La lotta dura alla Fiat di Melfi fa testo. Un compagno,
incrociandomi alla manifestazione del 4 maggio a Roma, mi ha detto: «Sei qui, a
scuola?». Ottima idea. Ed eccomi qui, seduto su un banco, a cercare di
apprendere gli insegnamenti di lotta dura della “Scuola” di Melfi. Eccomi
qui, a trarre indicazioni che ci aiutino a decifrare le dinamiche di un impatto
di classe così netto fra i bisogni operai e la struttura di comando padronale.
Netto al punto di provocare il blocco della produzione nello stabilimento
«Sata». E ciò, si badi, in un contesto generale, sociale e politico, di segno
opposto.
Non viviamo in anni “caldi”, come sappiamo. Tutt’altro.
La soggettività operaia è come ingabbiata in una fitta rete di mediazioni
politiche, sindacali e sociali, che ne sviliscono le potenzialità
antagonistiche. Non è il caso qui di addentrarsi nei sofisticati orpelli
ideologici che vengono attivati per schiacciare la condizione operaia sulle
compatibilità imposte dal capitale. Ci ho provato in altri interventi su
«Proteo». Ciò che interessa in questa sede è cercare, in prima istanza, di
interpretare, sul piano teorico, i processi materiali e immateriali che si sono
messi in atto nel corso dello scontro.
1. La rottura esistenziale
Partiamo da un dato incontrovertibile. A Melfi, attraverso
processi che dobbiamo tentare di ripercorrere, la base operaia ha acquistato una
compattezza ed una forza tali da essere in grado di attaccare ed intaccare il
comando padronale. Beninteso, si tratta di una piccola maglia incrinata. Dopo
anni di entusiasmi caduti nella polvere, bisogna resistere alle facili
illusioni. Si impone il pessimismo della ragione. E tuttavia occorre registrare
il segnale che Melfi ci manda. Si tratta di attrezzarsi a dovere per cercare di
metterlo a frutto. Per rendere la situazione con una immagine, è come se in una
strada deserta, pavimentata in cemento, improvvisamente venga fuori uno
zampillo. È segno che sotto c’è una vena d’acqua. Chi ha sete di lotta non
deve limitarsi a bagnarsi lì per lì le labbra. Deve scavare in profondità e
mettere in opera una conduttura politica che porti in superficie l’acqua a
gettito continuo.
Per mettere a frutto gli insegnamenti di Melfi bisogna
partire da una domanda: come è potuto accadere che un filo d’acqua abbia
perforato la lastra di cemento? Fuori metafora, come è stato possibile che, in
un contesto di dominio padronale a trecentosessanta gradi, una base operaia,
schiacciata sui ritmi della produzione, metta fuori, di punto in bianco, una
soggettività collettiva capace di tenere testa al colosso per antonomasia dell’industria
italiana? Sembra quasi di rivivere la leggenda di Davide e Golia.
Per tentare di dare risposta a una tale domanda, procediamo
per gradi. Intanto, è da escludere un primo elemento di spiegazione, a cui
facilmente si fa ricorso. In un quadro di generale stagnazione dell’antagonismo
di classe, la rottura anche di una piccola maglia della rete di dominio del
capitale sulla società non può determinarsi sul piano ideologico. E non è
solo una questione di dimensione del caso Melfi. Manca la forza di una identità
di classe che metta in campo un soggetto politico in grado di opporre ai piani
del capitale la presenza, sulla scena sociale, delle forze di lavoro. Dal caso
Melfi al caso Italia non c’è dunque soltanto un passaggio di dimensione. Si
tratta di un vero e proprio salto di qualità. Per ragionare a contrario,
immaginiamo quali risorse politiche verrebbero chiamate in causa se la lotta
esplosa in situazioni particolari e circoscritte si riproducesse a catena, sino
a tradursi di fatto in scontro diretto fra la classe operaia e la classe
padronale nazionale.
Restiamo dunque con i piedi per terra e atteniamoci al caso
che stiamo cercando di analizzare e interpretare, non a fini di conoscenza
accademica, ma per evitare di operare alla cieca in sede di intervento politico
e sociale. Il dato di partenza che ha prodotto l’esplosione di Melfi non
attiene alla sfera della coscienza politica. Nel corso della manifestazione di
Roma mi sono affiancato via via a diversi operai, che spontaneamente si sono
messi a parlare della loro situazione. Ebbene, a dare ragione della durezza
della loro lotta non facevano mai ricorso a motivazioni politiche e tanto meno
ideologiche. Dicevano semplicemente: «Non ce la facciamo ad arrivare alla fine
del mese». E qualcuno aggiungeva: «Chi ci fa la predica sulla situazione
economica provi lui a campare con il nostro salario». È una annotazione
significativa. All’astrazione economica gli operai oppongono la concretezza
esistenziale. Questa contrapposizione fra astrazione e concretezza è di antica
data. Risuona persino in una vecchia canzone di protesta: «Se otto ore vi
sembran poche, provate voi a lavorar».
Quando il discorso degli operai tocca la questione dei turni
di lavoro, vengono fuori storie allucinanti. E non si tratta soltanto dell’intollerabile
sovraccarico di lavoro notturno (la cosiddetta “doppia battuta”), che è una
delle ragioni della protesta. La Fiat di Melfi raccoglie mano d’opera in un
ampio bacino, che tocca per esempio Caserta e Benevento. E poiché gli operai di
fuori, con i loro salari di fame, non possono permettersi il lusso di mettere su
casa a Melfi, sono costretti a fare i pendolari. Così, con gli orari dei turni
che si ritrovano, passano spesso parte della notte su un pullman. Un panino e
via, ad affrontare i ritmi massacranti della fabbrica, dove la produzione viene
spinta al limite delle umane possibilità.
La miccia che ha appiccato il fuoco è dunque strettamente esistenziale.
E la piattaforma della vertenza non viene elaborata a tavolino, nell’astrazione
di una strategia sindacale, ma è già impressa, a caratteri di fuoco, nella
vita quotidiana dei lavoratori e delle lavoratrici, uomini e donne in carne e
ossa.
C’è in questo passaggio una prima indicazione di carattere
teorico. Perché si inneschi un processo di rottura radicale, bisogna che la
condizione esistenziale, progressivamente sempre più degradata, superi la
soglia della “sopportabilità”. Bisogna che in quella condizione sia
diventato impossibile continuare a vivere. La base materiale è necessaria, ma
non sufficiente. Perché il dato materiale non è in natura. È un dato
sociale, che passa attraverso la percezione personale e collettiva, sulla
quale opera l’apparato ideologico della classe dominante. Se a Melfi la
condizione materiale è diventata esplosiva, è perché la sua “insopportabilità”
ha perforato la percezione ideologica interiorizzata nella coscienza, per
esprimersi nei termini esistenziali del vissuto quotidiano degli operai. Per
questa via, la lotta si è tradotta in rottura esistenziale. Ed è in
questo suo connotato la radice della sua irriducibilità.
2. Giustizia sociale e dignità personale
Una volta attivato da una urgenza materiale della vita
quotidiana, il processo va avanti e investe le sfere immateriali, determinando
quell’intreccio fra materialità e immaterialità che ho più volte
segnalato in altre sedi. Nei ragionamenti degli operai di Melfi la sequenza è
chiara: «Perché dobbiamo avere meno salario degli altri operai della Fiat? Non
vogliamo essere trattati come operai di serie B». L’equiparazione del
salario come richiesta di giustizia sociale, in una piattaforma che ha al
centro gli operai come persone, con il loro carico di urgenze materiali, ma
anche con i loro scatti di orgoglio e di dignità.
La dignità personale è un motivo ricorrente nei discorsi
appassionati di queste esemplari figure del sud. Un motivo che investe un’altra
ragione della lotta: i provvedimenti disciplinari. Alla Fiat di Melfi vige una versione
terroristica del comando padronale. Un comando che ha prodotto negli anni
una pioggia di provvedimenti disciplinari. Veri e propri avvertimenti agli
operai: se osate alzare la testa, verrete schiacciati. In un tale clima, la
ribellione operaia è una forte dimostrazione di coraggio, che non arretra
nemmeno di fronte alle manganellate repressive della polizia, perché attinge la
sua forza nella dignità operaia ferita. Una tale impennata affonda le sue
radici nella tradizione della soggettività operaia. Una soggettività che può
attraversare fasi di appannamento, ma si riscatta quando la misura del comando
padronale oltrepassa il segno dell’arroganza. A quel punto, la protesta di
Melfi non mira soltanto al ritiro dei provvedimenti. Va ben oltre. Vuole reintegrare
la dignità della figura operaia, che il padrone ha inteso per anni
sbeffeggiare e umiliare. Vuole reintegrare la persona nella figura operaia.
3. Comunità operaia e autonomia
Una lotta così dura, nella quale gli operai investono la
loro esistenza e quella delle loro famiglie, incide fortemente sullo stato della
soggettività operaia. Attraverso un processo di condivisione degli obiettivi e
dei relativi rischi, la base operaia, frammentata nel rapporto individuale con
la direzione dell’azienda, si trasforma in comunità, in soggetto
collettivo. A questo punto, la comunità operaia si scrolla di dosso tutte le
impalcature delle mediazioni e mette direttamente in campo le proprie richieste,
rivendicando di fatto una gestione autonoma della lotta. Non si tratta,
in origine, di una rivendicazione “politica”. Si tratta semplicemente di una
misura che tende a fare la guardia sull’andamento della vertenza. Ma il
progressivo innalzarsi del livello dello scontro e la parallela compattazione
della base trasformano la precauzione in affermazione del soggetto collettivo
come espressione dell’autonomia operaia.
Tutte queste trasformazioni riportano il processo alla sua
origine, in un movimento circolare fra versante materiale e versante immateriale
della lotta. Quando è in gioco non questo o quel punto, anche importante, di
una piattaforma sindacale, ma direttamente l’esistenza delle persone,
chi può decidere della propria vita se non le stesse persone? Quando, come alla
Fiat di Melfi, alla base della lotta ci sono condizioni materiali con valenza
esistenziale, quando sono in gioco l’integrità e la dignità di uomini e
donne in comunità, le esperienze di autonomia operaia non possono essere
facilmente azzerate. E ciò a prescindere dall’andamento e dalla conclusione
della vertenza sindacale. La vertenza passa. La soggettività operaia prodotta
dalla lotta resta.