da un deficit democratico
(così come pensato a Laeken, con una convenzione formata da persone nominate
innanzitutto dai governi dei paesi membri) non ha prodotto - e probabilmente non
poteva produrre - una costituzione democraticamente legittimata ma anche -
almeno per ora - ha fallito come momento di compromesso tra gli Stati in una
fase di profonda divisione europea (e dentro la quale ha agito in senso
distruttivo la pressione statunitense).
Sono così mancati ad un tempo legittimità democratica e
realismo politico; si volevano tenere insieme sovranità nazionali e poteri
sopranazionali senza comuni prospettive politiche; si è puntato sulla forza
unificante e progressiva del mercato mentre i risultati delle politiche
neoliberiste ne svelano con drammatica acutezza i limiti e le contraddizioni, e
determinano tensioni e visioni critiche non circoscritte a settori limitati
della popolazione.
Il nuovo avvio di un percorso costituzionale europeo non
potrà che partire dall’analisi di questi limiti e dovrà necessariamente
essere segnato dal confronto che oggi riappare in Europa tra i sostenitori di un
mercato senza limiti e le rappresentanze politiche e sociali di settori sempre
più vasti emarginati ed impoveriti nell’era del trionfo del liberismo.