I lavoratori di fronte ai quattro miti su sviluppo ed integrazione regionale in America Latina
Alfredo Falero
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Le prospettive, le alternative per le società che compongono
l’America Latina non si possono pensare in forma separata una dall’altra.
Tale premessa non deriva dal discorso puramente del “dover essere” basato
sul passato storico o su mere invocazioni politiche all’unità: si tratta di
un esame dell’evidenza empirica. Le trasformazioni globali e regionali in
corso modificano la capacità delle società di operare sulle proprie condizioni
ed a sua volta questo deve riflettersi sulla maniera di pensare le congiunture e
le alternative socio-storiche.
Quanto sopra, a sua volta, abbisogna di sbloccare quei
reconditi angoli della conoscenza che rimangono sepolti sotto modi di pensiero
che si limitano all’analisi del “possibile”. La ricostruzione di una
prospettiva critica delle scienze sociali e conseguentemente il superamento di
una costruzione della conoscenza eccessivamente pragmatica e di corto periodo
che mutila la realtà costituiscono aspetti imprescindibili in questo contesto.
Tenendo conto di queste veloci considerazioni di metodo, il
presente saggio intende ristabilire la tematica della integrazione
latinoamericana considerando che tale discussione diventa inevitabile quando si
pensi a società alternative su un piano regionale però anche globale. Una
manifestazione centrale di questo impianto è la discussione sulle possibilità
di sviluppo e che cosa si intenda con questa espressione. Questa è senza dubbio
una discussione ciclicamente ricorrente per le scienze sociali nella regione.
Tuttavia è chiaro che il contesto generale di questo
dibattito cambiò fortemente in funzione delle condizioni sociali nelle quali si
svolgeva. Così negli anni 50 e 60 non solo si dava un altro scenario - per
esempio un’America Latina ancora fortemente rurale ed una ritardata necessità
di industrializzare - ma si competeva con altri orizzonti possibili: il
socialismo. Ovviamente in quel momento i miti sullo sviluppo meritarono critiche
fondamentali (Frank, 1970, Stavenhaguen, 1970).
Per i tempi presenti, lo scenario nel quale il tema riappare
nella regione, implica la considerazione di almeno tre premesse generali
comparativamente nuove:
a. L’inesistenza di un orizzonte di società socialista
che ricollochi il concetto di sviluppo come idea egemonica entro il
capitalismo, cosa che implica il prendere riferimenti falsi ma attraenti per
un ampio spettro politico come possibilità reali. Nel caso dell’Uruguay,
per esempio, spesso si indulge ad invocare il “modello” di sviluppo di
paesi come la Nuova Zelanda, l’Irlanda o la Finlandia come se fosse
possibile ripetere le condizioni di altre circostanze socio-storiche.
b. Una rivoluzione informatica sta ristrutturando il
capitalismo ma a sua volta presuppone un approfondimento della divisione tra
paesi centrali e periferici. Esiste un ricco insieme di analisi che
evidenziano il nuovo ruolo della informazione - come la conosciuta formula di
Castells e quello che significa come nuovo modo di sviluppo (1998) - sebbene
allo stesso tempo dissolvono quella polarità che è intrinseca al capitalismo
che creò la prospettiva di sistema storico come spiegai in un precedente
lavoro (Falero, 2003a).
c. Una fase di crescente interconnessione e dominio
geografico del capitale che suole identificarsi come globalizzazione e che
implica inoltre la formazione di blocchi regionali. Come vedremo, una
costruzione regionale di vari stati-nazione è sempre attraversata da diverse
linee di conflitto e va sempre oltre i confini del piano economico entro il
quale la si vuole contenere.
Quanto alla situazione presente dell’America Latina in
particolare, si devono segnalare ugualmente altre tre premesse che ne
identificano le particolarità:
a. Una congiuntura nella quale si revisionano gli sconci
sociali del terremoto neoliberista (un termine che in realtà è
semplificante) e cominciano a delinearsi altri orizzonti di possibilità che
prima non erano possibili. Questo vale anche per società come l’Uruguay che
avevano pensato se stesse come iper-integrate (avendo sovrastimato le proprie
possibilità reali di mobilità sociale verso l’alto) e di profilo più
europeo che latinoamericano: la distruzione del tessuto sociale ormai non
permette di continuare con tali miti.
b. Una serie di manifestazioni sociali importanti che
sfidano il modello di accumulazione basato sull’esclusione senza tuttavia
mettere in pericolo il potere del capitale come relazione sociale. Menzioniamo
tra le altre, senza pretendere di essere esaurienti nella lista: la esplosione
sociale in Argentina, famosa nell’anno 2001 ma che aveva cominciato da
prima, la ribellione dell’Ottobre 2003 in Bolivia ed i suoi nuovi orizzonti
di possibilità o più recentemente il significato di tutto il processo
collettivo che ha condotto ad un plebiscito ed ai suoi esplosivi risultati
contro la privatizzazione parziale della impresa statale dei combustibili in
Uruguay [1].
c. Una situazione geopolitica particolare dell’America
Latina nella sua relazione con gli Stati Uniti e la sua indebolita capacità
di influenza regionale sotto un progetto egemonico come l’ALCA (che come
tutte le egemonie, ricordando Gramsci, implica sempre una mescolanza di
consenso e coercizione, ma non coercizione solamente) e con un presente asse
Buenos Aires-Brasilia-Caracas che non ha precedenti.
In questa situazione, attori sociali di diversa natura -
partiti politici specialmente di tipo progressista, movimenti sociali compreso
il movimento sindacale, università, organismi internazionali come la CEPAL
(Commissione economica per l’America Latina, anche detta ECLA), etc. - tornano
ad invocare la passata formula dell’ottenimento dello sviluppo politico e
sociale.
Integrazione regionale e sviluppo passano ad essere concetti
chiave, che però a volte, a seconda di chi li usa, si ritrovano ad avere
diversi significati. Su questa base compaiono vari miti che hanno cominciato a
diffondersi nella regione, quattro dei quali saranno qui considerati. Alcuni
sono vecchi, rimasugli di discussioni che ai loro tempi furono falsamente
risolte in funzione di “considerazioni tecniche” di stile economico che sono
finite a seppellire altri punti di vista, ed altri sono miti prodotti da
elaborazioni recenti.
Mito 1: un paese periferico può svilupparsi con i mezzi economici
adeguati
È chiaro che lo sviluppo non si identifica con la semplice
crescita economica ed ancor meno con la semplice “riattivazione” economica:
serve sempre una formula parecchio più ambiziosa per rendere conto di obiettivi
di crescita sostenuta ma con qualità della vita. Sebbene questi obiettivi
sembrino sempre diffusi, finiscono per stabilirsi ciclicamente come guida o
cinosura per usare l’espressione di Wallerstein (1998) delle società
latinoamericane.
In secondo luogo sappiamo che in America Latina l’idea
funzionò come aspetto polare di un paio terminologico che lasciava una idea non
equivoca del desiderabile e della ubicazione del punto di partenza: paesi
sviluppati-paesi sottosviluppati, o la versione più edulcorata di quest’ultimo
termine: “in via di sviluppo”. Le questioni più importanti possono
riassumersi in due rubriche: le possibilità reali di una società di
svilupparsi ed il carattere al quale si ambisce per la società di arrivo.
Nella prima rubrica generale di questioni, consideriamo che
è già stato dimostrato che non si sviluppa ‘una’ società ma un
gruppo di potere che oltre tutto va oltre una società in particolare
(Wallerstein, 1998; Quijano, 2000). Questa è una idea centrale che ricorre nel
presente lavoro per cui torneremo su di essa varie volte. Nella seconda rubrica
generale di questioni si include che l’obiettivo era alla fine cercare di
somigliare ai paesi centrali con tutto il negativo che questo potrebbe
significare in termini di qualità della vita.
Questo aspetto, al quale si aggiungevano le difficoltà di
stabilire un modello più agglutinante di posizioni che includesse gruppi e
movimenti di tipo ecologista, arrivò ad avere, per darsi un maggiore risalto,
il carattere di “sostenibile”, che tendeva a considerare aspetti relativi
alle questioni ambientali [2].
Si arrivò anche ad aggiungere in altre versioni la
qualificazione di “umano” con la quale si cercava di stabilire un insieme
ampio di necessità della vita dell’uomo in società. Tutto questo, tuttavia,
non migliorò molto la precisione, sebbene dall’altro lato permise di
considerare variabili che prima non apparivano.
In terzo luogo, tutto quanto detto sino ad ora porta a
riconoscere che questa è una delle tematiche dove l’oscuramento ideologico
sottostante è più profondo. L’andamento del dibattito negli ultimi anni -
che confinò l’analisi alla identificazione di mezzi “tecnici” più
adeguati all’interno del campo economico - ha portato all’idea che vi è
possibilità di identificare e stabilire un insieme di mezzi neutri appropriati
per potersi incamminare sul sentiero dello sviluppo.
In questo modo, la questione smette di dipendere da processi
sociali e passa a situarsi nella graduazione dell’intensità dello strumento
tecnico, all’estremo nella scelta di uno strumento più adeguato, che lo si
chiami volume della spesa pubblica o abbassamento o innalzamento delle tariffe.
Questo atteggiamento pratico tende a schivare il contesto e gli attori capaci di
portare avanti una proposta di sviluppo.
Insomma, si ignora che lo sviluppo fu un processo sostenuto
dalle società del capitalismo centrale nell’ambito della accumulazione
globale, che ha un carattere irripetibile e che implica inoltre forme differenti
di colonizzazione delle periferie e diverse forme di estrazione del surplus. Per
esempio oggi si vede nell’impegno delle imprese transnazionali per
privatizzare la biodiversità e attraverso l’ottenimento di patenti
successivamente commercializzarla (Ritkin, 1999).
Da tutto questo si evince che parlare superficialmente di
possibilità di sviluppo per i paesi periferici come maturazione di condizioni
è una vecchia favola. Nondimeno, ciò non nega che un progetto alternativo è
ammissibile se si ottiene almeno una certa autonomia dalla logica dell’accumulazione
globale. Samir Amin in vari lavori (per esempio, 1997) ha segnalato che il
concetto di sviluppo può essere critico del capitalismo se lo si pensa come “autocentrato”.
Tuttavia, aggiungiamo noi, la prospettiva diventa valida solo a condizione che
se ne identifichino e studino chiaramente le fondamenta sociali - in termini
sociologici, gli attori sociali - che permettano una certa disarticolazione
dalla logica centrale di accumulazione del capitale.
Mito 2: i paesi dell’America Latina possono svilupparsi se sfruttano il
proprio “capitale sociale”
Oggi potrebbe esistere, più che qualche anno fa, un più
ampio consenso sul fatto che parlare di sviluppo significa ampliare la
discussione rispetto alle mere variabili economiche. Questo spazio cionondimeno
è stato progressivamente occupato da una straordinaria risorsa tecnocratica
chiamata “capitale sociale” che permette a molti sociologi e politologi di
“dialogare” con gli economisti [3].
Come si sa, per questa tematica il concetto appare
notoriamente influenzato dalla tradizione sociologica americana per mezzo di
Coleman e Putnam (1993) e non da quella francese, specialmente a partire da
Bourdieu. Nel primo senso si tratta di conciliare l’azione razionale con le
relazioni sociali che la possono potenziare o ridurre. Si concede particolare
importanza a valori quali la fiducia ed a reti sociali come il volontariato. Nel
secondo senso - che a differenza della versione precedente si generò in chiave
di critica - il capitale sociale appare come una dimensione ulteriore della
disuguaglianza sociale insieme al capitale economico e culturale.
In questo modo Putnam dimostra che il successo economico
dipende dal capitale sociale accumulato da associazioni che privilegiano reti
orizzontali. Per quelli che seguono questo punto di vista, tutti i processi
partecipativi passano a poter essere inclusi nella categoria del capitale
sociale, da una rete di vicini di casa alle idee partecipative di Porto Alegre.
Trasferito al nostro tema, il mito che parte dalla prospettiva del capitale
sociale consiste nello stabilire una connessione diretta: più capitale sociale
equivale a più sviluppo.
Questo apparirà dipendere fondamentalmente dall’esistenza
e dalla rigenerazione di tali lacci sociali, facendo finire in secondo piano
altre dimensioni centrali della discussione sui paesi periferici: capacità
dello stato e suo potenziamento, con quali attori e classi si ha a che fare,
obiettivi sociali del progetto, forze produttive che si possono potenzialmente
far decollare e come si gestiscono queste ultime, etc. Insomma, questa visione
suppone una chiusura cognitiva verso un numero di determinati contenuti
sociologici che danno conto della realtà che non è minore, nel senso che l’agenda
di temi da investigare, generata dalle risorse, è un’altra.
Come si osserva, quanto sopra non vuol dire che i nuovi punti
di vista non attribuiscano a fattori sociologici o culturali una grande
importanza nella spiegazione dello sviluppo. Al contrario, il punto è che
considerando questi “fattori” e la forma di come li si articola nella
costruzione della conoscenza, questa attribuzione può essere sia mistificante
sia segnalare invece che lo sviluppo è un problema esclusivamente di politica
economica.
Di certo per l’America Latina la questione della
partecipazione, sia essa istituzionale o per mezzo dei movimenti sociali o della
ricostruzione del tessuto sociale (reti di vicini di casa, orti comunitari,
etc.) è centrale per considerare le prospettive di sviluppo e di cambio
sociale. Il problema, dobbiamo insistere, è la prospettiva che si prende
intorno ad essa e le logiche che ne rendono conto. Tanto più, come discutemmo
in un altro lavoro (Falero, 2003b), può dirsi schematicamente che esistono due
direzioni diverse che coesistono nel contesto della crisi e che suppongono
orizzonti storici ben differenziati. Naturalmente quanto segue è
necessariamente una semplificazione, che però risulta utile per vedere la
tensione che vi è sotto.
Una direzione è quella della costruzione di una cultura
alternativa, di crepe nella soggettività dominante, di generazione di spazi
sociali in grado di aprirsi alla creatività sociale e magari di essere la base
di altre aspettative. Tuttavia, molte azioni si situano e si incamminano più
nella linea del tradizionale ed ora rinnovato volontariato che riempie gli spazi
che lo stato sta lasciando. Questa è la direzione promossa dagli organismi
internazionali ed i mezzi di comunicazione di massa quando si allude a questa
questione. In questo secondo senso - sebbene configurate disinteressatamente -
le azioni non costituiscono un’alternativa al mercato, che continua a
strutturare le relazioni sociali. Così semplicemente queste assumono il ruolo
di funzioni di compensazione, totale o parziale, di quello che faceva lo stato.
Nella prima direzione, le reti basate nella ri-significazione
delle necessità e la costruzione di diritti sociali per mezzo dell’esperienza
(Thompson, 2001) possono arrivare a costituire le basi di una società più
partecipativa e democratica. Nella seconda direzione, si può arrivare a
supporre una forma di controllo sociale rinnovata. Entrambe le prospettive -
aperture di spazi di trasformazione sociale e semplice volontariato - implicano
orizzonti di sviluppo opposti visto che si tratta di costruire soggettività
sociali ben distinte. Entrambe, ciononostante, sono integrate sotto la stessa
etichetta di capitale sociale entro la nuova “agenda sociale” degli
organismi internazionali che si pongono ovviamente nel secondo formato.
Mito 3: la costruzione di una zona di libero commercio genera una sinergia
che rende lo sviluppo possibile
Visto che lo schema di potere attuale che viene chiamato
globalizzazione stabilisce limitazioni ancora maggiori all’autonomia dello
stato-nazione che sta soffrendo trasformazioni irreversibili nella sua capacità
di regolare, alcune analisi trasportano ad uno spazio geografico maggiore, un
blocco integrato di paesi, la possibilità di ottenere sviluppo. Tuttavia per l’America
Latina questo può essere sia realtà sia finzione, perché dalla nostra
prospettiva la costruzione di blocchi od organizzazioni internazionali con
caratteri sopranazionali sta fin dalla sua origine in una permanente tensione
tra la sua funzionalità ai centri di potere ed il contenimento di quello che
viene designato genericamente come “globalizzazione negativa”, e che si
associa all’impatto avverso delle forze del mercato globale.
[1] La consultazione popolare promossa dalle organizzazioni sociali, ed
in particolare il sindacato dei lavoratori dell’impresa statale di
combustibili ANCAP, ed il partito di centro-sinistra Encuentro Progresista -
Frente Amplio ebbe luogo il 7 Dicembre ed ottenne risultati di più del 60%
contro la legge promossa dall’establishment.
[2] Sviluppo sostenibile è un concetto che si
popolarizzò a partire dal così detto “Rapporto Bruntland” del 1987 della
Commissione ONU per l’Ambiente e lo Sviluppo.La sua definizione proponeva un
consenso tanto ampio quanto diffuso.
[3] Per una visione tecnocratica del capitale
sociale si può consultare le pagine web della CEPAL, BID, o della Banca
Mondiale, senza con questo voler dire che i tre organismi abbiano la stessa
posizione sul tema.