Tassazione dei capitali e reddito sociale minimo
Luciano Vasapollo
Il presente intervento è stato presentato nei mesi di Marzo e Aprile 1999 in diverse assemblee, riunioni e convegni dell’associazionismo e del sindacalismo di base |
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1. Alcuni parametri macroeconomici
Stiamo attraversando ormai da circa venti anni un intenso
processo di finanziarizzazione dell’economia spiega-bile non soltanto da
fenomeni di ristrutturazione e riconversione che interessano l’industria ma che
sta mutando lo stesso modo di presentarsi del modello di sviluppo capitalistico.
Tali processi di globalizzazione a connotati finanziari perseguono semplicemente
la loro logica interna tendente alla massimizzazione dei profitti complessivi,
attraverso incrementi di dividendi, interessi e capital gain.
Allo stesso tempo oggi viene generalmente riconosciuto,
soprattutto dopo il rapporto Delors sullo stato del-l’occupazione nell’Unione
europea e sulle effettive possibilità politiche a suo sostegno, che la
disoccupazione è un male strutturale delle società più avanzate e che neppure
una accelerazione della crescita economica in questi paesi potrà attenuare
sensibilmente gli effetti. L’evolversi del-lo stato di disoccupazione che stiamo
vivendo è diverso e più complesso dei periodi di non occupazione sporadici
avuti in passato per vari motivi.
Sinteticamente si possono presentare alcuni dati che
caratterizzano l’attuale crisi del lavoro in modo tale da poter comprendere più
chiaramente il fenomeno che stiamo vivendo (e le sue possibili soluzioni).
Si riportano di seguito i dati riepilogativi al 1996 di
alcuni paesi a capitalismo avanzato, potendo così confrontare l’andamento di
alcuni parametri macroeconomici tra i singoli paesi e il dato complessivo
dell’Europa dei 15.
Come si può osservare dalla Fig.1 la crescita del PIL del
1996 in tutti i paesi europei è molto contenuta, tanto è vero che il dato
complessivo dell’Europa dei 15 segna una crescita annua dell’1,6% nettamente
inferiore a quel-la degli Stati Uniti (2,4%) e del Giappone (3,6%). A fronte di
tali livelli di crescita i dati della disoccupazione ufficiale, sempre per il
1996, evidenziano per l’Europa dei 15 oltre 18 milioni di disoccupati ufficiali
contro gli oltre 7 milioni degli Stati Uniti e i 2.259.000 del Giappone, con
rispettivamente un tasso di disoccupazione del 10,9% per l’Europa dei 15, il
5,4% per gli USA e il 3,4% per il Giappone (si ricorda che nelle rilevazioni USA
e giapponesi qualsiasi forma di occupazione anche a pochissime ore di lavoro
mensili fasi che il lavoratore sia considerato un occupato). Anche tutti gli
altri parametri macroeconomici presenti nella Figura 1 rispecchiano l’andamento
dei primi anni ’90 con in generale tassi di disoccupazione maschile e femminile
che aumentano fortemente in tutti i paesi europei e retribuzioni dirette e
indirette, (in termini salariali e di prestazioni sociali), che si incrementano
in modo assai lento senza assolutamente rispondere ad una equa redistribuzione
ai fattori produttivi capitale e lavoro degli incrementi di valore aggiunto e di
produttività, segnando. infatti, una forte carenza redistributiva verso le
forme di remunerazione al fattore lavoro.
Ciò è anche confermato con l’andamento dei pararnetri
macroeconomici per il 1997 che segnano un incremento del PIL sull’anno
precedente del 3,8% per gli USA, dello 0,9% per il Giappone, del 2,2% per la
Germania, del 2,3% per la Francia, del 3,3% per il Regno Unito e infine
dell’1,5% per l’Italia; rispettivamente negli stessi paesi si hanno variazioni
percentuali sull’anno precedente del-l’occupazione del 2,3%. 1,1%, -1.4% 0,3%,
1,7% e valori anche estremamente bassi per l’Italia.
Nel 1997 si hanno tassi di disoccupazione del 5% per gli USA,
del 3,4% per il Giappone, dell’11,5% per la Germania, del 12,5% per la Francia,
del 5,6% per il Regno Unito e del 12,3% per l’Italia. Per gli stessi paesi è
infine importante riferire gli indicatori economici relativi al costo del lavoro
per unità di prodotto che realizza rispettivamente incrementi dello 0,9% in
USA, del -2,8% in Giappone, del -5,8% in Germania, del - 3% in Francia, del 3,3%
nel Regno Unito e del 2% in Italia.
Laggravarsi della situazione occupazionale è evidenziata
anche attraverso i dati del 1998. L’ultima rilevazione delle forze di lavoro
effettuata in Italia ad ottobre 1998 registra circa 3 milioni di persone in
cerca di occupazione con un tasso di disoccupazione del 12,6% (con una
variazione dello 0,2% rispetto alla rilevazione di ottobre 1997); in particolare
il tasso di disoccupazione è del 7,6% per il Centro-Nord e del 23,2% nel
Mezzogiorno ed inoltre si registra un tasso del 9,6% per i maschi e di ben il
17,3% per le femmine.
Per lo stesso periodo di riferimento (settembre-ottobre 1998)
si evidenzia un tasso di disoccupazione per il Belgio dell’8,8%, del 4,3% per la
Danimarca, in Germania del 9,5%, in Spagna del 18,5%, in Francia del 12%, in
Ir-landa dell’8,8%. Negli USA risulta per lo stesso periodo un tasso di
disoccupazione totale del 4,7% ed infine si può rilevare per il Giappone un
incremento del tasso di disoccupazione che si attesta all’incirca intorno al
4,2%.
2. . Ristrutturazione del modello capitalistico e nuovo
mercato del lavoro
Oggi viviamo nell’era informatica e della comunicazione
virtuale, della rivoluzione post-indutriale basata sulle risorse immateriali,
sul capitale intangibile. Tale in-novazione a differenza del boom industriale
non fornisce nuovi settori ma soprattutto nuovi posti di lavoro, anzi si
realizza una grande flessibilità, nella quale orari e diritti del lavoratore
hanno sempre meno importanza. Sembra paradossale, ma benché ci voglia sempre
meno tempo per svolgere un lavoro, i lavoratori versano in situazioni di
assoluta tirannia nella quale le ore di straordinario vengono considerate ore di
lavoro normale. Il lavoratore dunque non ha più orari, è sempre meno tutelato,
e sopporta spesso passivamente perché il mercato del lavoro è chiuso, ed
essendo cosciente che rientrarvi è un impresa quasi impossibile tende a non
opporsi in alcuna maniera a tale situazione per paura di perdere il posto di
lavoro.
Per la prima volta la crisi del lavoro, dunque, incombe su
disoccupati e su lavoratori. In diverso modo occupati.
Tuttavia i contratti atipici e la stessa forma di impresa a
rete mantengono ancora, sia pure per relazione o per contrasto, un riferimento
agli standard passati: nei primi la misura continua a rimanere il tempo della
prestazione, la seconda resta pur sempre un’organizzazione, anche se
particolarmente snella e duttile, con propri dipendenti.
Nella terza fase della modernizzazione capitalistica è
l’idea di un tempo e di un luogo di lavoro a essere messa in discussione, si fa
attenzione alla stessa misurabilità, in termini di durata, dell’attività
lavorativa, così come alla sua localizzazione.
Ad esempio nel lavoro interinale non si svolge più la
propria prestazione esclusivamente per un soggetto di cui si è dipendenti, ma
per una pluralità di individui che possono servirsene solo per il tempo
strettamente necessario; si è invece, formalmente, assunti da un datore di
lavoro che ha il compito di affittare ad altri i propri dipendenti. Non c’è
quindi più, in senso stretto, un luogo di lavoro e il tempo di lavoro si
biforca tra il tempo dell’attesa e quel-lo dell’effettiva prestazione. L’aspetto
territoriale assume un ruolo sempre più determinante con il passaggio da una
produzione di massa, concentrata, ad una di tipo flessibile e diffusa basata nel
contempo sulla mobilità, flessibilità e precarizzazione della forza lavoro.
Il superamento dell’era fordista pone il nostro Paese in una
fase di ridefinizione del capitalismo con caratteri post-industriali superando
nei fatti le logiche interpretative di tipo industrialista ed "operaista",
per passare ad una gerarchizzazione dei modelli dello sviluppo basata
principalmente sulle modalità di trasformazione sociale ed economica che vedono
emergere sempre più nuove soggettualità non garantite. Si evidenzia quindi un
terziario che interagisce e si integra sempre più con le altre attività
produttive, soprattutto quelle industriali, determinando un nuovo modello
organizzativo di sviluppo definito come "tessuto a multilivello di
irradiazione terziaria". Si tratta in sostanza di un terziario implicito ed
esplicito, esternalizzato, che ha assunto un ruolo sempre più propulsivo e
trainante del modello di sviluppo economico, non spiegabile soltanto da semplici
processi di deindustrializzazione o di ristrutturazione e riconversione
industriale, ma dalle esigenze di ristrutturazione e diversificazione del
modello di capitalismo italiano.
In tale contesto socio-economico e produttivo i soggetti
delle classi intermedie esercitano ancora un ruolo molto rilevante nelle
dinamiche di regolazione e di comando della vita delle specifiche aree locali a
caratterizzazione socio-economica. Sulla mobilità e le determinanti qualitative
del ciclo di vita delle varie aree economiche, nazionali o anche regionali, si
registra una tendenza diffusa al consolidamento sociale delle leadership locali,
basate su effetti imitativi e di status particolarmente efficaci su una parte
del ceto medio. Una visione delle economie locali e nazionali sempre più
classista ed intollerante che assume le modalità relazionali socio-economiche
rappresentate dal rafforzamento e trasmissione forzata comportamentale di alcune
imprese locali, o gruppi di imprese; gruppi economici nazionali che in alcuni
paesi, come ad esempio l’Italia, nonostante la globalizzazione stanno assumendo
un ruolo guida nell’influenzare le azioni economiche e sociali dei soggetti
economici locali che avevano in passato fortemente caratterizzato l’evoluzione
dei di-stretti.
E’ in tale chiave che vanno lette le relazioni di coercizione
comportamentale complessiva che si instaurano tra impresa capitalistica,
lavoratori come l’insieme di occupati e disoccupati, e popolazione direttamente
o indiretta-mente legata alla fabbrica sociale generalizzata, cioè una nuova
impresa a diffusione sociale nel territorio, determinando una specifica
forzata capacità autocontenitiva in relazione a domanda e offerta di lavoro
realizzata tramite marginalizzazione, precarizzazione ed espulsione dei soggetti
economici e produttivi non compatibili. Si tratta nella maggior parte dei casi
di disoccupati nuovi e di ex lavoratori dipendenti di fatto precarizzati, non
più garantiti nella continuità del lavoro, espulsi dall’impresa madre e
assoggettati a una nuova forma di lavoro a cottimo, lavoro atipico e
parasubordinato fuori dalle garanzie normative e retribuite del lavoro
dipendente.
La realtà economica è, quindi, in rapida e ineluttabile
evoluzione, ma tende a rendere sempre più evidente la linea di demarcazione fra
proprietà - capitale e una classe dei lavoratori che non può accettare quelle
compatibilità funzionali alla crisi quantitativa di accumulazione che il
capitale sta attraversando. Gli stessi incrementi di imprenditorialità che
emergono dai dati ufficiali sono causa-ti soprattutto dallo spropositato aumento
di "partite IVA", che ormai superano ampiamente i sette milioni di
iscrizioni, e che altro non sono che "ditte individuali", le qua-li
rappresentano il cosiddetto lavoro autonomo di seconda generazione. Si tratta
nella maggior parte dei casi di ex lavoratori dipendenti di fatto precarizzati,
non più garantiti nella continuità del lavoro , espulsi dall’impresa madre e
assoggettati a una nuova forma di lavoro a cottimo, fuori dalle garanzie
normative e retribuite del lavoro di-pendente. Dietro l’illusione del "fai
da te", dell"’autoimprenditorialità", della libertà
economico-sociale derivante dell’autocelebrazione del farsi "imprenditori
di se stessi", troviamo sempre una nuova forma di lavoro subordinato privo
di normativa, un supersfruttamento a cottimo, con la mancanza assoluta di
garanzie sociali a causa della mancanza di coperture assicurative (sanità,
pensione, infortunistica, assistenza varia). Ma dietro il tanto decantato
sviluppo dell’imprenditorialità locale, l’esplosione del "popolo degli
imprenditori", che è semplicemente lavoro parasubordinato, cioè lavoro
autonomo di seconda gene-razione, altro non c’è che un capitalismo
selvaggio che crea falsi miti al fine di nascondere le proprie contraddizioni
che provocano incrementi notevoli di disoccupazione palese e invisibile,
precarizzazione del lavoro, negazione delle garanzie sociali e delle regole
elementari del di-ritto del lavoro, in un territorio che si fa fabbrica sociale
in quanto luogo di sperimentazione e affermazione delle compatibilità
d’impresa.
E’ allora il territorio il centro verso il quale far
convergere una parte rilevante degli interessi della collettività, della
classe, delle nuove soggettualità che operano in un’impresa diffusa
socialmente nel sistema territoriale, in una fabbrica sociale
generalizzata in cui si generano nuovi soggetti che si devono ricomporre ad
unità come corpo organizzato, come una totalità di parti interagenti, che si
danno una certa caratterizzazione sociale perché derivano da una certa
caratterizzazione produttiva della riconversione neoliberista, del modo di
produrre e di pro-porre socialmente la centralità dell’impresa, del profitto,
del mercato.
E’ in tale contesto di trasformazione globale e di
ristrutturazione complessiva capitalistica che anche lo Stato Sociale si
trasforma in Stato-Impresa, in Profit-State che assume come centrale la logica
di mercato, la salva-guardia e l’incremento del profitto, trasforma i diritti
sociali in elargizioni di beneficenza, effettua comunicazione sociale che fa
assumere il profitto, la flessibilità, la produttività come nuove forme di "divinità
sociale", come filosofia ispiratrice dell’unico modello di sviluppo
possibile.
A questa logica risponde anche la visione e il ruolo che si
vuole dare alla cooperazione sociale, al cosiddetto "Terzo settore", e
si badi bene che tale importanza strategica attribuita al non-profit in generale
proviene da riconoscimenti effettuati nientemeno che dalla Banca d’Italia, dai
vertici della Chiesa Cattolica, dal mondo delle fondazioni bancarie e
finanziarie. La tendenza sembra essere quella di una economia dai due volti: nel
primo si persegue esclusivamente il profitto con i conseguenti costi sociali in
termini di esclusione ed emarginazione; esclusione che dovrebbe venir recuperata
dalla logica solidaristica del no profit, del volontariato.
Un’imprenditorialità sociale spesso in mano alle fondazioni bancarie, in
maniera diretta o indiretta, che a partire dalla tensione etica viene utilizzato
dal consociativismo neo-liberista per precarizzare e flessibilizzare il lavoro
diminuendone nel contempo la forza contrattuale e calmierando così le tensioni
e gli incrementi salariali; realizzando indirettamente pro-fitto attraverso il
controllo dell’impresa e della cooperazione sociale, sfruttando anche in termini
fiscali le donazioni a fini solidaristici; allargando le possibilità di
finanziamento e di distribuzione dei trasferimenti pubblici su quelle imprese
sociali legate al mondo politico-affaristico. Si tratta quindi di un uso
strumentale della cooperazione sociale, dell’azionariato dei lavoratori, delle
false forme partecipative e di democrazia economica del Terzo setto re
finalizzato alle regole dell’efficienza capitalistica con l’utilizzo
dell’economia non profit che si sostituisce al ruolo dello Stato sociale,
comprimendo e canalizzando i conflitti nell’ottica di uno Stato basato
esclusivamente sulle regole dell’economia del profitto affiancate da elargizioni
caritatevoli compatibili con il sistema.
In tale contesto anche le stesse varie nuove forme di
collaborazione a connotato cooperativo e concertativo, portano soltanto alla
compressione dei diritti sindacali acquisiti con lunghe stagioni di lotte
operaie, acutizzando, peraltro, gli svantaggi sociali dello sviluppo e
realizzando un blocco sociale fondato su un nuovo modello consociativo
incentrato su relazioni industriali esclusivamente finalizzate alla performance
d’impresa e alla rottura della solidarietà ed unità dei lavoratori; modello
consociativo che trova la sua realizzazione attraverso modelli comunicazionali
che attraversano e condizionano i comporta-menti dell’intero corpo sociale.
3. Un nuovo modellodi sviluppo per un’Europa delle
socio-compatibilità solidali
Oggi è possibile voltare pagina definitivamente nelle scelte
di politica economica e di politica industriale, per-ché le innovazioni
tecnologiche permettono una più alta produttività di impresa che deriva
esclusivamente dall’incremento di produttività del lavoro. Incrementi di
produttività che sono quindi ricchezza sociale nel suo complesso, e perciò
tali incrementi devono essere finalizzati al miglioramento della qualità del
lavoro, della qualità della vita, a partire dalla riduzione dell’orario di
lavoro a parità di diritti e di salario, e alla redistribuzione degli aumenti
di produttività al fattore lavoro, e quindi ai disoccupati, e non solo ai
profitti come è avvenuto in particolare in questi ultimi venti anni.
Si tratta di piccoli risultati intermedi derivati
semplicemente dagli attuali rapporti di forza tra lavoro e capita-le favorevoli
a quest’ultimo, ma utili per aprire una batta-glia di prospettiva e offensiva
che in pochi anni può porsi l’obiettivo di riduzione più massiccia e
generalizzata del-l’orario di lavoro, innescando processi rivendicativi continui
di riduzione di orario, questi si di alto contenuto conflittuale e in gradi di
aggredire la disoccupazione, fino a giungere ad imporre in 15-20 anni ad esempio
la settimana lavorativa di 15 ore a parità di salario e una redistribuzione non
solo del reddito ma dell’accumulazione valoriale realizzata attraverso le varie
forme di sfruttamento del lavoro.
Si può partire però da subito con battaglie rivendicative a
connotato strategico offensivo, attraverso la riduzione generalizzata
dell’orario di lavoro a parità di salario con forme di tassazione dei
capitali per liberare risorse verso un rafforzamento della spesa sociale
complessiva. La proposta della riduzione dell’orario di lavoro deve però essere
accompagnata da una battaglia offensiva dell’intera classe dei lavoratori, dei
garantiti e dei non garantiti con le organizzazioni dei lavoratori che impongano
la parità del salario reale, il controllo dei ritmi, della condensazione del
lavoro, il mantenimento degli stessi turni, special-mente nelle attività
produttive a ciclo continuo e con un reale controllo sul lavoro straordinario e
sull’aumento dell’utilizzo degli impianti che può più che compensare
l’incremento del salario-orario derivante dalla riduzione dell’orario; la
proposta della riduzione dell’orario di lavoro deve essere effettuata
considerando l’intero arco di vita del lavoratore legandola alla più ampia
battaglia sull’adeguamento del tempo di lavoro a favore del tempo liberato e di
una migliore socialità dell’intera collettività; giungendo così a forme di
socializzazione dell’accumulazione di ricchezza riconoscendo ad esempio a tutti
i non garantiti un REDDITO SOCIALE MINIMO con risorse derivanti dalla tassazione
dei capitali, superando così un contesto difensivistico, compatibile con le
esigenze di ristrutturazione del modello capitalistico.
Per far ciò bisogna saper coniugare un forte, rinnovato e
antagonista sindacalismo del lavoro ad un nuovo, e altrettanto
antagonista, sindacalismo del territorio.
Al centro dell’iniziativa politica e sociale devono ritornare
le associazioni di base, i comitati di quartiere, le forme organizzate del
dissenso nel territorio, il sindacalismo di classe, cioè l’insieme di quelle
organizzazioni del lavoro e del lavoro negato che non scelgono il
consociativismo, ma che anzi sappiano porre come immediato il problema del
potere attraverso la distribuzione sociale del valore e della ricchezza
complessivamente prodotta, riassumendo nel contempo i nuovi soggetti della
trasformazione sociale, le nuove povertà, le fasce deboli della popolazione,
come definizione di una ricca risorsa del-l’antagonismo sociale.
La capacità di analisi scientifica e di iniziativa
politica deve partire dal fissare regole di controtendenza rispetto alla
società dell’impresa e delle privatizzazioni in cui lo Stato ridiventi non solo
garante degli equilibri, controllore, ma uno Stato interventista e occupatore,
che crei nuovo e diverso lavoro non mercantile, capace di attuare e
regolare l’efficienza del sistema orientato al rafforzamento di un nuovo Welfare
State che soddisfi nuovi bisogni, a partire da un nuovo e più moderno sistema
della qualità della vita.
La società del terziario avanzato crea nuovi bisogni, ma con
l’attuale modello di sviluppo crea nel contempo nuove esclusioni; diventa allora
strategico porre al centro del dibattito una progettualità complessiva per un
diverso modello di sviluppo, solidale socio-ecocompatibile, in cui strategiche
siano le compatibilità ambientali, la qualità della vita, il soddisfacimento
dei nuovi bisogni, la centralità del lavoro e la valorizzazione del
tempo liberato, la redistribuzione del reddito, del valore e la
socializzazione della ricchezza complessivamente prodotta.
4. Tassazione dei capitali, Tobin Tax e Reddito Sociale
Minimo
Per iniziare a realizzare tali obiettivi minimi bisogna a
questo punto inserire ún altro argomento macroeconomico fondamentale, che è
volutamente sorvolato o affrontato in chiave esclusivamente "morale"
e, quindi, non risolutiva dai tecnici ed economisti che fanno riferimento al
nuovo modello economico-sociale liberista-concertativo. Stiamo parlando
dell’evasione e dell’elusione fiscale, e più in generale di una radicale
riforma fiscale in grado di prelevare le entrate del bilancio pubblico da una
maggio-re e più articolata tassazione dei capitali.
La crisi che stiamo vivendo in questi anni è ben più
complessa ed il vecchio Welfare state è ormai obsoleto ed inadeguato alle
odierne circostanze.
L’idea socialdemocratica della difesa di un sistema graduato
di rimesse secondo i contributi e i redditi ormai non si fonda più sui diritti
e doveri di tutti i cittadini ma sui diritti e doveri dei lavoratori,
soprattutto i dipendenti. I contributi obbligatori ai sistemi che prevedevano
pensioni per la vecchiaia, assicurazione sanitaria e sussidi di disoccupazione
pesano fortemente sui redditi da lavoro dipendente, sulle fasce più deboli di
lavoro autonomo, sui pensionati, senza che vi sia una seria tassazione dei
capi-tali, in particolare di quelli finanziari speculativi ed una decisa lotta
alla grande evasione ed elusione fiscale.
Le risorse finanziarie, quindi, ci sono e sono disponibili
per il raff dati ad esclusivo vantaggio del capitale e non del lavoro; allora
tali risorse finanziarie devono essere preleva-te attraverso una seria e decisa
tassazione dei capitali nelle sue diverse forme (tassazione uniforme dei
capita-li finanziari e speculativi, tassazione dell’innovazione tecnologica,
tassazione del capital gain), lanciando in tal senso, inoltre, una campagna di
iniziativa politico-economica internazionale e di civilità che realizzi la
cosiddetta Tobin Tax.
James Tobin, premio nobel per l’economia nel 1981, è
considerato un forte sostenitore del pensiero keynesiano. La tassa di cui
parliamo prende il suo nome proprio perchè fu il primo economista ad
evidenziare la diversificazione del rischio come motivo inerente la razionalità
de-gli investitori. La Tobin Tax nella sua formulazione originaria prevede una
regolamentazione dei cambi e una tassazione di tutte le transazioni di capitale
finanziario a carattere speculativo, che però è possibile realizzare soltanto
attraverso una mondializzazione delle intese fiscali per non sminuire la sua
portata attraverso la fuga dei capitali verso i cosiddetti paradisi fiscali.
Come CESTES-PROTEO abbiamo aderito all’organizzazione
internazionale non governativa ATTAC (Azione per una Tobin Tax di aiuto ai
cittadini) che si è costituita da poco tempo per imporre ai governi e alle
organizzazioni economiche internazionali l’applicazione appunto della Tobin Tax,
e ci siamo detti disponibili a stare in que orzamento di un Welfare State non
più e non solo della semplice cittadinanza, ma di uno Stato Sociale che oltre a
redistribuire reddito socializzi l’accumulazione del capitale, distribuisca
cioè ricchezza derivante da incrementi di produttività che sono andati ad
esclusivo vantaggio del capitale e non del lavoro; allora tali risorse
finanziarie devono essere preleva-te attraverso una seria e decisa tassazione
dei capitali nelle sue diverse forme (tassazione uniforme dei capita-li
finanziari e speculativi, tassazione dell’innovazione tecnologica, tassazione
del capital gain), lanciando in tal senso, inoltre, una campagna di iniziativa
politico-economica internazionale e di civilità che realizzi la cosiddetta
Tobin Tax.
James Tobin, premio nobel per l’economia nel 1981, è
considerato un forte sostenitore del pensiero keynesiano. La tassa di cui
parliamo prende il suo nome proprio perchè fu il primo economista ad
evidenziare la diversificazione del rischio come motivo inerente la razionalità
de-gli investitori. La Tobin Tax nella sua formulazione originaria prevede una
regolamentazione dei cambi e una tassazione di tutte le transazioni di capitale
finanziario a carattere speculativo, che però è possibile realizzare soltanto
attraverso una mondializzazione delle intese fiscali per non sminuire la sua
portata attraverso la fuga dei capitali verso i cosiddetti paradisi fiscali.
Come CESTES-PROTEO abbiamo aderito all’organizzazione
internazionale non governativa ATTAC (Azione per una Tobin Tax di aiuto ai
cittadini) che si è costituita da poco tempo per imporre ai governi e alle
organizzazioni economiche internazionali l’applicazione appunto della Tobin Tax,
e ci siamo detti disponibili a stare in que sta organizzazione a condizione che
le risorse liberate attraverso la tassazione dei trasferimenti di valuta
all’estero siano da utilizzare esclusivamente a fini sociali, ambientali,
occupazionali e per finanziare forme di Reddito Sociale Minimo per disoccupati,
precari e non garantiti.
Nonostante l’idea iniziale di James Tobin fosse di
venticinque anni fa, e che si sono detti nel tempo disponibili alla sua
attuazione anche personaggi politici, economisti ed istituzioni che spesso hanno
avuto seria responsabilità sull’imposizione a livello planetario della
globalizzazionefinanziaria neoliberista, noi pensiamo che la tassazione delle
transazioni speculative (si pensi che quotidianamente circa 1.500 miliardi di
dollari vengono trasferiti con tali modalità e circa il 90% di tali transazioni
hanno durata che non supera i quattro, cinque giorni) se avvenisse anche con
aliquote differenziate in funzione della durata dell’operazione, disincentivando
fortemente gli investimenti di breve periodo, realizzerebbe diverse centinaia di
miliardi di dollari l’anno che la comunità internazionale potrebbe gestire a
fini sociali, sanitari, ambientali, di lotta alla povertà e di forte incremento
occupazionale.
Le ultime valutazioni indicano un ammontare complessivo di
1.600 miliardi di dollari di transazioni speculative annui operato nel mercato
dei cambi e delle valute, di cui i quattro quinti con durata inferiore alla
settimana, contro i poco più di 15 miliardi di dollari di venticinque anni fa (
per cui si è avuto un incremento di transazioni di cambio a carattere
speculativo di oltre 100 volte in 25 anni) che costituiscono un ammontare pari a
un terzo del commercio mondiale. Si pensi che anche nel caso in cui venisse
applicata una forma di Tobin Tax su solo tali transazioni speculative, ed
applicando un prelievo fiscale minimo su ogni transazione pari allo 0,5 per
mille, così come proposto inizialmente da Tobin, si realizzerebbero circa ogni
anno 130 miliardi di dollari, cioè 200 mila miliardi di lire da destinare alla
lotta contro la povertà, la disoccupazione e le disuguaglianza di ogni genere.
Se poi la tassazione delle transazioni speculative in cambio considerasse una
diversificazione dell’aliquota in funzione del-la durata della transazione
colpendo maggiormente quel-le a durata inferiore, ipotizzando, a titolo
d’esempio, una tassa media del 2 per mille su ogni transazione , produrrebbe
risorse pari a circa a 600 mila miliardi di lire. Se poi si accettasse il punto
di vista di CESTES-PROTEO relativamente all’ipotesi di allargare la Tobin Tax ad
ogni trasferimento di capitale all’estero riguardante tutte le transazioni
internazionali di capitale finanziario a carattere speculativo, cioè tenendo
conto dell’ammontare impressionante di migliaia di miliardi di dollari che
quotidiana-mente si muovono per finalità speculative in valori mobiliari sui
mercati borsistici internazionali uniformando inoltre a livello internazionale
ogni tassazione sui capita-li colpendo anche l’innovazione tecnologica che
produce decremento di occupazione, si libererebbero risorse di centinaia di
migliaia di miliardi in ogni paese a capitalismo avanzato, o meglio dell’area
che promuove le logiche della globalizzazione del capitalismo finanziario, da
redistribuire ai lavoratori, occupati e non occupati, in forme diverse e
comunque a firri di eco-socio compatibilità solidali.
Tutto ciò presuppone un’inversione di rotta, una riforma
fiscale a carattere internazionale, una trasformazione completa del sistema di
tassazione dei capitali, in particolare di quelli finanziari speculativi, delle
rendite di capitale, della lotta alla grande evasione ed elusione fiscale,
sanzionando duramente i paradisi fiscali, colpendo inoltre i profitti non
reinvestiti e quindi non destinati al-l’investimento produttivo, ed inoltre nei
giusti modi anche il capitale circolante come fattore di produzione che crea
ricchezza. Non si capisce perché attualmente a livello internazionale è solo
il lavoro in quanto fattore produttivo ad essere fortemente colpito dal fisco.
In una società terziarizzata in cui il sistema produttivo si basa sempre più
sull’innovazione tecnologica che sostituisce il lavoro umano diretto, non si
può mantenere l’incongruenza di un sistema fiscale basato fortemente
sull’imposizione indiretta e sulla tassazione pesante del fattore lavoro. Per
riprendere uno slogan caro a vecchi e saggi economisti socialisti che già
facevano questo ragiona-mento oltre venti anni fa, in un sistema di produzione
che cambia bisogna passare dalla tassazione delle braccia che lavorano alla
tassazione delle braccia dei robot che sostituiscono il lavoro umano. Spostare
insomma la pressione fiscale verso il capitale come fattore produttivo
circolante, fattore ormai fortemente centrale e propulsivo nella nuova
determinazione della ricchezza, indirizzando così le risorse verso
investimenti produttivi, al-l’occupazione e la protezione sociale,
redistribuendo socialmente l’accumulazione verso il tempo liberato dal lavoro
salariato.
Tale battaglia può contribuire ad opporsi ai processi di
finanziarizzazione dell’economia, agli accordi multilaterali sugli investimenti
(tipo l’AMI) e a combattere le forme di privatizzazione del Welfare (che ad
esempio attraverso i fondi pensione e assistenziali contribuiscono alla
speculazione finanziaria e all’abbattimento dello Stato Sociale): questa
battaglia economica e di civiltà può inoltre essere indirizzata verso principi
di giustizia fiscale e distributiva che possano colpire gli enormi profitti
accumulati, gli enormi incrementi di produttività, sottraendo-li all’ingordigia
dell’accumulazione di capitale.
La Tobin Tax, insieme alle altre modalità di tassazione dei
capitali (capital gain uniformato a livello internazionale, innovazione
tecnologica, ecc.), diventa così veicolo di risorse fondamentali per finanziare
anche un progetto di Reddito Sociale Minimo (RSM), che oltrepassando le
frontiere italiane, rappresenti una proposta forte di politica economica che
interessa non l’Europa di Maastrich ma un’Europa sociale e del lavoro, assumendo
anche caratteristiche internazionali.
Infatti, nasce proprio con questi presupposti la pro-posta
del Reddito Sociale Minimo (RSM), una proposta controtendenza portata avanti da
oltre due anni dal Centro Studi Trasformazioni Economico-Sociali (CESTESPROTEO)
e ormai da oltre cinquanta sigle dell’associazionismo di base (centri sociali,
comitati di quartiere, circoli e strutture del volontariato). Davanti ai dati
statistici che segnalano in tutta Europa una riduzione del reddito complessivo e
una compressione del potere d’acquisto salariale anche attraverso il massiccio
ricorso al-la flessibilità, alla precarizzazione, alla sottoccupazione, al
lavoro nero o sottopagato e all’annullamento totale o parziale dei diritti
sindacali acquisiti, la proposta invece realizza la combinazione fra riduzione
dell’orario di lavoro e istituzione del RSM. La previsione di un Reddito Sociale
Minimo vuole contrapporsi alla dissoluzione del-lo Stato sociale proponendo già
da subito la riqualificazione di tutti gli strumenti di protezione sociale e
l’au-mento dei livelli delle pensioni sociali e minime. L’articolato legislativo
proposto dal CESTES prevede un importo del RSM di lire dodici milioni annui (non
soggetti a tassazione); i requisiti per l’accesso prevedono la regolare
residenza nel nostro Paese da almeno due anni, l’iscrizione alle liste di
collocamento da almeno un anno, reddito imponibile annuo percepito non superiore
a 5 milioni, e appartenenza a nucleo familiare con reddito imponibile annuo non
superiore a 35 milioni. L’importo sopra indicato va rivalutato annualmente in
base agli in-dici ISTAT; è prevista inoltre la riduzione del cinquanta per
cento dell’importo nell’ipotesi di svolgimento di attività lavorative che
comunque producono un reddito inferiore all’ammontare del Reddito Sociale Minimo
e la decadenza dal percepimento dello stesso nell’ipotesi in cui si ottenga un
lavoro a tempo pieno; ciò permette di rivolgere tale istituto non solo ai
disoccupati ma anche a coloro che svolgono lavoro precario, sottopagato o che
hanno forme di sottoccupazione. Il periodo di fruizione del RSM deve essere
calcolato ai fini pensionistici e prevede inoltre in favore di soggetti titolari
anche forme di reddito indiretto e differito attraverso l’accesso gratuito ai
servizi fondamentali (trasporti urbani, servizio sanitario, studi, ecc.) e il
dimezzamento dei costi delle utenze relative alle forniture di gas, luce, acqua,
telefono, rifiuti, oltre a un canone sociale per l’utilizzo degli alloggi di
edilizia residenziale pubblica. Si è calcolato che le risorse necessarie per le
spese conseguenti all’introduzione della nuova normativa ammonteranno a circa
cinquantamila miliardi di lire annui che andranno reperite esclusivamente
attraverso varie forme di tassazione sui capitali. Un terreno, infatti,
immediatamente praticabile è quello di applicare una efficace imposta
patrimoniale, di colpire le rendite finanziarie e i grandi patrimoni, di tassare
realmente e uniformemente a livello internazionale i guadagni in conto capitale
(capital gain), di ridur-re le agevolazioni verso le imprese, per poter così
aumentare la spesa pubblica in modo che questo possa rappresentare un
investimento ad alta redditività sociale basato su principi di giustizia
fiscale e tributaria, e quindi di giustizia sociale.
Si ricorda che attualmente è assente una qualsiasi forma di
tassazione sulle transazioni riguardanti prodotti finanziari denominati in
valuta estera, senza che siano colpiti in alcun modo i trasferimenti
internazionali di capi-tale, neppure quelli a finalità speculativa. Si tratta
di re-perire, quindi, le risorse finanziarie per l’istituzione del RSM non dalla
fiscalità generale, ma dalla tassazione dei capitali, anche attraverso una
Tobin Tax finalizzata alle prestazioni sociali per la povertà, la
disoccupazione, per creare nuovi posti di lavoro a pieno salario e pieni
diritti. Dal nostro punto di vista, infatti, i proventi derivanti dal-la Tobin
Tax dovranno essere utilizzati esclusivamente a fini socio-ambientali, per
creare occupazione e da destinare al Reddito Sociale Minimo per disoccupati e
precari. Inoltre la gestione di tali fondi derivanti dall’applicazione della
Tobin Tax non può essere effettuata da quegli organismi internazionali (come il
Fondo Monetario Internazionale) che sono invece proprio i veicolatori di quel
modello neoliberista a forti connotati di economia finanziaria che, oltre a
rendere sempre più marcato il di vario Nord-Sud sta ulteriormente peggiorando
le condizioni di vita delle stesse popolazioni ad industrialismo avanzato.
Tassare finalmente nei modi diversi suddetti il capita-le,
fino a giungere anche alla tassazione dell’innovazione tecnologica, effettuare
degli appropriati controlli attraverso un’anagrafe patrimoniale ed una
efficiente anagrafe tributaria, significa far riappropriare i ceti meno abbienti
della popolazione, i lavoratori, composti da occupati e non occupati, di quella
ricchezza sociale da loro stessi prodotta e realizzata e che si è sostanziata
nel tempo in quegli incrementi di produttività che sono andati fino ad oggi ad
esclusivo vantaggio del capitale.
L’obiettivo minimo, praticabile per riverticalizzare il
conflitto capitale-lavoro è allora quello di rafforzare la battaglia,
l’iniziativa di dibattito e di lotta, che realizzi la riduzione generalizzata
dell’orario di lavoro sull’intero arco di vita del lavoratore a parità di
salario e con controllo dei ritmi e della condensazione del lavoro realizzando
così un milione di posti di lavoro ripartendo anche da produzioni non
mercantili e dalla ridefinizione di uno Stato occupatore; recuperare almeno 50
mila miliardi annui dalla tassazione dei capitali da destinare al Reddito
Socia-le Minimo per disoccupati e precari.
E’ in ambito di un programma per un’Europa del lavoro e delle
eco-socio-compatibilitò solidali che vanno recuperati in termini redistributivi
gli immensi incrementi di produttività che si sono realizzati in particolare in
questi due ultimi decenni, rivendicando da subito una riduzione generalizzata
dell’orario di lavoro a parità di salario reale, ponendo le basi per creare
nuova occupazione a partire da lavori a compatibilità sociale e ambienta-le e
di pubblica utilità con pieni diritti e piena retribuzione, rafforzando nel
contempo il Welfare State tramite incrementi delle entrate del bilancio pubblico
determinate dalla tassazione dei capitali, in modo da poter inserire nella spesa
sociale anche un Reddito Sociale Minimo europeo da distribuire ai disoccupati,
ai precari, ai marginali.
E’ su tale proposta che CESTES-PROTEO ha lanciato una
battaglia culturale, politica e sociale, che vuole ave-re dimensioni europee, a
partire da una proposta di legge di iniziativa popolare che solo negli ultimi
due mesi ha già raccolto circa 30.000 firme per poter giungere a fine maggio ad
oltre 50.000 firme in modo da portare la proposta in Parlamento. Si tratta
allora di continuare e rafforzare l’offensiva di quel mondo culturale, politico,
sindacale, dell’associazionismo di base, di tutte quelle forze che non accettano
le compatibilità e l’omologazione dei principi politico-economici neoliberisti
basa-ti sulla cultura delle privatizzazioni del patrimonio pubblico, del
welfare,del sociale; un’offensiva politica,sociale ed economica che sappia
legare la riduzione generalizzata dell’orario di lavoro, la creazione di nuova
occupazione per produzioni non necessariamente a carattere mercantile, la
tassazione dei capitali per socializzare la ricchezza complessiva, il
riconoscimento del Reddito Sociale Minimo per disoccupati e precari, il
rafforzamento di un nuovo Stato Sociale della distribuzione dell’accumulazione,
in un nuovo modello di sviluppo a forti connotati di eco-socio-compatibilità
fuori-mercato.