Economia, sensi e movimento operaio
Andrea Micocci
La pubblicazione del volume di Montag sui sensi mi ha portato a considerare la relazione tra i sensi e l’economia. Tale riflessione è apparsa su Il Ponte, no.4, 2001. Questo articolo riprende quanto lì detto e lo rielabora per cercare di suggerire a chi fa sindacato ed ai membri dei movimenti operai la necessità di una elaborazione teorica svincolata dalle idee dominanti. |
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1. Le conseguenze dei sensi
La realtà, nei nostri tempi che imprecisamente chiamiamo
capitalismo, può essere schematizzata individuando tre complessità che in
qualche modo interagiscono. Esse sono: i sensi dell’uomo, la realtà in
generale (qualcuno specie tra gli economisti direbbe l’ambiente), e la
società con il suo portato culturale.
I sensi percepiscono la realtà aiutando a sviluppare la
società, direbbero i superficiali e gli economisti. Il volume sui sensi di
Montag [1] ed altri lavori
degli autori ivi contenuti [2]
mi portano a formulare una ipotesi diversa. Da un lato abbiamo i sensi con la
loro ancora poco comprensibile complessità e dall’altro la società, con la
sua organizzazione basata sui simboli e sull’individuo percettore sillogistico
della realtà. Di qui l’influenza dei sensi sul linguaggio e sulla cultura,
che sembra quasi inconoscibile. Cerchiamo però di situare la complessità delle
elaborazioni umane e la loro origine nella complessità scarsamente conosciuta
dei sensi (Montag apre un vero e proprio vaso di Pandora). Se i termini della
questione fossero questi avremmo semplicemente un problema di scarse conoscenze
scientifiche. Dovremmo scoprire come i sensi interagiscono con quello che
potremmo chiamare - con inevitabile semplificazione - l’elaborazione
intellettuale codificata negli usi e costumi, ma sopratutto descritta ed operata
attraverso il linguaggio.
Ma l’uomo ha da tempo immemorabile perso quella primitiva
innocenza che consentiva (se mai sia avvenuto) una diretta relazione tra i sensi
e la vita sociale. Le società organizzate esercitano una pressione spaventosa
sul complesso groviglio tra sensi, linguaggio e cultura che abbiamo dentro di
noi, e per soprammercato addirittura - almeno nelle linee principali - in
comune. Come riconosciamo gli effetti dei sensi da quelli della società e della
cultura? Come purifichiamo i metodi filosofici e scientifici dagli effetti dei
sillogismi dominanti nella nostra cultura? Come scopriamo, ed è questa la cosa
più importante, la chiave per chiarire una volta per tutte quali processi
logici sono contingenti e culturali e quali invece naturali, diretti?
La questione è la seguente. Dai saggi di Montag è chiaro
che la società si situa in qualche modo nel mezzo, a creare complicazioni tra
la percezione sensoriale della realtà e la sua elaborazione intellettuale e
linguistica ad uso comune. Questo è un problema vasto, ed impossibile ad
affrontarsi qui. Possiamo però partire dalle questioni poste nel volume di
Montag e vedere se, e come, esse abbiano una rilevanza nella più rispettata
(non mi si chieda di dire perché essa sia rispettata piuttosto che
rispettabile) forma di analisi del comportamento umano: quella della teoria
economica. Si può operare un’analisi del genere proprio perché partiamo dall’ipotesi
della complessità dell’agire intellettuale umano proposta in Montag.
Diversamente dalla sociologia infatti l’economia ha la pretesa di parlare dell’uomo
in generale e non dell’uomo in una determinata società. Un perfetto esempio
dunque.
2. Economia senza sensi
L’economia dominante non si pone in alcun modo nei
confronti dei sensi. Questa affermazione e però vera solo in quanto la teoria
economica dominante non pone esplicitamente alcuna concezione della natura
umana. In pratica, ed ovviamente, essa semplicemente ingloba e sussume la
definizione più volgare corrente di come l’uomo sia fatto, cosa voglia e come
si soddisfi. Concezioni eterodosse (si prenda Lawson, 1997) invece di evitare
queste generalizzazioni semplicemente ne pongono di alternative e di altrettanto
proditorie.
Senza entrare in inutili dibattiti sull’influenza del
positivismo e più in generale sulle origini intellettuali delle teorie
economiche dominanti, credo si possa dire senza timore di essere ripresi che l’economia
si pone in maniera quanto più neutrale possibile nei confronti della propria
materia di studio empirica. Giusto o sbagliato che sia (ed io credo sia
sbagliato, ma questa discussione è fuori di luogo qui) l’economia prende l’esistente
come l’incontrovertibile dato di fatto su cui lavorare. Il capitalismo così
come lo conosciamo è il punto di riferimento dell’economia. Il Nous e la
morale sono tra le cause del mondo: il capitalismo non è perfetto, ma può e
necessariamente deve raggiungere la perfezione.
E dunque l’economia dominante, sapendo che il capitalismo
è la realizzazione dello Spirito (nel senso di Hegel, si veda il mio 2002) e
della (propria) etica, non parte veramente dall’empirico, ma usa l’empirico
per codificare le proprie leggi. È l’economia che ci dice come deve essere il
capitalismo. L’economia, e questo punto è cruciale, non ci dice come è il
mondo, ma come dovrebbe essere se solo si desse spazio alle tendenze universali.
Il punto di partenza schizofrenico dell’economia consiste in questa
convinzione di indole mistica (rubo il termine a Feuerbach e Marx) accoppiata
all’uso dell’empirico ai fini di tranquillizzazione delle ansie indotte
dalla inadeguata realizzazione in pratica di tale mistica. Sono forse
centocinquanta anni che gli economisti dominanti si affannano a dirci che il
mercato sta vincendo mentre dietro le nostre spalle continuano ad organizzare e
preservare l’esistenza di questo museo vivente del loro fallimento tramite l’intervento
statale.
Comunque è proprio questa schizofrenia di fondo che
garantisce la neutralità di approccio che qui ci interessa. Il “metodo dell’astrazione”
al quale l’economia affida la propria neutralità scientifica consiste nel
porre nei termini più eleganti possibili frammenti quanto più piccoli
possibili del sogno del capitalismo perfetto. Tali termini eleganti sono
sicuramente quelli matematici, e qui viene il bello. Dai tempi dei fondatori
dell’approccio Neoclassico (Marshall, Jevons, Wicksell, Walras, Edgeworth)
fino agli anni 30 quella che conosciamo comunemente come “analisi matematica”
è stata sufficiente ad alimentare il sogno del mercato. Schumpeter e Keynes
cominciarono però a porsi delle domande, o forse più che altro a farne venire
in mente a noi.
Di Keynes si può dire in breve, in quanto la letteratura ci
offre montagne di analisi del pensiero di questo matematico, filosofo ed
economista. Si veda la General Theory (1973a), il “Treatise on Probability”
(1973b), e Davis (1991), Carabelli (1988) ed O’Donnell (1989) (1990), Micocci,
2002. Malgrado la pletora di differenti interpretazioni ed opinioni si può
certamente affermare senza troppi timori che Keynes aveva ben chiaro in testa
che il processo di valutazione dei dati disponibili è estremamente complesso
non già a causa della quantità enorme dei dati stessi (ormai solo chi fa i
soldi con i computer finge di bere questa frottola) ma perché, come ci
ricordano gli autori di Montag, la complessità nella base percettiva
neurofisiologica delle attività intellettuali si combina con le complicazioni
prodotte dalla cultura e dalla società.
Un altro caso eclatante di crisi della teoria economica è
quello di Schumpeter. L’economista austriaco aveva una chiarissima visione
della difficoltà di produrre rappresentazioni del ciclo economico con i mezzi
teorici e matematici dell’economia Neoclassica e dell’econometria dell’epoca.
Si ricordi che Schumpeter fu con Frisch uno dei fondatori della Econometric
Society, che ancora esiste con il suo giornale Econometrica (si vedano per le
questioni teoriche Orati, 1988, Micocci, 2001 e per i rapporti con l’econometria
dell’epoca basata su equazioni lineari Louça, 2000).
In primo luogo Schumpeter dubitava delle capacità dell’apparato
teorico dell’economia dominante dell’equilibrio generale (basato sull’analisi
matematica così come viene impartita nei corsi del primo anno di tutte le
facoltà economiche e scientifiche) di dare un’idea dell’economia che non
fosse statica. I cicli economici, che Schumpeter stava da tempo studiando, non
sono giustificabili con tale apparato (questo non toglie che Schumpeter
rimanesse legato mani e piedi alla teoria dominante Neoclassica, l’unica che
sembrava garantirgli la possibilità di credere nella assoluta libertà di
mercato, il suo più caro ideale). La “dinamica”, come si dice in gergo
tecnico, era (ed è) per l’economista dominante un ideale irraggiungibile.
In secondo luogo, e qui torniamo ancor più direttamente ai
temi trattati in Montag, Schumpeter contestava in privato a Frisch (vedasi
Louça, 2000) che l’econometria non dava alcuna idea della complessità ed
aleatorietà del processo decisionale, così uccidendo la creatività “distruttiva”
dell’imprenditore, la sua capacità non semplicemente di conquistare il
mercato (l’accezione riduttiva di imprenditoria oggi così chiacchierata nei
quotidiani e nelle riviste) ma di rivoluzionare il mercato stesso e la società
in generale. I possibili ritmi oscillatori proposti dalle elaborazioni
matematiche non catturano in alcun modo lo svolgimento dei fatti: per Schumpeter
nulla poteva sostituire la storia economica con il suo racconto delle
complessità del reale.
Insomma, siamo di fronte ad una crisi seria:il tentativo di
basare l’economia sul misticismo dell’utopia con il vago riscontro della
realtà è stato scoperto. Schumpeter e Keynes, ma ho nominato qui solo i due
nomi più famosi e le argomentazioni più coerenti con il tema di questo
articolo, hanno posto l’economia dominante di fronte al problema più serio
per una disciplina che, almeno nelle menti più fanatiche, vuole addirittura
porsi come “scientifica”. L’apparato analitico di tipo matematico con il
quale si fa teoria economica dominante (non solo Neoclassica: la teoria
economica dominante è un monolite con mille inutili differenze interne che
servono nel mercato accademico a formare i gruppi di potere) non rende affatto
non solo la complessità dei processi emotivi ed intellettuali, ma nemmeno il
funzionamento pratico del mercato.
Il guaio vero è che essa non racconta nemmeno la storia
prodotta dai dati empirici. Sia che si prenda un approccio alla Hume come ha
fatto Keynes, dicendo che l’elaborazione individuale dei dati è statistica e
probabilistica ma sopratutto legata a valutazioni mnemoniche individuali delle
quali ben poco si sa (si può solo vedere la punta dell’iceberg, i fatti
economico-sociali rilevabili), sia che si adotti un approccio storico economico
alla Schumpeter, la statistica e l’econometria sono nei guai. Esse infatti
raccontano una storia tutta loro, per quanto ingegnosa e rigorosa essa sia in
termini tecnici. Insomma, il problema non è solo dell’economia: non si tratta
di dati empirici (statistici) troppo complessi per una teoria troppo rozza, ma
di una teoria campata in aria e dotata di metodi statistici ed econometrici ad
essa coerenti, e quindi inutili a chiunque non creda alla mistica di origine.
L’economia, la statistica e l’econometria raccontano una
storia elegante, ma ben diversa dalla realtà. Tale storia è neutrale rispetto
ai sensi in quanto concepita per un mondo che non ha che una blanda somiglianza
alla realtà stessa: esso è il modello al quale la realtà deve essere portata
a somigliare. Il problema non è, come piangono tutti gli economisti critici
delle teorie dominanti (si prenda ancora una volta Lawson, 1997, un caso tanto
tipico quanto celebrato dalla critica, e per di più un matematico), di
reinserire quanta più realtà possibile nell’economia. Ciò è non tanto
impraticabile quanto incongruente con la teoria stessa.
L’economia dominante, e questo non può nè deve essere
negato, è piena di cervelli brillanti e sopratutto ingegnosi. Da vari decenni i
nostri economisti ortodossi si sono accorti della inadeguatezza del loro
apparato teorico matematico: la difficoltà di rendere quanto più possibile la
complessità del reale mantenendo l’ibrido stato epistemologico (la mistica)
di partenza. Persino i marxisti ai nostri giorni sembrano credere ad
interpretazioni “culturaliste e relativiste” della vita economico-sociale,
intellettuale ed emotiva dell’uomo (del resto questo è compatibile con
Gramsci e le teorie Communitarian anglosassoni).
E dunque l’economia dominante si è rivolta alla teoria dei
giochi, alle teorie delle “scelte razionali”, alla mente splendidamente
isolata che percepisce e, come in teoria economica, “soddisfa i suoi bisogni”.
4. Conclusioni
L’economia dominante è strutturata in modo da rispondere
alla cultura dominante dei nostri tempi (vedasi il mio 2002): la mistica di cui
abbiamo parlato riflette l’equivoco che marca il positivismo volgare (da cui i
Neoclassici molto hanno preso, sebbene con molta meno protervia di quanto si
dica negli ambienti eterodossi) e le discipline varie che hanno negletto e
maltrattato i sensi e in generale, come preferiva dire Feuerbach, l’approccio
“sensuale” alla realtà.
Pensiamoci bene: l’economia non si pone in alcun modo nei
confronti dei sensi, abbiamo detto. La neutralità dell’economia è assurda,
in quanto l’ “Homo Oeconomicus” è una conseguenza delle teorie “simboliche”
della percezione. L’uomo (razionalmente, o semi-razionalmente come in Peyton
Young, 1998) ha bisogni e li soddisfa, arrivando alla soluzione di problemi
economici (stiamo parlando di quei problemi prodotti dalla teoria economica, si
badi bene, non dei problemi dell’economia) anche complessissimi. Inoltre, con
i moderni metodi matematici possiamo approssimare questo uomo teorico ad alcune
limitate situazioni reali (“ceteris paribus”, “mutatis mutandis”, etc.).
Infine, il nostro mondo è pieno di gente ansiosa di rispecchiarsi nell’uomo
della teoria economica, fosse pure nella sua pallida immagine prodotta dai
politici e dai mass media.
Ecco il paradosso della teorizzazione economica: essa
funziona solo se non affronta la complessità biologica ed intellettuale della
realtà. Solo rimanendo nel suo limbo essa può essere coerente, perché i suoi
metodi analitici possono solo misurare le immagini proiettate dalla teoria
stessa. Incorporare la realtà porterebbe alla fine del (mistico e
schizofrenico) paradigma epistemologico alla base dell’economia. Questa
disciplina può prosperare solo ignorando completamente qualsiasi altra
disciplina teorica e scientifica. Fanno bene dunque gli economisti a vivere nel
loro “hortus conclusus”. Facciamo male noi a dargli corda, perché
manteniamo in vita una bolla di sapone che sta sempre più modellando a sé la
realtà materiale, come Schumpeter (e Kaldor e Shackle tra pochi altri)
temevano.
Questo è un tema che il movimento operaio e sindacale in
generale dovrebbero affrontare. Infatti, prendere sul serio l’economia
dominante significa mettersi in una posizione difficilissima. Se si vuole
cambiare il mondo bisogna partire dal concreto in primo luogo, ed in secondo
luogo bisogna trascendere e superare la logica intellettuale dominante (che poi,
come visto, nel caso dell’economia è insensata). Questo significa che lo
studio e l’elaborazione teorica sono una assoluta necessità. Ma il lavoro
teorico va svolto in un ambiente privo di pregiudizi e libero dalle limitazioni
della mentalità dominante: abbiamo un ambiente del genere da qualche parte?
Bibliografia
AA.VV. (2000), “Le tattiche dei Sensi”, I Libri
di Montag, Manifestolibri, Roma
Carabelli, A. (1988), On Keynes’s Method,
MacMillan, London
Davis, J.B. (1991) “Keynes’s Critique of Moore:
Philosophical Foundations of Keynes Economics”, Cambridge Journal of
Economics, no.1, Vol.1, no.5
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Cannocchiale Rivista di Studi Filosofici, no.2, 2000.
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Oxford University Press, Oxford
Keynes, J.M. (1973a), The General Theory of Employment,
Interest and Money, MacMillan, London
Keynes, J.M. (1973b), “A Treatise on Probability”,
in The Collected Works of John Maynard Keynes, Vol.VIII, MacMillan, London.
Lawson, T. (1997), Economics and Reality, Routledge,
London.
Louça, F. (2001), “Intriguing Pendula: Founding
Metaphors in the Analysis of Economic Fluctuations”, Cambridge Journal of
Economics, no.1, Vol.25
Micocci, A. (2001), “The Impossible Endeavour of
Schumpeter the Neoclassical” in Dahiya, S.V., Orati, V.A., Economic
Theory in the Light of Schumpeter’s Scientific Heritage, Spellbound
Publications, Rhotak.
Micocci, A. (2002), Anti-Hegelian Reading of Economic
Theory, The Edwin Mellen Press, New York.
O’Donnell, R.M. (1989), Keynes: Philosophy, Economics
and Politics The Philosophical Foundations of Keynes’s Thought and Their
Influence on His Economics and Politics, MacMillan, London.
O’Donnell, R.M. (1990), “Keynes on Mathematics:
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Orati, V.A. (1988), Il Ciclo Monofase Saggio sugli Esiti
Aporetici della Dinamica di J.A.Schumpeter, Liguori, Napoli.
Pardjanadze, N., Micocci, A. (2000), “I Nichilisti Russi”,
Il Cannocchiale Rivista di Studi Filosofici, no.2
Peyton Young, H. (1998), Individual Strategy and Social
Structure, Princeton University Press, Princeton, NJ.
[1] Il volume contiene saggi di Brunella Antomarini, Massimiliano Biscuso,
Gianfranco Buffardi, Merlin Donald, Vittorio Gallese, Marco Mazzeo, Fabrizio
Ottaviani, Ruggero Pierantoni, Paolo Virno, Gesualdo Zucco.
[2] Vedasi
il saggio di Gallese in Il Cannocchiale, no.2, 2000.