Crisi dell’accumulazione, e dinamica degli investimenti
Maurizio Donato
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La politica sull’occupazione portata avanti da questo come dai governi
precedenti si basa su alcune semplici assunzioni: occorre sussidiare le imprese,
altrimenti queste non investono nel nostro paese, occorre `liberalizzare’
ulteriormente il mercato del lavoro, e forse occorre diminuire i tassi di
interesse reali. In una fase del ciclo della crisi in cui strutturalmente
diminuisce il lavoro necessario e cresce la massa dei profitti per le imprese,
un governo che voglia dirsi progressista dovrebbe pensare piuttosto a strategie
e provvedimenti mirati a sussidiare il lavoro, in qualsiasi forma riferita al
valore complessivo del salario.
Premessa
Interrogandosi sulle strategie migliori in grado di
riportare un paese come l’Italia su un sentiero virtuoso di crescita sostenuta
e bassa disoccupazione, l’economista nord-americano E. Phelps’ si è dichiarato
recentemente favorevole a una sorta di neo-Rinascimento basato sulla creazione
di cultura imprenditoriale che però, abbastanza curiosamente, abbisognerebbe di
"employment subsidies for several decades" che sconterebbero un tasso
di apprendimento lento giustificabile forse con l’ideologia italiana. In
contrasto con l’opposto invito proveniente da Modigliani2 che ritiene un
rilancio degli investimenti essenziale per la ripresa dell’occupazione e lamenta
gli alti tassi di interesse gestiti dalla politica monetaria europea, diversi
economisti, ritenendo la disoccupazione europea superiore al suo "livello
di equilibrio naturale", notano come, proprio con riferimento
all’economia italiana, più di una riduzione nel recente passato dei tassi
ufficiali di sconto non sembra avere stimolato più di tanto l’occupazione, via
in-vestimenti. In numerosi modelli micro-fondati, i teorici neo-keynesiani
sottolineano viceversa da tempo l’importanza dell’addestramento professionale
come costo impor-tante che le aziende cercherebbero di evitare pagando i propri
lavoratori anche più del salario "di equilibrio". In realtà, si
potrebbe pensare a questi costi come costi di supervisione e controllo, che
però vengono da un altro canto ridotti grazie alle possibilità crescenti di
automazione del controllo. In generale, i modelli cosiddetti neo-keynesiani
sono propensi a credere all’importanza di rigidità, nominali o reali, che
impedirebbero ai mercati di trovarsi in equilibrio. In queste condizioni, una
politica di sussidi, sotto qualsiasi forma, al capitale non è affatto detto che
comporti maggiore occupazione; anzi, da un lato, le desti-nazioni della spesa
dei capitalisti restano determinate, nel medio periodo, dal confronto tra il
"prodotto marginale del capitale" e una sorta di media del tasso
d’interesse prevalente a livello mondiale; d’altro canto, se il sussidio al
capitale corrisponde a una diminuzione del reddito disponi-bile per i
lavoratori, l’effetto sulla domanda aggregata sarà negativo, deprimendo
ulteriormente le ragioni per l’occupazione. In diversi articoli e in un libro
Phelps ha cercato di dimostrare come, tenendo conto della ricchezza, gli
au-menti nello stock di capitale oggi aumentano la disoccupazione. Nel suo
modello di "mercato dei clienti" ogni au-mento nello stock di capitale
che non sia accompagnato da un aumento nello stock dei clienti può favorire una
sostituzione di capitale a lavoro, piuttosto che un semplice au-mento
nell’intensità di capitale senza licenziamenti. Come a dire, i sussidi dati al
capitale servono al capitale solo a di-sfarsi di ulteriore lavoro.
Più in generale, per garantire l’aumento dell’output di un
sistema economico composto da lavoro e capitale, o si cerca di incrementare
l’investimento in nuovi beni capi-tali tecnologicamente avanzati, o si
incrementa il lavoro, o si cerca di aumentare l’efficienza, cioè la
produttività dei fattori di produzione. Con un livello di produttività vicino
alla frontiera e in presenza di una tendenza al ristagno de-gli investimenti,
l’unica politica pubblica in grado di sostenere la crescita deve
necessariamente fondarsi sul sostegno al lavoro, all’occupazione e al salario
inteso come salario sociale globale.
1. Crescita e investimenti
Secondo l’opinione espressa da Haberger3 molti, forse la
maggior parte degli economisti, credono che l’aumento del reddito prodotto
venga spiegato dall’ aumento dei fattori di produzione, ma quando si tenta di
stimare questa relazione, non sempre i risultati sembrano conferma-re le
aspettative. Comunque misurato, il cosiddetto "resi-duo di Solow"
finisce con spiegare la metà o più degli incrementi della produzione, che
alcuni considerano prevalentemente "capitale umano", altri
"progresso tecnico" o, come sostiene Haberger, "un fattore di
riduzione reale dei costi". Quanto questo fattore sia legato a una tendenza
al-la concentrazione, dunque a una qualche forma di economie di scala, è lo
stesso Haberger a sottolinearlo, tenendo conto delle stime del rapporto tra gli
aumenti di produttività sperimentati nel tempo da diversi rami di industrie,
e della loro tendenza alla concentrazione. Dai risultati dei suoi studi si
evince che: una più che modesta frazione dei settori dell’industria
manifatturiera statunitense rappresenta per ogni periodo il 100% della
"riduzione reale dei costi"; nel resto dell’industria si contano alla
fine di ogni periodo vincitori e vinti, con gli incrementi di produttività di
alcuni controbilanciati dai decrementi di altri. In merito al metodo di analisi,
Haberger suggerisce di studiare le diverse componenti di un processo di
crescita, dal saggio di investimento al tasso di rendimento del capitale ecc. in
maniera separata e, in particolare, di soffermarsi sul saggio di investimento
piuttosto che su quello di risparmio, dal momento che, soprattutto per
economie fortemente interdipendenti ed aperte al commercio internazionale,
il risparmio interno è ben poco in relazione con l’investimento interno. Per
quanto riguarda direttamente l’evoluzione delle variabili maggiormente candidate
a spiegare la dinamica del tasso di crescita, è ancora Haberger, nel suo
Presidential Address dell’American Economic Association del 1998, ad affermare
che la pervasività della diminuzione della produttività è la conclusione più
profonda che si possa trarre dai suoi studi empirici. Stan-do così le cose, è
all’investimento, e al suo rapporto con il saggio di profitto, che occorre
rivolgere l’attenzione, a partire da un esame delle sue determinanti
microeconomiche, per verificare se esiste una possibilità di legare ancora
le prospettive della crescita ad un aumento nel ritmo degli investimenti, e
dunque adottare politiche pubbliche che si giustificano in questa prospettiva.
Se così non fosse, occorrerebbe prenderne atto e passare a politiche di
sostegno attivo al lavoro, all’occupazione, al salario.
(I) La crisi del meccanismo di accumulazione
In un saggio dedicato all’esame di un secolo di sviluppo
economico in Italia, N. Rossi e G. Toniolo’ dichiarano di considerare
"ormai datata, anche per la formulazione totalizzante e l’elevato contenuto
ideologico" la tesi sostenuta da Pietro Grifone circa la presunta
prevalenza in Italia di un capitalismo orientato alla rendita piuttosto che ai
profitti, e con ciò facendo riferimento al ruolo e al-l’importanza del concetto
di capitale finanziario5 che, secondo gli autori, offrirebbe alcuni spunti da
non trascura-re. E’ proprio il concetto di capitale finanziario, inteso come
fusione tra banca e impresa, che potrebbe fornire utili elementi per la
comprensione di quella diminuzione generalizzata del ritmo di crescita degli
investimenti e del reddito che costituisce una caratteristica importante
del-l’attuale fase del ciclo della crisi.
Per quanto riguarda le evidenze empiriche disponibili, in
un recente volume dedicato ad un esame della politica economica italiana negli
ultimi trent’anni, S. Rossi6 trova evidenza per una drastica attenuazione nel
ritmo di sviluppo dell’economia italiana, specificando che non si tratta di una
caratteristica peculiare a una singola nazione, bensì di una tendenza comune
all’Europa intera. In realtà, non si tratta nemmeno solo dell’economia
europea, dal momento che le previsioni sulla crescita mondiale presentate
dal F.M.I. nell’autunno del `98 parlano esplicitamente della realtà di un
tasso di crescita in calo a li-vello globale, con rischi positivi e crescenti di
una recessione mondiale entro il 1999. Con una inversione repentina quanto
tardiva, tutti i principali organismi economi-ci sovranazionali sembrano essere
passati dall’ottimismo al pessimismo quanto alle capacità del sistema
economico capitalistico di prosperare e garantire all’umanità livelli
decenti di vita e di sviluppo, e tutto ciò proprio in presenza di
un’applicazione generalizzata e massiccia quanto mai prima delle dottrine
economiche tradizionali in praticamente tutte le economie del pianeta.
In particolare, l’OCDE ha pubblicato recentemente uno studio
dedicato alla "globalizzazione"7 in cui vengo-no esaminati
retrospettivamente gli ultimi 25 anni di sto-ria economica ed indicate alcune
previsioni a medio termine. Lo studio si apre, significativamente, con
l’annotazione di un rallentamento del ritmo dell’accumulazione del capitale
nella zona OCDE (pag. 59). Passando alle differenze tra aree, 1’OCDE nota come
in Europa l’accumulazione del capitale abbia sperimentato la tendenza alla
crescita notevole dell’intensità capitalistica dei processi di produzione,
mentre negli Usa abbiamo assistito ad un accrescimento della capacità di
investimento da parte delle imprese; per quanto riguarda il Giappone, I’OCDE
ritiene che il rallentamento spettacolare registrato all’inizio degli anni `90
potrebbe essere in buona parte dovuto ad elementi congiunturali. In generale,
durante l’ultimo quarto di secolo, lo stock di capitale dei paesi membri
dell’OCDE ha conosciuto una crescita media dell’1% l’anno: a crescere in
maniera relativamente più sostenuta sono stati invece gli investimenti diretti
all’estero (IDEI, e questo anche grazie ad una politica generalizzata di
liberalizzazione che, pur interessando in misura crescente le economie dei
paesi dominati, vede ancora una concentrazione del 96% del totale degli IDE
nell’ambito dei paesi OCDE. Per quanto riguarda i possibili scenari futuri, da
qui al 2020, gli esperti dell’OCDE hanno tenuto conto di due diverse
possibilità: una ipotesi definita di "crescita forte". tutta basata
sulla speranza politica di una continuazione delle politiche di liberalizzazione
a favore delle imprese che porterebbe - "se tutto va bene" - ad un
aumento moderato del tasso di investimento nel breve periodo, seguito in
ogni caso da una sua diminuzione successiva. Va da sé che l’ipotesi di
"crescita più lenta" prevede una stagnazione nel ritmo di crescita
degli investimenti nel breve e nel medio periodo, e comunque una sua diminuzione
nel lungo. Dato questo quadro, gli analisti OCDE ritengono che, almeno nei paesi
dominanti, il contributo maggiore alla crescita economica sarà rappresentato
dagli incrementi di produttività, mentre per quanto riguarda Europa e
Giappone il contributo dell’occupazione alla crescita sarà certamente limitato
anche nello scenario più roseo, fino a diventare addirittura negativo,
fondamentalmente a causa delle dinamiche demografiche all’opera in queste due
aree del pianeta.
Tra il dopoguerra ed oggi in Italia il saggio di
accumulazione, espresso come rapporto tra investimenti fissi lordi e prodotto
interno lordo, è calato continuamente e consistentemente: secondo i dati
riportati da uno studio della Banca d’Italia6 solo tra il 1973 e il 1995 la
quota de-gli investimenti sul pil è passata dal 24 al 18%. Secondo 1’ISTAT9 tra
il 1980 e il 1996 il tasso di incremento medio annuo del capitale, calcolato al
lordo del deprezzamento del capitale installato e a prezzi 1990, è andato
diminuendo, passando dal 2.9% degli anni ottanta al meno del 2% degli anni
novanta: analizzando il rapporto tra investi menti e stock di capitale negli
ultimi quindici anni, si registra che la dinamica positiva degli investimenti
ha solo in parte frenato la progressiva diminuzione del processo di
accumulazione - dal 5% del 1980 al 3.5% del 1996 -. Tale andamento è
particolarmente pronunciato nel setto-re industriale - che passa dal 7.3% del
1980 al 4.8%, del 1996 - dove, nel tempo, le scelte di investimento si sono
spostate dai comparti ad alta intensità di capitale verso settori con più
bassi livelli di capitalizzazione I...] la ripresa del processo di
accumulazione si presenta con una intensità di gran lunga inferiore a quella
tipica degli inizi degli anni ottanta. In generale, dal 1980 ad oggi la
crescita dello stock di capitale ha subito un rallentamento in tutti i settori
produttivi.
Per quanto riguarda la dinamica del Prodotto interno lordo, è ancora l’ISTAT
a sottolineare come negli ultimi sei anni la sua crescita media in termini
monetari è stata del 6.1%, contro un tasso medio del 10.1% nella seconda metà
degli anni ottanta e del 16.2°/x, nel periodo 1981-85.I1 Centro Studi
Confindustria. nel suo Rapporto del 1997. scrive che nel 1996 l’attività di
investimento ha assunto un profilo cedente. Il processo di accumulazione sembra
entrato in una fase di ristagno sia per quanto riguarda la componente dei
macchinari e delle attrezzature che per quella delle costruzioni mentre, per
quanto riguarda il lungo periodo, una nota allegata allo stesso rapporto1’
precisa che nel corso del quarantennio in esame [1951 - 1991] la crescita
dell’output manifatturiero è in costante rallentamento.
Con riferimento alle trasformazioni intervenute nella
composizione settoriale dell’offerta manifatturiera in Italia durante gli
ultimi cinquant’anni, sono da notare il ridimensiona-mento dell’industria di
base, la crescita notevole delle industrie meccani-che, il calo drastico
dell’industria tessile, la sostanziale invarianza del peso del cosiddetto made
in Italy e la leggera diminuzione dell’alimentare. Tra le ragioni di queste
trasformazioni, Traù cita il graduale spostamento verso fasi produttive più a
monte (verso la produzione di macchine specializzate) delle imprese della
filiera tessile-abbigliamento, così come di quelle dei set-tori conciario e
calzaturiero e del mobile’i
Guerrieri, Manzocchi e Padoan trovano che la specializzazione
dell’industria italiana tra il 1970 e il 1990 sia cresciuta decisamente nei
settori della meccanica strumentale a elevata diversificazione d’offerta, come
le macchine agricole e industriali, nella componentistica meccanica. gia
apparecchi e i materiali elettrici; si sia mantenuta su livelli elevati nei
settori tradizionali del "made in Italy" come il
tessile-abbigliamento, le pelli e il cuoio, le calzature, la ceramica e i
prodotti in metallo. Viceversa, l’industria italiana si è leggermente
despecializzata nei prodotti ad alto contenuto tecnologico
e ad alta intensità di ricerca e sviluppo, e nettamente è peggiorata nella
maggior parte dei settori ad elevate economie di scala, quali l’automobilistico,
l’elettronica di consumo, le macchine per ufficio, la chimica, la metallurgia.
Che la crisi del meccanismo di accumulazione vada so-stanzialmente
retrodatata fino agli anni `60 è messo in rilievo, tra gli altri, da M.
Magnani’3 che definisce come caratteristica centrale del periodo 1964-1969
proprio la stasi dell’accumulazione. Gli investimenti, sorretti dal settore
delle costruzioni, superano in Italia solo nel 1969 il livello del 1963,
registrando nel periodo un incremento medio annuo di poco superiore all’1%: il
tasso di accumulazione (calcolato come investimenti su valore aggiunto) recupera
solo nel 1973 i valori del 1962-63 e lo fa in buona parte grazie all’impulso
degli investimenti del settore pubblico destinati all’industria di base. A
livello di mercato mondiale il periodo compreso tra il 1959 e il 1967 segna la
fase di massima forza del capitalismo nordamericano come compimento del ciclo
ascendente della fase della crisi: dal 1965, con tempi e modi diversi ma sempre
più interdipendenti, si avvia quel processo inflazionistico che esplode poi
visibilmente solo nel passaggio al decennio successivo: tra il 1967 e il 1969,
con mezzo mondo in rivolta, le condizioni di valorizzazione e di accumulazione
del capitale non erano più le stesse di vent’anni prima. La grande e lunga
crisi attuale era cominciata.
Secondo A. Saba "il modello italiano è in modello
moderno di utilizzare lavoro altamente produttivo, quindi capace di produrre
ricchezza, sebbene circondato da un sistema che ha sempre avuto come fine quello
di tra-sformare il sovrappiù, prodotto dal sistema economico, in forme dirette
o indirette di supporto al mantenimento del potere politico. E quindi in forme
dirette o indirette di lavoro improduttivo." In Donato e Gabriele
(1987) trovavamo evidenza per una caduta del saggio di accumulazione con
caratteristiche se possibile ancora più marcata-mente strutturali, e che si
esprime proprio come crescente utilizzo del "sovrappiù"15 prodotto
per spese improduttive e statali, considerando in questo caso la dinamica del
saggio di sovrappiù in rapporto al PIL come un indicato-re che esprime il
"tasso di accumulazione potenziale". Se consideriamo non solo il
mercato interno, ma la realtà del mercato mondiale, la ragione della crisi
dell’accumulazione, tipica di una fase ciclica in cui prevale la forma
speculativa del capitale finanziario, può essere microfondata, a partire
dall’esame delle scelte e dei vincoli finanziari del-le imprese, nella
progressiva prevalenza degli utilizzi finanziari e speculativi del
"sovrappiù" per quanto riguarda le scelte di politica aziendale
interna, e nella internazionalizzazione crescente della produzione, che si
esprime sia nella crescita di "material" importati dall’estero, sia
nella esportazione di capitali che prendono la forma di in-vestimenti diretti
all’estero, soprattutto in alcuni settori e in alcune fasi del processo di
produzione. In questo con-testo, il tasso di sovrappiù SV/PIL indica la
capacità del sistema produttivo di creare valore al di là delle esigenze
immediate di riproduzione della forza-lavoro e può quindi essere definito
come saggio massimo teorico di accumulazione potenziale. Come regola generale
di funziona-mento dei sistemi economici capitalistici, il tasso di sovrappiù
in un paese industrializzato tende a crescere nel lungo periodo in seguito al
progresso tecnico, concentrato nella sfera "materiale" del settore
produttivo, comportando l’espansione del ruolo dello Stato16 e/o del terziario
improduttivo; nei casi più "virtuosi" della c.d. fase fordista del
ciclo di sviluppo capitalistico questo aumento del sovrappiù favorisce la
creazione di surplus esportabile, creando così le basi per una
internazionalizzazione del sistema economico considerato, le cui tappe
successive so-no l’espansione degli investimenti diretti all’estero (LD.E.) e
quindi l’esportazione diretta di capitali.
(II) Decisioni di investimento e scelte finanziarie di
imprese eterogenee
Adottando l’usuale periodizzazione criticata vigorosa-mente,
tra i pochi, da Pala’7, Garofalo e Gambacorta’8 datano al primo shock
petrolifero la tendenza alla diminuzione progressiva dei tassi di crescita del
PIL in termini reali, che avrebbe raggiunto un punto di minimo quasi ovunque nel
1982, seguito da un ciclo positivo interrotto-si di nuovo tra il 1991 e il 1993:
durante questo periodo, riguardo agli investimenti, gli autori trovano che sia
avvenuto un consistente spostamento di risorse verso gli impieghi finanziari,
a danno di quelli produttivi. Trattandosi di un lavoro che fa esplicitamente
riferimento alle teorie della "instabilità finanziaria" per spiegare
le difficoltà di un sistema economico moderno, è utile partire da questa
impostazione teorica che sembra più robusta e meglio micro-fondata rispetto ad
altre possibili ipotesi investigate altrove.
Gli autori considerano una funzione dell’investimento che
collega la spesa delle imprese positivamente al prezzo di domanda dei beni
capitali sul mercato azionario e al livello dell’autofinanziamento e
negativamente al rischio del progetto:
[I] I = I (PK, AF)
Il prezzo di domanda dei beni capitali, a sua volta,
dipende positivamente dai rendimenti futuri, dall’offerta di moneta, ma pure
dai prezzi attesi:
PK = PK (Q, Ms, Pke)
Per quanto riguarda i rischi, Garofalo e Gambacorta,
diversamente da altri sostenitori dell’IIF (ipotesi di instabilità
finanziaria), operano una distinzione: mentre quello del debitore è funzione
inversa della differenza tra la redditività attesa dall’investimento (il ROI)
e il costo medio dell’indebitamento (il tasso d’interesse i), quello del
creditore dipende direttamente dal grado di esposizione del-l’impresa (il
leverage, LEV):
a = a [(ROIe - i), LEV]
Il grado di leverage di un’impresa rappresenta il grado di
copertura del totale degli impieghi mediante l’utilizzo del solo patrimonio
netto, e con un LEV>1, dunque con un indebitamento, ci sarà un effetto
moltiplicativo (di leva, appunto) se la redditività dei nuovi investimenti
su-pera i tassi sugli interessi passivi; 1’IIF è basata proprio sull’ipotesi
che le posizioni patrimoniali delle imprese evolvano "naturalmente" da
posizioni "coperte" a posizioni "speculative" o
addirittura "ultraspeculative".
L’autofinanziamento delle imprese è costituito dalla
differenza tra i profitti meno le imposte meno i dividendi ed il prodotto
dello stock di debito per il suo tasso di interesse:
AF = AF(jj7 - Div) - i Dt_1.
Linserimento dell’autofinanziamento nella funzione degli
investimenti serve a introdurre un tema importante nella discussione sulla crisi
dell’accumulazione, e cioè la compresenza nei mercati di imprese di varia
dimensione, tipicamente piccole, medie e grandi imprese. In questo con-testo
siamo interessati principalmente ad indagare l’eterogeneità tra imprese che
possono disporre di canali di autofinanziamento, e dunque sono meno vincolati ai
cambiamenti nelle politiche monetarie, ed imprese vinco-late.
Con una prospettiva di "instabilità finanziaria"
in mente, i profitti possono essere messi positivamente in relazione con gli
investimenti, il deficit pubblico, il surplus commerciale, ricordando che, per
quanto attiene al-la distribuzione del reddito, si può agevolmente considerare
nulla la propensione al risparmio dei lavoratori, men-tre invece conviene
porre attenzione al consumo dei capitalisti, tipicamente costituito da merci
di lusso; in parti-colare, per quanto riguarda il controverso rapporto tra
in-vestimenti e profitti, Kalecki sosteneva che: ’E’ chiaro che i capitalisti
possono decidere... di investire in un dato periodo di più che nel periodo
precedente, ma essi non possono decidere di guadagnare di più. Sono quindi le
decisioni circa l’investimento... che determinano i profitti, e non
viceversa".’`’ Dal canto suo, Minsky2" scriveva: "Un’economia
capitalistica funziona bene soltanto in quanto economia che investe, poiché
l’investimento genera profitti... L’investimento ha luogo perché ci si
aspetta che i beni capitali frutteranno profitti in futuro ma questi profitti
futuri saranno disponibili soltanto se ha luogo l’investimento. I profitti sono
il bastone e la carota che fanno funzionare il capitalismo".
[V] (Il* = (l1* (I, DP, SC, cn)
La teoria economica che sta dietro al modello, ossia
l’ipotesi di instabilità finanziaria (Minsky), suggerisce che, nelle fasi
ascendenti del ciclo, gli investimenti crescono, stimolati dalla diminuzione
del rischio imprenditoriale, dall’aumento di PK, e dall’aumento degli
autofinanziamenti, indotto dalla crescita della massa dei profitti. A questo
punto, per continuare ad investire, le imprese vengono indotte ad accrescere
l’indebitamento, passando a posizioni finanziarie più
"speculative": il tasso di interesse è spinto a crescere facendo
aumentare il volume degli oneri finanziari sul debito, la profittabilità dei
pro-getti di investimento si riduce, il rischio di impresa cresce, il prezzo
di domanda dei beni capitali cade. Per far fronte alle esigenze di liquidità le
unità economiche sono costrette a vendere sul mercato le attività detenute in
portafoglio, e ciò causa la caduta delle borse peggiorando la situazione
economica generale.
Riprendendo i dati dell’OCDE sul periodo 1980-1991
sull’indebitamento netto delle imprese non finanziarie in rapporto al Pi121
utilizzati da Garofalo e Gambacorta si può notare come effettivamente nel corso
dell’ultima fase espansiva del ciclo della crisi l’indebitamento sia aumentato
sensibilmente per tutte le imprese dei paesi del G7. mentre diversa appare la
composizione dei bilanci delle imprese con l’avvio del ciclo recessivo: mentre
diminuisce l’indebitamento netto delle imprese in Canada, in Francia, in
Giappone, negli Stati Uniti e nel Regno Unito, cresce per le imprese tedesche
e italiane riproponendo sostanzialmente la questione del rapporto tra
indebitamento e cicli.
Delli Gatti, Gallegati e Minsky22 riprendono la visione
Schumpeteriana del ciclo ricordando come un periodo di profonda depressione del
tipo del ’29 coincida con i punti di minimo dei cicli di Kitchen (che riguardano
l’andamento degli investimenti e delle scorte), di Juglar (cicli degli
investimenti con implicazioni monetarie e finanzia-rie) e di Kondratiev (cicli
di ondate di innovazioni tecnologiche fondamentali) aderendo all’IFF per
quanto riguarda la dinamica generale dell’economia.
Nella loro funzione degli investimenti:
[Ibis] It = avt + bt Ift ,
con v che rappresenta il prezzo dei beni capitali, o il
rapporto tra questo e il prezzo di offerta dei beni di investi-mento (come la
q media di Tobin), a è un parametro non negativo, b è il rapporto di leverage
e IF rappresenta l’autofinanziamento.
A sua volta il rapporto di leverage è composto da un
parametro che rappresenta la "preferenza per la liquidità" delle
imprese e da una quota che dipende dai profitti crescendo in modo non lineare:
[VI] bt = b0 + b1 arctg (flt-1)•
La prociclicità degli investimenti e dell’indebitamento è
spiegata da Delli Gatti, Gallegati e Minsky facendo riferimento
all’eterogeneità delle imprese, e in particolare alle condizioni asimmetriche
di finanziamento messe in rilievo, tra gli altri, da Fazzari, Hubbard e
Petersen2 : quando il ciclo si trova nella sua fase espansiva, cresce il numero
delle imprese nuove e dunque piccole e vincolate nei confronti
dell’autofinanziamento: con la crescita del-l’investimento di queste imprese
cresce anche l’indebita-mento medio delle imprese, qualunque sia il
comporta-mento delle imprese maggiori. Quello che non è del tutto chiaro è
viceversa che cosa succede quando il ciclo si inverte, dal momento che
l’indebitamento si riduce sicura-mente per le imprese maggiori, ma non per le
piccole, e questo spiega l’apparente asimmetria della dinamica
del-l’indebitamento netto delle imprese italiane rispetto alla media del G7, dal
momento che la composizione dell’offerta manifatturiera italiana è (ancora)
relativamente me-no concentrata e centralizzata rispetto alle economie
maggiormente "sviluppate".
Mauro Gallegati e Stanca24 mettono l’accento
sull’eterogeneità delle imprese come contrapposta all’obsoleto modello
dell’agente rappresentativo ritenendo che la presenza di eterogeneità tra le
diverse unità economiche sia anche in grado di spiegare alcune caratteristiche
relative al ruolo degli impulsi nominali nel determinare le fluttuazioni e i
cicli dell’economia. Quando si verifica un au-mento nel livello generale dei
prezzi, si produce non solo una crescita della base azionaria delle singole
imprese, ma pure della sua varianza: l’effetto composizione all’opera genera un
comportamento ciclico di tipo asimmetrico che rende la struttura finanziaria del
sistema più vulnera-bile in recessione. In altre parole, un impulso avverso
avrà effetti maggiori sul reddito in recessione che in espansione proprio per
il grado superiore di fragilità finanziaria.
Osservando il comportamento delle imprese medio-grandi
italiane per il periodo 1982-199225 è possibile tentare di verificare se
questo assunto appaia ragionevole.
Consideriamo una struttura semplificata del flusso dei fondi
di una tipica impresa manifatturiera per cui valga l’equilibrio contabile
KI(i) = KI(r) nel senso che il capitale in-vestito considerato in termini di
impieghi deve eguagliare il capitale investito considerato dal versante delle
risorse:
[VII] KI (i) = AI + CI + AD con (AI+CI)=KO;
[VII11 KI(r) = CF + KS + ci + DR
In termini di impieghi, il capitale investito si compone di
attività industriali (AI), capitale circolante (CI) e attività finanziarie
(AF), dove la somma di circolante e attività industriali rappresenta il
cosiddetto capitale operativo (KO). Sul versante delle risorse, il capitale
investito proviene dai flussi di cassa (CF), dal capitale sociale (KS), dai
contributi incassati (ci) e dai debiti finanziari (DF).
Per tutti gli anni ottanta e fino ad almeno l’inizio de-gli
anni novanta, almeno per quanto riguarda le 8.132 imprese riportate dalla
Centrale dei bilanci e le 1.542 del campione Mediobanca, gli investimenti in
attività industriali sono rimasti praticamente stagnanti, rappresentando
una quota del fatturato delle imprese che varia tra il 4 e il 6%; la percentuale
delle attività finanziarie sul fatturato invece triplica, passando dall’1 al
3%, variazione che coincide con quella di segno opposto fatta registrare dal
capitale circolante. Riguardo alle variazioni intervenute nella composizione per
fonte delle risorse che finanziano il capitale investito, si osserva che la
quota rappresentata dai flussi di cassa diminuisce, così come diminuisce
l’apporto del capitale sociale e resta sostanzialmente stabile la quota dei
contributi incassati: quello che è cresciuto è effettivamente il
finanziamento esterno rappresentato da una variazione positiva dei debiti
finanziari, come avevamo osservato dai dati OCSE.
Se, anziché al fatturato, facciamo riferimento direttamente
al totale del capitale investito, notiamo come la quo- ta degli investimenti
tecnici oscilla attorno al 50% tranne un breve picco, gli investimenti in
attività finanziarie cre- scono ininterrottamente dal 10 fino a circa la metà
del ca- pitale investito, con la diminuzione sensibile del capitale circolante
che da circa un terzo dell’investimento conta po- co più di un decimo.
Analogamente, il finanziamento attraverso i flussi di cassa dal 90% passa a
costituirne meno della metà, il capitale sociale che contribuiva per il 15%
vede il suo peso diventare trascurabile, mentre i debiti finanziari
accrescono pesantemente la loro importanza fino a rappresentare poco meno
della metà del capitale investito dalle imprese manifatturiere italiane.
Come ricordato in precedenza, le scelte di investi-mento e di finanziamento
delle imprese italiane si sono risolte in una tendenza alla diminuzione marca
ta e sostanziale degli investimenti "reali" la cui quota scende in
dieci anni dal 20 al 16% mentre la quota delle attività finanziarie sul totale
degli impieghi supera, per la prima volta, la spesa per investimenti fissi.
Bianco, Ferrando, Pellegrini e Trento26, analizzando lo
stesso set di dati, ritengono che il miglioramento dei risultati delle imprese
italiane nel corso degli anni ottanta abbia sollecitato un aumento
dell’autofinanziamento con una conseguente riduzione nel tempo
dell’indebitamento medio; tuttavia, la ristrutturazione finanziaria (per noi, la
accresciuta fusione tra banche e imprese) sarebbe stata realizzata quasi
esclusivamente dalle grandi imprese, per le quali si è ridotto soprattutto
l’indebitamento a breve, mentre per le piccole e medie imprese questo ha
continuato a crescere.
(III) Il rischio e la crisi
E’ ben noto l’influsso che il crollo di Wall Street del 1929
esercitò sulla teoria dell’interesse di I. Fischer; dopo il 1930, fu più
difficile attribuire alle crisi deflattive quel ruolo "catartico" che
avrebbe dovuto in teoria punire le imprese più indebitate e gli speculatori
più avventa-ti; in presenza di una fase di distruzione e svalorizzazione di
capitale in eccesso, non solo sono tutte le unità economiche del sistema ad
essere coinvolte dalla deflazione. ma è anzi possibile sostenere che a
rimetterci di più so-no proprio quei soggetti più "deboli" in
termini di rapporti di forza, che non coincidono necessariamente con le
imprese più indebitate o con gli speculatori più avventati.
Grazie ai successivi contributi di Kalecki27, siamo oggi in
grado di connettere meglio la tendenza all’indebita-mento crescente delle
imprese con le considerazioni sul rischio d’impresa considerato come crescente:
secondo tale principio il singolo imprenditore avrà convenienza ad espandere il
capitale investito finché la somma del rischio marginale e del tasso di
interesse non eguagli quel tasso marginale di profitto che in Kalecki
corrisponde al-l’efficienza marginale del capitale di Keynes. E’ impor-tante
sottolineare che si tratta di rischio marginale e non medio, come ricorda
Corbisiero2s citando lo stesso Kalecki: "abbiamo fin qui assunto -
come si fa generalmente - che il tasso di rischio sia indipendente
dall’ammontare investito K. Credo che questa ipotesi vada abbandonata per
ottenere una spiegazione realistica del perché l’investimento sia limitato. E’
ragionevole supporre che il rischio marginale aumenti col crescere
dell’ammontare investito, perché maggiore è l’investimento, maggiore sarà
la riduzione del reddito che l’imprenditore consegue dal proprio capitale
quando il tasso medio di profitto scende al di sotto del tasso di interesse ".20
In un’altra occasione, Kalecki specifica ancor meglio: `Un’impresa che si
pone il problema di un’espansione deve far fronte al fatto che, dato l’ammontare
del capitale imprenditoriale, il rischio aumenta con l’ammontare investito.
Maggiore è l’investimento rispetto al capitale imprenditoriale, maggiore è
la riduzione del reddito dell’imprenditore nel caso di un esito sfavorevole
degli affari. Supponiamo, per esempio, che un imprenditore non riesca a
realizzare alcun provento dai propri affari. Se soltanto una parte del suo
capitale è investita negli affari e una parte è tenuta in obbligazioni di
prima classe, egli ricaverà ancora un certo reddito netto dal suo capitale.
Se tutto il suo capitale è investito negli affari il suo reddito sarà zero.
Mentre, se egli ha preso a prestito, subirà una perdita netta, il che, se
continua per un tempo sufficientemente lungo, porrà fine all’esistenza della
sua impresa. E’ chiaro che quanto più pesante sarà l’indebitamento, tanto
più grande sarà il pericolo di una tale eventualità.’ 30
Dunque, l’equazione kaleckiana dei profitti è:
[V bis] 11(K) = eK - pK - o (K), dove e rappresenta
l’efficienza marginale del capitale, p il tasso d’interesse, o (K) il rischio
connesso all’ivestimento e K il capitale investito.
La massimizzazione dei profitti implica:
[111 bis] e=p+o’ (K).
Quando le aspettative sui profitti futuri sono favore-voli,
l’imprenditore non solo investirebbe di più, ma si indebiterebbe di più, anche
perché maggiormente disponibile a rischiare in determinati progetti di
investimento. E’ da sottolineare come il rischio di cui parla Kalecki è
direttamente collegato all’indebitamento e dunque si manifesta solo a partire da
una determinate "soglia" di autofinanziamento: mentre il generico
rischio d’impresa è indipendente in quanto tale dalle condizioni di
finanziamento, situazioni per cui valgono i risultati del teorema
Modigliani-Miller, il rischio connesso all’indebita-mento è crescente, sia in
valor medio che in termini marginali.
A differenza di Kalecki, Minsky prende esplicitamente in
considerazione l’eredità costituita dalla situazione patrimoniale delle
imprese, per cui nei suoi modelli le imprese avranno convenienza ad effettuare
spese per investimenti fintanto che la curva di domanda del bene capi-tale Pk
inclinata negativamente giace al di sopra della curva di offerta inclinata
positivamente che esprime il prezzo al quale il bene di investimento è
disponibile sul mercato; tuttavia, se si intende investire al di là del limi-te
costituito dalla quota di utili destinata all’autofinanziamento, diventa
indispensabile indebitarsi.
Ma siccome chi prende a prestito ritiene che i flussi di
contante sui prestiti siano certi, mentre i rendimenti fu-turi attesi non lo
siano, un aumento della proporzione dell’investimento finanziato esternamente fa
diminuire il margine di garanzia e quindi riduce il saggio al quale chi prende a
prestito capitalizza le quasi rendite. A causa del rischio del debitore, quindi,
il prezzo di domanda dei beni capitali "cade": possiamo aggiungere
che tale caduta sarà tanto più veloce quanto maggiore è l’impiego di questo
particolare tipo di bene capitale e quanto maggiore è la quota di fondi presi a
prestito."’
Per passare dal livello micro a quello
macroeconomico, è necessario a questo punto considerare che cosa succede in
un sistema economico in cui sia già presente, in misura notevole,
l’indebitamento. E’ evidente che, affinché i debiti contratti dalle imprese
possano essere onora-ti, le imprese devono essere in grado di conseguire
profitti, ma poiché i profitti dipendono dalle decisioni di investimento,
è necessario che si continui a investire, ma per ottenere le risorse capaci di
finanziare un investimento, le imprese devono indebitarsi nuovamente,
amplificando le iniziali condizioni di fragilità.
Sulla corretta definizione di condizioni di fragilità
finanziaria, ritorna estesamente Corbisiero (1998) facendo riferimento alla
definizione di Minsky di unità coperte, speculative e ultraspeculative. Una
unità si trova in posizione finanziaria "coperta" quando le sue
entrate nette future (Aqi) sono in ogni periodo di tempo superiori alle sue
uscite nette collegate al finanziamento (Pci) non necessitando dunque di
ulteriore indebitamento per far fronte agli impegni di pagamento contratti.
Viene viceversa definita speculativa quell’unità per cui non in tutti i
periodi di tempo vige la sicurezza finanziaria, avendo una parte di impegni
collocati in periodi - tipicamente le fasi iniziali di un progetto di
investimento - in cui i flussi di entrata non riescono a coprire le spese; per
onorare i debiti, queste imprese devono o vendere attività in proprio possesso
o accollarsi nuovi debiti. Una unità ultraspeculativa, infine, è tale se
programma le proprie attività in modo che non solo il capitale, ma addirittura
le spese per i soli interessi passivi sono per alcuni periodi superiori agli
incassi previsti.
Quando il ciclo di accumulazione entra nella sua fase
declinante il comportamento degli agenti che dirigono il settore del credito
tenderà ancor più del solito a concedere finanziamenti in base alla
ricchezza patrimoniale delle imprese, piuttosto che in relazione ai progetti di
in-vestimento i quali, a loro volta, per poter essere in grado di assicurare
oltre che il profitto il rimborso del debito, saranno contraddistinti da un
maggior coefficiente rischio/rendimento. Come risultato, si rafforza una
generale situazione di instabilità finanziaria che può finire per
compromettere la struttura degli agenti più deboli, tra cui le imprese piccole
e giovani, alcune delle quali si troveranno costrette a rivedere, rimandare o
annullare i progettati investimenti, mentre per altre si porrà il problema
della stessa sopravvivenza in relazione alla mutata struttura di mercato. Le
imprese minori che riescono a sopravvivere si vedranno costrette ad utilizzare
la propria ricchezza o per ripagare i debiti precedentemente con-tratti
rifinanziando per questa via il settore del credito, o ad alienare in tutto o in
parte il proprio patrimonio a favore di qualche impresa maggiore a prezzi da
"fallimento", il che porterà non solo ad una maggiore
centralizzazione del mercato, ma a quella svalorizzazione di una parte del
capitale esistente che costituisce il passaggio decisivo per controbilanciare, o
almeno ritardare gli effetti, di quella crisi dell’accumulazione che è da
intendersi in ultima analisi come crisi da sovrapproduzione di capitale.
2. Sussidi. al lavoro, non al capitale
Alcune evidenze empiriche relative all’economia italiana sembrano indicare
che:
- Per quanto riguarda il ritmo di crescita degli investimenti, esso è stato
ed è in calo, essendo passato il rapporto tra investimenti lordi e PIL dal
23 al 18%, i tassi d’interesse nominali a lungo e a breve termine,
come pure il tasso d’inflazione, sono diminuiti,
- gli investimenti diretti all’estero sono cresciuti,
- il risparmio delle famiglie in relazione al reddito disponibile è
diminuito,
- il corso dei valori azionari è cresciuto,
- il disavanzo di bilancio si è ridotto fino a generare un avanzo primario,
-
l’indebitamento netto delle imprese si è prima
leggermente ridotto per poi ricrescere, con marcate differenze in
relazione alla dimensione,
-
l’indebitamento netto delle famiglie è cresciuto,
-
si è verificato uno spostamento progressivo della
distribuzione funzionale verso i redditi non da lavoro accompagnato da un
aumento della povertà,
- il tasso di disoccupazione si è mantenuto elevatissimo,
- pur aumentando la massa dei profitti, il margine di profitto è in calo.
In presenza di una così evidente "riluttanza" del
capi-tale a investire all’interno, preferendo di volta in volta optare per le
scelte più congeniali ai suoi spiriti animali, dal-la delocalizzazione agli
investimenti speculativi alle spese in beni di consumo di lusso, e in presenza
di una conseguente diminuzione della crescita, con costi pesantissimi sui
bilanci dei lavoratori occupati e disoccupati tra i qua-li aumenta in maniera
preoccupante l’area della povertà, è auspicabile che sia le azioni di politica
fiscale che quelle di politica monetaria di governi e istituzioni che vogliano
dirsi progressisti si rivolgano al sostegno del lavoro. e non a quello del
capitale.