Lo Stato contro il servizio pubblico? La faccia nascosta della crescita endogena
Rémy Herrera
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Generalità
Il successo di quella che la corrente
neoclassica chiama «la nuova teoria» della crescita o «crescita endogena» è
stato straordinario nell’ultimo decennio, al punto che questa presentazione
matematica della determinazione del tasso di crescita ha oggigiorno conquistato
una posizione dominante - quasi esclusiva - nelle analisi di lungo periodo. Dopo
l’apparizione dei modelli fondatori [1], migliaia
di varianti più o meno sofisticate sono state pubblicate nel mondo, negli
ambiti più diversi: innovazione, educazione, infrastruttura, finanza, commercio
internazionale, sviluppo... Per quanto ci consta, con sorpresa, le uniche
critiche consistenti formulate contro questa teoria - che ha resistito alla moda
alla quale soccombettero i cicli reali, i suoi parenti prossimi che trattavano
di breve termine - sono venute da autori essi stessi neoclassici o
ultra-liberisti d’ispirazione hayekiana. Il successo della crescita endogena
non ha peraltro fino ad ora incontrato nessuna resistenza da parte degli
eterodossi [2].
Queste nuove modellizzazioni sono in effetti generalmente
presentati come: 1. una macro dinamizzazione dell’equilibrio generale
walrasiano, dai fondamenti microeconomici certi; 2. rottura con Solow (1956),
incapace di accordarsi con i fatti stilizzati kaldoriani e di spiegare la
crescita; 3. identificazione dei motori attuali del progresso tecnico e della
crescita grazie alle esternalità e ai rendimenti crescenti; 4. rivalutazione
dell’intervento dello Stato, soprattutto in campo sociale; 5. espressione di
un riavvicinamento neoclassico delle problematiche eterodosse. Si dà il caso
che queste posizioni, sulle quali si è stabilito un consenso, siano sbagliate.
L’oggetto di questo articolo, utilmente polemico, è di contribuire alla
critica radicale di questi modelli neo-classici, tentando di far luce sul loro
«lato nascosto», e specialmente sulle ambiguità della loro ridefinizione del
ruolo dello Stato. Per fare ciò analizzeremo: i) cos’è (e cosa non è) la
crescita endogena; ii) i problemi che minano questa teoria, oltre alla funzione
ideologica che gioca all’epoca della globalizzazione neo-liberista.
1. Un po’ più della stessa cosa: che cos’è la crescita endogena?
Requisiti del discorso: pensare l’impensabile
Dal punto di vista neoclassico, procedere alla endogenizzazione
del progresso tecnico si traduce nel fare risalire quest’ultimo a dei
comportamenti decisionali (intertemporali) degli agenti privati, motivati
dal profitto e rispondenti alle sollecitazioni del mercato. Per essere rigorosi
bisognerebbe piuttosto dire: dell’agente privato, dato che i modelli
del progresso tecnico endogeno non formalizzano altro che l’ economia di
Robinson Crusoe. Si possono analizzare tutti, in un modo o in un altro, come
delle costruzioni basate su un agente unico, allo stesso tempo produttore
e consumatore, e si risolvono in una scelta di variabili di controllo e di
allocazione delle risorse tra produzione finale e riproduzione di un capitale
motore della crescita. Si dovrebbe persino evitare di parlare di mercato,
dato che l’aggregazione in questo caso non è altro che la duplicazione di un
unico agente, detto «rappresentativo», che rende il riferimento a uno scambio
e a un prezzo decisamente assurdo. In assenza di risposta, questo
problema è piuttosto preoccupante nell’ottica neoclassica della
determinazione del prezzo e della remunerazione del capitale. A rigor di logica,
il postulato dell’unicità dell’agente rende impossibile qualunque uscita
dal solipsismo ed esige da parte del lettore, oltre a un gusto per le
favole, una grande duttilità di spirito per ribaltare il collettivo sull’individuale.
Per uno strano effetto, malgrado la vittoria storica dei
neoclassici nella loro impresa di destituzione dei metodi olistici a vantaggio
di una visione soggettivistica e atomistica, che riduce il comportamento umano a
una psicologia individualista che esclude le istituzioni costruite socialmente,
i loro giovani macro-economisti si sono visti costretti a muoversi fuori dall’individualismo
metodologico, per ripiegare sull’olismo più sterile. Quello che è grave, è
che il postulato dell’agente unico fa del ricollegarsi della nuova teoria a
ciò che ha sempre costituito la forza del mainstream - e il suo diritto
alla rivendicazione di scientificità -, cioè al quadro assiomatico dell’equilibrio
generale, un non-senso logico. Impegnarsi nello studio della crescita endogena
significa di fatto rinunciare alle ambizioni walrasiane di risoluzione dei
problemi cruciali di coordinamento delle decisioni di una moltitudine di agenti,
ma anche a qualunque definizione concettuale del mercato dei prezzi. Questa
introduzione, provocatoria ma inevitabile perché tocca il cuore di questi nuovi
modelli, potrebbe senz’altro essere sufficiente a non considerarli. Ma in
questo caso, il mistero del silenzio degli eterodossi a questo proposito
resterebbe intatto. Dobbiamo dunque, malgrado tutto, proseguire nel ragionamento
ed entrare più in dettaglio nelle loro formalizzazioni per proporre una critica
da un punto di vista eterodosso radicale.
Quello che questa teoria non è: rottura con Solow e ritorno a Harrod?
La soluzione neoclassica della sovradeterminazione del
modello di Harrod è passata attraverso l’endogenizzazione regolatrice - non
del tasso naturale (visione malthusiana) né della propensione al risparmio
(opzione post-keynesiana) ma - del coefficiente di capitale, grazie alla
flessibilità del rapporto capitale-output e a una sostituibilità
fattoriale. Curiosamente, la crescita endogena ha operato un ritorno a una
relazione rigida tra capitale e output: al centro di questa teoria si
ritrova una linearità esplicita dove Y = AK, con la produttività
apparente del capitale, A, parametrica. È in questa similitudine
con la scrittura harrodiana che risiede una delle ragioni per le quali certi
commentatori hanno creduto opportuno avvicinare le rappresentazioni endogene
alla dinamica keynesiana, aumentando così malauguratamente la loro popolarità,
oltre alla confusione tra gli eterodossi. Questo significa dimenticare l’essenziale:
le politiche pubbliche che questi modelli veicolano, considerano l’investimento
un flusso incrementale di forme del capitale, fattori d’offerta - non
di domanda. La teoria della crescita endogena non si riallaccia in nessun
modo alla modellizzazione keynesiana d’altri tempi, né ne suggerisce alcuna
volontà di sintesi. Per la sua meccanica, si tratta senza ambiguità di una
formalizzazione neoclassica, che si può ritrovare nella continuità con
Solow, piuttosto che in rottura con lui.
Il conseguimento di una crescita endogena esige formalmente l’abbandono
di una sola delle ipotesi solowiane, nella fattispecie: la produttività
marginale del capitale si annulla all’infinito dove la funzione di produzione
ha rendimenti di scala costanti. Il ricorso a una forma di funzione lineare con
un unico input, riproducibile e con una produttività che non si esaurisce con
la sua produzione, è sufficiente a generare una crescita che si autosostiene
sul lungo periodo. Il punto nodale si localizza in una elasticità dell’output
in rapporto allo stock dell’insieme dei fattori di produzione prodotti almeno
unitario. Per convincersene abbiamo dimostrato altrove (Herrera, 1998) che
una crescita endogena si manifesta a partire da una funzione di produzione a
rendimenti costanti per tutti i fattori (accumulabili e non) per
convergenza asintotica verso una forma a elasticità unitaria del prodotto a uno
stock composito di capitale. L’originalità del modello è tripla: 1)
conservando una convessità nella tecnologia, mette in evidenza una
crescita endogena in un quadro solowiano aumentato, da cui dunque la
non-discontinuità fra quest’ultimo e la nuova teoria; 2) trova una
giustificazione all’intervento statale ricorrendo ad un’ipotesi, neoclassica
per eccellenza, di flessibilità su un mercato del lavoro segmentato (sostituibilità
tra lavoro qualificato e non qualificato); 3) la crescita è modellizzata
grazie ad un incremento del capitale umano stimolato dall’educazione
pubblica.
Meccanismi di endogenizzazione: apporto teorico o astuzia matematica?
Crescite solowiane ed endogene manifestano dei meccanismi
molto simili. Ciononostante, spesso, le endogenizzazioni implicano in
letteratura la rimozione dell’ipotesi di convessità delle tecniche
(funzione di produzione concava), il che si traduce, in generale, nell’introduzione
di esternalità. Si ottiene così un motore interno al sistema
economico, che mobilizza solamente il meccanismo dei prezzi - come ipotesi. Il
tasso di crescita dipende allora a lungo termine da un progresso tecnico endogeno
che dipende esso stesso dalle variabili di accumulazione intrinseche al modello:
capitale, lavoro. L’accento è quasi sempre messo sui rendimenti crescenti
condizione sufficiente, non necessaria, all’endogenizzazione -, che occupano
un posto cruciale in seno al corpus microeconomico; la loro integrazione
genera l’invalidazione dei teoremi del benessere, per rottura dell’equivalenza
tra equilibrio concorrenziale e optimum di Pareto. La posta in gioco del
dibattito è considerevole: ne va dell’ingerenza dello Stato nell’allocazione
delle risorse.
Non è dunque un caso se i neoclassici hanno posto queste
non-convessità al centro delle loro formalizzazioni rispondendo alle critiche
indirizzate al modello di Solow, relative alla sua non-conformità alle
verifiche empiriche e ai fatti stilizzati di Kaldor e alla sua incapacità di
rendere conto del cambiamento tecnico nella sua prospettiva di convergenza verso
uno steady state. Una soluzione che salvaguarda sia la concorrenza
perfetta che la crescita equilibrata consiste nel prendere in considerazione dei
rendimenti esterni all’impresa, come nell’organizzazione industriale
di Marshall: l’ottimizzazione si fa con dei rendimenti globali crescenti che
permettono la crescita endogena e individuali costanti che salvaguardano l’equilibrio
concorrenziale. Le implicazioni degli effetti esterni marshalliani furono ben
presto identificate, ma l’aggiramento della concorrenza imperfetta poneva
ancora seri problemi tecnici. Il contributo dei nuovi modelli - fra cui quello
di Romer, dove l’esternalità deriva dall’investimento in capitale tramite learning-by-doing
- è di risolvere queste difficoltà matematiche, e non teoriche, legate all’incorporazione
delle non-convessità.
Origine e originalità dei nuovi modelli: l’addio al bene pubblico
Dunque l’obiettivo che anima questi formalizzatori nel loro
sforzo per endogenizzare il progresso tecnico si oppone alla sua concezione come
bene pubblico, che era quella di Solow. «Endogenous growth
theory, spiega Romer (1999), took technology and reclassified it not as a
public good, but as a good which is subject to private control. I wanted a way
to have some private provision and worked hard at the mathematics of that».
L’idea di bene pubblico tuttavia non rimanda a un progresso tecnico
semplicemente in funzione del tempo, caduto dal cielo o esterno all’economia;
esso può anche essere interpretato come fornito tutto o in parte dallo
Stato. La scelta originale di Romer di caratterizzare la tecnologia come un
bene non rivale parzialmente esclusivo - e dunque appropriabile e remunerato
privatamente - aderisce abbastanza bene all’epoca attuale, ma il suo
schema normativo non è neutro: esclude la presa in carico diretta della
produzione tecnologica da parte dello Stato, per ridurre l’azione di quest’ultimo
a un intervento indiretto sul mercato tendente a favorire l’accumulazione.
È tramite questa distorsione che la problematica neoclassica
si trova spostata verso i legami innovazione - esternalità - rendimenti
crescenti - struttura del mercato in concorrenza imperfetta. Per Romer (1990),
la crescita viene dall’aumento delle conoscenze - lineari nel loro stock -
originate dall’attività di ricerca e sviluppo su un mercato concorrenziale
dove i new designs destinati alla produzione sono protetti e remunerati
da un sistema di brevetti monopolistici e negoziabili. Secondo Lucas, una
linearità si pone nell’accumulazione delle competenze a livello del capitale
umano individuale (includendo il sapere), in maniera che l’esternalità
portata da questo capitale modifica il grado di omogeneità della funzione di
produzione del prodotto per associargli dei rendimenti crescenti, senza peraltro
che essa stessa causi la crescita; ma il processo di formazione, beckeriano, si
basa su una decisione allocativa privata [3].
Lo spirito particolare di questi autori è dunque quello di
una mercificazione del sapere, diretta all’individuo, e a lui solo.
2. Per una critica della crescita endogena: teoria e ideologia
Nel ventre della balena: degli eterodossi soggiogati e sussunti
La mainstream si è dotata di mezzi d’investimento
in macro-dinamica di questioni (innovazione...) abbandonate da tempo, o lasciate
agli eterodossi (post-keynesiani, schumpteriani, classico-marxisti...). Grazie
ad alcune astuzie matematiche e alle sue tecniche di ottimizzazione, la
modernizzazione dell’impianto solowiano le permette di integrare questi
soggetti all’interno dell’analisi neoclassica, sbarazzandosi
metodologicamente di tutte le impurità eterodosse. Un sintomo della grave crisi
nella quale l’attuale ortodossia ha gettato la disciplina economica è il
fatto che la mancanza di originalità dei modelli di crescita endogena è stata
da subito rilevata, da parte di Solow e altri neoclassici [4], senza che
queste dichiarazioni abbiano richiamato l’attenzione dei giovani
formalizzatori, né arrestato la clonazione delle loro pubblicazioni
Il fatto è che la crescita endogena ha di che sedurre, e
soprattutto gli eterodossi: essa «spiega» la crescita del PIL pro capite
e tollera la divergenza di traiettorie tra paesi diversi (modellizzando il Big
Push di Rosenstein Rodan tramite equilibri multipli), si concentra sul
sapere (e formalizza Schumpeter [5] con
processi stocastici), «si applica» e sfocia in una raccomandazione di
interventi statali (e affascina keynesiani, istituzionalisti, regolazionisti,
perfino certi «marxisti del capitalismo cognitivo» [6]...). L’espansione della mainstream
non ha fatto altro che annettere in tutte le direzioni i campi di altre scienze
sociali; le ha inoltre permesso di conquistare, grazie soprattutto alla crescita
endogena, il cuore delle eterodossie più compatibili con il suo ordine.
L’assenza di fondamenti microeconomici o gli errori dell’agente
Tuttavia questi modelli, rinchiusi nei limiti del programma
neoclassico, si condannano di fatto a incontrare difficoltà che non sono
in grado di risolvere in maniera endogena, facendo ricorso alle risorse
interne alla metodologia che impiegano. Fingono di trovare i fondamenti micro
del loro macro nell’assiomatica dell’equilibrio generale dei mercati.
Secondo Romer, proprio come il modello solowiano «persuaded economists to
take simple general equilibrium models seriously», la teoria della crescita
endogena realizzerebbe «the connection between what we did in macroeconomics
and what the rest of the profession had been doing in general equilibrium theory».
Malgrado la sua visione fortemente restrittiva di una disciplina tutta
neoclassica, egli non ignora che le nuove formalizzazioni mainstream
rappresentano delle decisioni dell’agente unico, che svuotano di contenuti le
questioni, quanto cruciali, della loro coordinazione e aggregazione, supponendo
che siano risolte a priori e imponendo per costruzione la
concorrenza perfetta (associazione delle traiettorie dei prezzi a quelle delle
quantità, postulato della piena occupazione...).
L’idea largamente diffusa che si tratterebbe di autentici
modelli di equilibrio generale dinamizzato è falsa. I neoclassici non
fanno altro che importare degli strumenti della microeconomia che rivitalizzano
il progresso tecnico, ma non comportano la minima dimensione collettiva.
Perché chiamare «esternalità» (Romer, 1986) piuttosto che soliloquio l’effetto
dell’agente unico su se stesso? Quale portata sociale ha l’effetto
esterno di imprese sotto simmetria di queste stesse (Romer, 1990)? In che cosa
Lucas (1988) capta una qualunque alterità sostituendo alla finitudine
dell’agente unico una «dinastia», la cui ragione di essere è di
giustificare la sua ipotesi, piuttosto controintuitiva, di linearità di
accumulazione del capitale umano individuale? Quale interesse hanno degli
agenti strettamente identici a fissare dei prezzi e a scambiare? Tutto ciò non
ha semplicemente senso - oppure altrettanto che chiamare «economia» l’universo
di Robinson. Ciò che si considera una «nuova teoria», un progresso di
fatto, corrisponde guardandolo da vicino a un regresso scientifico, e
questo anche dal punto di vista neoclassico - tenendo conto dell’assenza di
fondamenti microeconomici. L’origine di questo ripiegamento sull’agente
unico è da ricercarsi nell’ impasse teorico in cui si sono infossati i
neoclassici dopo i teoremi di indeterminazione di Sonnenschein.
Lo Stato assente-presente, ovvero il pianificatore senza pianificazione
Una delle incoerenze interne più pesanti della teoria
riguarda la concezione che i suoi paladini hanno dello Stato. Questo è in
effetti concepito in maniera contraddittoria come presente e assente allo stesso
tempo. Tecnicamente, i modelli a esternalità esibiscono un equilibrio
concorrenziale infra-ottimale, con disgiunzione dei tassi di crescita
degli equilibri centralizzati e decentralizzati. Lo Stato è dunque presente
quasi onnipresente - in queste formalizzazioni che invocano la potenza
pubblica per ristabilire l’ottimalità paretiana, per esempio grazie a delle
sovvenzioni o defiscalizzazioni in favore del motore privato che aziona la
crescita. Ma allo stesso tempo lo Stato, in quanto entità autonoma, è assente,
poiché non può logicamente essere altro che l’agente rappresentativo
stesso. L’istituzione è presa in considerazione per il tramite di un’ottimizzazione
con «social planner», dove l’agente (chi altri, se è unico?),
sebbene sia incapace di raggiungere spontaneamente l’optimum tramite la
concorrenza, perviene a internalizzare l’effetto esterno per la sua immediata
trasmutazione in «pianificatore» - questo è un caso di schizofrenia, ma anche
di stregoneria!
Siamo onesti e riconosciamo ai nuovi modelli il merito di
tirar fuori i neoclassici dalla loro posizione rigida, aiutandoli a non
percepire più lo Stato solamente come perturbatore dei meccanismi di
aggiustamento tramite i prezzi. Essi sono in effetti rimasti immobili per
decenni in una ostilità a qualunque azione statale, tollerando solamente l’analisi
del suo finanziamento efficiente e mai quella del suo impatto sulla
crescita. Questo orientamento li conduceva a insistere su una spesa pubblica
generatrice di esclusioni operanti a detrimento del risparmio privato via
la moneta, il debito o la fiscalità. L’ambizione dei New Classics -
dalle anticipazioni razionali (Lucas) all’equivalenza ricardiana (Barro) - non
era quella di portare la prova dell’inutilità delle terapie keynesiane? In un
quadro rinnovato, questo progetto continua ad essere all’opera nei loro
modelli recenti, costruiti contro l’idea di bene pubblico, che presuppongono
di liberare l’offerta dagli intralci statali, focalizzati sul calcolo di una
tassazione ottimale (alla Laffer) che finanzi una stimolazione pubblica
dell’accumulazione privata di un fattore chiave. Sprovvisto di un
contenuto istituzionale, il pianificatore senza pianificazione è il mezzo
neoclassico di teorizzare la ri-regolazione dell’economia tramite il
mercato.
L’indeterminazione del cuore della crescita o il segreto (ben custodito)
del capitale
Dato che i modelli ortodossi, da Solow a Romer, sembrano
tranquillamente perseverare nel loro essere e nell’incapacità di appropriarsi
del cambiamento tecnologico, tanto più è sorprendente nelle nuove
rappresentazioni l’oscillazione nel determinare il cuore della crescita. Non
più del modello AK le variabili d’endogenizzazione della produttività
totale dei fattori non sono suscettibili di rivelare concettualmente alcunché
di preciso su questo K motore della crescita. Il «capitale» in
questione può corrispondere a qualunque fattore soggetto ad accumulazione
(capitale-conoscenza, infrastrutturale, umano...), a condizione che si possa
correlare matematicamente in modo positivo questa cosa alla
produttività. Senza provocazioni inutili, potrebbe trattarsi anche della
corruzione (se si ammette, come fanno certi neoliberisti, che una bustarella
stimola la produttività del lavoro), di una mandria di buoi zebù (versione
malgascia, dove l’animale è capitale) o di capitale culturale simbolico (alla
Bourdieu)...
Di questi modelli si dice che sono ricchi; si dovrebbe dire troppo
ricchi, nel senso in cui ci sono numerosi (o meglio già troppi) candidati alla
spiegazione della crescita, senza che le basi concettuali del capitale in
senso lato siano esplorate (sono esse esplorabili solo per mezzo dell’ortodossia?).
Possono incorporare tutto precisamente perché la loro metodologia non
integra effettivamente niente: operano mediante saccheggio e
trasferimento, e realizzano una vera e propria conquista teorica. I
neoclassici conservano in memoria il trauma della polemica dei due di Cambridge
che si trasformò nella loro Beresina? Egemonici, dispongono ormai dei mezzi per
la sua negazione. Noi vediamo nella critica della crescita endogena l’occasione
di rinnovare con la radicalità degli eterodossi di ieri, che osavano battersi
contro i pilastri della corrente dominante: definizione del capitale che occulta
le contraddizioni del sistema capitalista [7],
funzione di produzione [8]...
L’approccio ad hoc neoclassico o la rinuncia del realismo
La selezione discrezionale del fattore il cui incremento
permette la crescita auto-sostenuta non è, a ben vedere, che un livello
supplementare di ‘ad hoc-ità’ che si sovrappone a quelli che
caratterizzano questi modelli: simmetria delle imprese, condizione dell’aggregazione;
integrazione di effetti esterni senza riferimenti concettuali né teorici;
sentieri in knife edge, indispensabili ad una crescita sia non esauribile
che non esplosiva; linearità dell’accumulazione delle conoscenze... A questo
livello di ‘ad hoc-ità’, l’approccio neoclassico tende verso l’arbitrarietà
più totale e da lì sparisce intrinsecamente come teoria, nel senso che essa
stessa rinuncia a voler dire qualcosa di utile agli uomini sulla realtà della
loro vita in società. Questa critica rimanda altrettanto naturalmente al
contenuto ideologico del concetto neoclassico di «equilibrio» a breve
termine per aggiustamento dei prezzi, che traduce una visione mitizzata dei
rapporti sociali - in opposizione frontale alla storia, artificialmente
ricollegato alla fisica. I modelli di crescita endogena non sono dunque privi di
interesse...per chi si interessa non alla scienza, ma alla fanta-scienza
economica.
Questarinuncia al realismo non ha perturbato il Lucas dei
cicli reali o quello delle anticipazioni razionali - regresso maggiore della
disciplina che gli valse il premio Nobel -; perché dovrebbe mettere a disagio
il Lucas della crescita endogena? Verrebbe quasi da rimpiangere Solow: «il
tentativo di costruire l’economia come una scienza dura è destinato al
fallimento. I più brillanti della professione procedono come se l’economia
fosse una fisica della società, un modello unico che deve essere semplicemente
applicato». La salvezza neoclassica verrebbe dall’empiria, a un livello
di astrazione a volte comparabile alla teoria? Sicuramente no. Nel caso dell’educazione,
i test macroeconometrici che ricorrono a delle equazioni di catching-up o
a cross section danno dei risultati con errori sistematici e poco
robusti. In econometria di panel, più sofisticata, conducono spesso a perdere
gli effetti positivi dell’educazione, quando non producono un impatto negativo
(Pritchett).
Compatibilità con il neoliberismo: lo Stato contro il servizio pubblico
La riattivazione neoclassica dell’intervento statale opera
attraverso la negazione della natura di free goods (liberi e gratuiti)
delle componenti del patrimonio comune dell’umanità, ormai formalizzato come
categorie del capitale posseduto privatamente e tramite la mobilitazione dello
Stato per favorire la loro accumulazione privata e la loro remunerazione
individualizzata in una logica di profitto. Anche se lasciano spesso aperte le
questioni delle politiche economiche e delle forme istituzionali da adottare,
questi modelli non sono neutri: la loro endogenizzazione è mercificazione.
L’innovazione alla Romer dissolve il sapere come bene
pubblico in uno schema in cui la sua produzione è circoscritta da dei brevetti
di uso esclusivo e dove «i segnali emessi dal mercato giocano un
ruolo essenziale»; l’educazione secondo Lucas, in riferimento ad un
capitale umano riproducibile per decisione individuale di investire nella
propria formazione, va incontro ad uno sviluppo volontaristico dell’educazione
pubblica [9]. Non che quest’ultima non sia modellizzabile
in crescita endogena; il modello che abbiamo proposto lo fa, ma non sfugge ai
problemi sollevati qui e non può trattare il settore pubblico se non facendolo
funzionare con un sistema di prezzi, secondo delle regole concorrenziali, come
se si trattasse di un mercato dell’educazione sovvenzionato dallo Stato.
Sarebbe a dire la compatibilità di questi modelli con
il progetto neoliberista. I teorici della crescita endogena hanno saputo trarre
profitto dall’ambiguità del loro interventismo per promuovere non un servizio
pubblico più esteso o magari migliorato, ma l’appoggio statale alla
regolazione tramite il mercato di un sapere-merce (formazione,
informazione...), fin da ora controllato dalla frazione egemonica dei
proprietari del capitale. Questo messaggio è in sintonia con il discorso di
organizzazioni internazionali come la World Bank, per la quale il «mercato
del sapere» apre la strada al «benessere nell’esistenza di ciascuno» [10]. Sono preconizzate
privatizzazioni di tutti i tipi, educazione privata e tutela commerciale della
ricerca («trasformare gli istituti di ricerca in società per azioni»!).
Nell’era del neoliberismo trionfante lo Stato capitalista agisce contro il
servizio pubblico.
Perché questa teoria? Salvare il capitalismo dall’ultraliberismo
Rimane da comprendere perché questi modelli siano apparsi in
uno spazio-tempo preciso - Stati Uniti, fine degli anni 1980 - e in quale senso
cogliere il loro legame con le mutazioni attuali del capitalismo. La teoria
della crescita endogena è nata nell’ambito dell’establishment
intellettuale statunitense, dall’impulso di autori impegnati che si
fecero un tempo conoscere lanciando l’offensiva decisiva contro il keynesismo.
A parte il giovane Romer (e ancora [11]), i suoi promotori hanno sempre
manifestato posizioni neoliberiste, disinibite, siano essi Barro («we’re
all Friedmanians now», Business Week 13-07-98), Sala-i-Martin («el
liberalismo no es pecado [peccato]», home page) o Lucas («chi
dice Stato dice ingiustizia sociale») [12]. Il nome di quest’ultimo, peraltro associato a livello accademico a
una politica favorevole all’educazione, figura - a fianco degli altri
due maestri, Friedman e Becker, e altri: Krueger, Buchanan... - sulla lista
degli economisti che «enthousiastically endorse the economic plan put forth
by George W. Bush». Ora la parte di questo piano che tratta dell’educazione
è tutto il contrario di un sistema pubblico più egualitario e traduce senza
mezzi termini il progetto dello Stato neoliberista: marketizzazione dell’educazione,
controllo del cambiamento del sapere e della divisione del lavoro da parte del
capitale, segmentazione della forza lavoro e polarizzazione sociale, ideologia
dell’individual choice (responsability, efficiency, freedom...),
il tutto grazie a dei fondi pubblici [13].
Questo rinnovamento neoclassico si è prodotto in piena
ondata Reaganomics, quando si osservavano con inquietudine il
rallentamento della produttività negli Stati Uniti - deregolati - e la rincorsa
asiatica nella scia del Giappone - «miracolo» nel quale l’azione
divina contò senza dubbio meno di quella dello Stato: infrastruttura,
formazione, ricerca e sviluppo... Quello che compresero i nostri autori
neoliberisti è l’imperiosa necessità di ammorbidire la loro visione
antistatalista del passato, troppo ottusa, per salvare il capitalismo dagli
eccessi dell’ultraliberismo: lo Stato deve intervenire non per modificare
a suo favore la struttura di proprietà del capitale, ma per estendere ai beni
pubblici l’appropriazione privata, non più per agire sulla domanda ma per
stimolare l’offerta, soprattutto non per pianificare l’economia ma per regolare
il mercato a vantaggio del capitale transnazionale, padrone del gioco. Di fronte
alla crisi della globalizzazione finanziaria, i neoliberisti lucidi non
reagirono altrimenti: bisognerebbe «regolare i flussi finanziari»
(Stiglitz) contro «l’integralismo dei mercati» (Soros) e «la loro
esuberante irrazionalità» (Greenspan)... L’ultraliberismo è riservato
al Sud, dove intacca le funzioni sovrane dello Stato: delegare la difesa,
dollarizzare, privatizzare il prelievo fiscale... L’espressione della
sovranità nazionale si deve limitare a pagare il debito estero.
Abbiamo sparato a zero contro la macrodinamica neoclassica
sforzandoci di dimostrare che i modelli di crescita endogena costituiscono: 1.
una regressione analitica, dal punto di vista del mainstream stesso con
il quale essi rompono, costretti a ripiegarsi sull’assurdità dell’agente
unico e abbandonando la riflessione sulla coordinazione e l’aggregazione; 2.
un prolungamento interno della visione solowiana, matematicamente simile; 3. la
persistenza dell’incapacità neoclassica, dopo la sconfitta di Cambridge, di
definire e misurare il capitale; 4. l’appoggio mistificatore, più sottile che
in precedenza, al progetto neoliberista di mobilitazione dello Stato contro il
servizio pubblico; 5. il risultato di una
capitolazione-sottomissione-assorbimento dei modellizzatori eterodossi
preoccupati della loro rispettabilità. Non è solamente la loro incoerenza
logica e la loro assenza di fondamento scientifico a squalificare ai nostri
occhi questi modelli, ma anche la loro funzione ideologica e il progetto di
società, al servizio del capitale globalizzato, che le loro metodologie e
conclusioni sostengono. Il movente di questo appello alla controffensiva, che
mira a colpire una delle facce nascoste del neoliberismo attuale, si riallaccia
al rifiuto di cancellare le tracce delle grandi critiche del passato che
fissavano fino a poco tempo fa l’agenda delle eterodossie combattive.
Bibliografia
Barro, R. et X. Sala-I-Martin 1995, Economic Growth,
McGraw-Hill.
Bush, G.W. 2001, Blueprint ***(No Child Left
Behind)***, http://www.ed.gov/inits/nclb.
Herrera, R. 1998, Éducation et capital humain dans un
modèle convexe de croissance endogène, Revue économique 49.
Klamer, A. 1988, Entretiens avec des économistes
américains, Seuil.
Lucas, R. 1988, On the Mechanisms of Economic Growth, Journal
of Monetary Economics 22.
Romer, P. 1986, Increasing Returns and Long Run Growth, Journal
of Political Economy 94.
Romer, P. 1990, Endogenous Technological Change, Journal
of Political Economy 98.
Romer, P. 1999, Conversations with Economists,
http://www.stanford.edu.
Solow, R. 1956, A Contribution to the Theory of Economic
Growth, Quarterly Journal of Economics 70.
NOTE
[1] La teoria è stata costruita a partire
dai modelli canonici di Romer (1986) e Lucas (1988). Rebelo ne ha proposto una
versione ultra semplificata che ha contribuito alla sua diffusione.
[2] Al contrario : in Francia, la sua popolarità si deve sia agli
sforzi dei neo-classici che a quelli dei regolazionisti parigini.
[3] Spero che il lettore tolleri
una digressione che devia un attimo dal soggetto per meglio ritornarvi. Nelle
sue Riflessioni sull’educazione, Kant situa il perfezionamento della
natura umana al termine di un processo educativo infinito. «L’educazione
è il problema più difficile proposto all’uomo. I lumi dipendono dall’educazione
e, a sua volta, l’educazione dipende dai lumi». Entrare in questo circolo
(e sapere «quello che si può fare dell’uomo») esige di isolare un
educatore egli stesso educato. Rifiutando l’interposizione divina, Kant
fornisce un’alternativa di identica logica. Considerata sotto il suo aspetto
pubblico di rapporti inter-individuali, che si chiariscono spontaneamente
tramite una cultura comunitaria, empiricamente immortale, la specie umana è
capace di sviluppare all’infinito le sue propensioni all’uso della ragione.
La soluzione delle «dinastie» di Lucas è del tutto diversa: è una finzione
individualista.
[4] La controffensiva
dei neoclassici rimasti fedeli a Solow sostiene che il suo modello conserva un
potere esplicativo a condizione di essere leggermente corretto.
[5] Aghion et Howitt sarebbero schumpétériens
dato che la loro innovazione opera per distruzione-creazione. E perchè
non marxisti? Schumpeter lo dice: questo concetto è di Marx!
[6] Moulier Boutang in testa.
Precisiamo: l’autore del presente articolo, Rémy Herrera, marxista della
teoria del sistema mondiale capitalista, non ha mai fatto parte della
corrente del «capitalismo cognitivo».
[7] Relire Marx sul segreto del capitale,
che «non è un oggetto, ma un rapporto sociale di produzione».
[8] J. Robinson : «La funzione di produzione è stata uno
strumento di rimbecillimento molto efficace. Si insegna allo studente la formula
Q = f (L, K), nella speranza che si dimenticherà di domandare in quale
unità si misura il capitale. Prima che faccia questa domanda, sarà diventato
professore».
[9] La teoria del capitale umano non è anche un attacco in piena regola
contro l’educazione pubblica?
[10] E-mail,
cellulare, scuola virtuale... mirano all’individuo.
[11] Discepolo di Lucas a Chicago, Romer (1999)
si occupa soprattutto di matematica : «Too many words and no enough math ?
Yes, and words are often ambiguous».
[12] Secondo Lucas, la Teoria generale
è scritta «con negligenza, a volte con disonestà» (Klamer,
1988).
[13] “Public funds for vouchers to
attend private schools or receive services from private providers, tests scoring
and penalties for disruptive students, means for school districts and law
enforcement to share information regarding discipline actions”... Cf.
Bush (2001).