Il corpo a buon mercato
Paolo Graziano
La prostituzione delle donne immigrate nelle dinamiche socio-economiche del meridione
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La prostituzione delle ragazze nigeriane, che costituiscono
una rilevante presenza nell’area tirrenica del meridione, risponde a criteri
organizzativi e produttivi profondamente diversi che coinvolgono apparati
criminali gerarchici e complessi. Sin dagli esordi, il percorso della tratta si
svolge sotto i crismi di un’apparente legalità: la ragazza stipula un
contratto, spesso alla presenza di un notaio locale, con cui si impegna a
restituire una somma di denaro prestata alla sua famiglia dalla stessa
organizzazione che la avvierà al meretricio. Quest’ultima si occupa del
viaggio e dell’ingresso della donna in Italia, dove viene affidata a personale
nigeriano che ne garantisce l’addestramento, l’inserimento e il controllo.
Obbligo della nigeriana è soltanto quello di pagare il debito in tempi
stabiliti: dunque il rapporto di sfruttamento, a differenza di quanto accade per
le albanesi, “ha una scadenza prefissata o collegabile al determinarsi di una
particolare condizione” [1]. Non per
questo è meno violento. Si può osservare, piuttosto, che il modello
socio-economico di riferimento per questo particolare genere di abuso non è
quello della schiavitù, come nel caso delle albanesi, ma quello dell’usura.
Il debito da risarcire cresce, infatti, a seguito di ogni servizio fornito o
imposto dall’organizzazione, aumenta se la ragazza contrae il debito senza
garanzie (spesso viene richiesto l’atto di proprietà della sua casa in
Nigeria), se deve abortire e persino se viene espulsa, poiché le viene segnato
a carico il costo della cauzione [2] e del nuovo viaggio verso il nord. A rafforzare il legame della donna
con l’organizzazione interviene la pratica del rito vodoo che
accompagna il giuramento di fedeltà, la cui infrazione comporta spesso effetti
devastanti per l’equilibrio psichico della ragazza.
L’anello fondamentale della catena dello sfruttamento, nel
caso delle africane, è costituito dalla madame o maman-loi, la
donna nigeriana che in Italia assiste e controlla le ragazze, spesso vivendo con
loro. È stato osservato che la madame può assumere due ruoli diversi
nel traffico delle donne: quello di sponsor che segue interamente il
percorso della tratta, dal reclutamento al trasferimento fino alla gestione del
soggiorno, oppure quello di compratrice che acquista i diritti sul debito
di una ragazza già presente in Italia e ne gestisce l’attività. La gestione
implica, come abbiamo visto, anche l’assistenza e la cura della ragazza, con
cui si instaurano ancora una volta ambigui rapporti affettivi e commerciali:
essi ricalcano stavolta la relazione familiare piuttosto che la relazione
di coppia emergente nel caso delle albanesi. Le coordinate culturali tipiche
del villaggio o della tribù centrafricana, infatti, accordano grande importanza
al rapporto verticale tra genitore e figlio, discendente e antenato, la cui
imitazione garantisce alla madame un maggiore potere sulle ragazze [3]. Quest’ulteriore variazione
dimostra una volta di più che le dinamiche di un’efficace economia di
sfruttamento, come quella che tentiamo di esaminare, si basano necessariamente
sulla conoscenza dei bisogni non solo economici ma soprattutto relazionali,
affettivi, spirituali delle vittime.
4. I marciapiedi del sud Italia: la prostituzione migrante sul
territorio
Per un’analisi compiuta delle dinamiche di sfruttamento
della prostituzione migrante bisogna considerare una ulteriore variabile,
costituita dalle caratteristiche del territorio, del contesto sociale ed
economico in cui essa si esercita. Le attività connesse ai fenomeni migratori,
infatti, si svolgono per loro natura tra un qui e un altrove, tra un luogo d’origine
e un luogo d’arrivo dei soggetti migranti, e di entrambi i poli tengono conto.
Le strategie di gestione della prostituzione migrante nel
meridione d’Italia avallano ampiamente questo assunto, poiché evidenziano l’aderenza
delle sue modalità organizzative alle caratteristiche del luogo e l’accordo
delle organizzazioni criminali straniere con quelle locali che controllano il
territorio. Nelle zone ad elevata penetrazione camorristica o mafiosa l’intesa
si basa sul principio della divisione delle sfere d’influenza: alla
criminalità straniera la proprietà delle persone, a quella locale il dominio
sul territorio. Nella zona a nord di Napoli, ad esempio, l’affermazione di
tale principio dopo lunghe lotte di potere si traduce in un ulteriore aggravio
per le donne prostituite, costrette spesso a versare una cifra mensile (circa
300 euro) alla malavita locale per il “fitto” della loro porzione di
marciapiede. D’altronde il controllo del territorio da parte della malavita
locale non costituisce uno svantaggio per le bande straniere che gestiscono la
tratta, ma la condizione necessaria affinché quest’ultima possa esercitarsi:
essa garantisce, infatti, le franchigie e le tutele indispensabili allo
svolgimento delle attività illecite, che allignano specialmente in alcune aree
dove vige di fatto una palpabile “sospensione della legalità”. A proposito
di tale caratteristica, che facilita l’arrivo e poi rende impossibile la vita
dello straniero non regolare, un immigrato scrive che il Meridione è un
territorio “facile e terribile al tempo stesso, facile, voglio dire, per la
sua flessibilità ma anche terribile per l’estremo che questa flessibilità
può rappresentare, un territorio dove tutto è possibile, da una parte capace
di prescindere dalle cose più ‘banali’ come i documenti, ma che con la
stessa ‘leggerezza’ prescinde da contratti di lavoro, di affitto, dalla
minima assistenza sanitaria, da tutti quei fattori insomma che fanno la
cittadinanza” [4].
La focalizzazione sul microcosmo costituito da un paese del
litorale domitio, in Campania, potrà servire ad evidenziare le relazioni
economiche e sociali che collegano alcune componenti del territorio e della
società locale alla prostituzione migrante e all’immigrazione in genere. A
Castelvolturno, secondo le rilevazioni ISTAT del 2000, l’8,53% della
popolazione residente è costituita da extracomunitari. La massiccia presenza di
clandestini rende, tuttavia, più credibili percentuali che si aggirano attorno
al 20-25% degli abitanti [5]. La
presenza delle donne sfiora il 56%, una percentuale insolitamente alta rispetto
agli standard registrati nel caso dell’immigrazione africana, che privilegia
tradizionalmente la mobilità maschile: di questa popolazione le nigeriane
costituiscono addirittura il 54%. Tre donne immigrate su quattro presenti nell’ambito
territoriale dell’Asl Ce2 risiedono a Castelvolturno. Basta percorrere la
Domitiana per capire che una tale concentrazione non è casuale e va ricondotta,
in buona parte, alle scelte del racket della prostituzione. D’altro canto il
paese domitio presenta alcune caratteristiche favorevoli all’accoglienza delle
vittime della tratta e al commercio del sesso, come l’enorme estensione lungo
un’arteria molto trafficata eppur periferica, l’isolamento del territorio
dai grandi centri e, soprattutto, la “facilità d’accesso degli alloggi,
seconde e terze case, che venivano utilizzate per le vacanze, mentre nel recente
passato hanno risentito della disaffezione per il litorale domizio come meta
turistica, determinatasi negli anni del post-terremoto, quando le unità
abitative furono utilizzate per gli sfollati ed i senza tetto dell’area
metropolitana di Napoli” [i]. Considerando il lucroso mercato degli affitti agli stranieri irregolari -
per il 59% privi di regolare contratto di fitto nel sud Italia [6] -, si delineano
i contorni di un “indotto” della prostituzione che reca indubbi benefici ad
una vasta schiera di proprietari di case nella zona di Castelvolturno.
Il caso, e quest’ultimo dato in particolare, valga ad
affermare il principio che i rapporti tra la prostituzione migrante e il
Meridione sono ambivalenti: da un lato la prostituzione incide negativamente sul
territorio, determinando degrado e conflittualità sociale; dall’altro lascia
intravedere possibilità di speculazione e innesca ulteriori forme di
sfruttamento del debole.
5. Fobie e luoghi comuni: la prostituzione nell’immaginario della
società meridionale
Nonostante l’intreccio di relazioni, basato sull’acquisto
di prestazioni sessuali e talvolta su altri tipi di transazione come quelli
appena esaminati, la distanza tra le vittime della tratta e la popolazione
locale appare abissale. Il contatto quotidiano, la condivisione del territorio
non attiva pratiche di avvicinamento, ma contribuisce a rafforzare le barriere
immateriali con cui la società meridionale tenta di difendersi da un gruppo
percepito come assolutamente altro, perché caratterizzato da troppe diversità:
la condizione femminile, quella dello straniero e della prostituta. Per questo,
si diceva in apertura, le reali dimensioni del dramma della prostituzione
migrante, la profondità storica della vicenda di ragazze che hanno vissuto un
“prima” della prostituzione, si dissolvono nel presente assoluto della loro
attuale condizione, che implica come unica funzione la vendita di piacere e
bellezza: “Le nigeriane sia quando si siedono sia quando stazionano in piedi
sono quasi immobili. Per questo alcuni esteti della prostituzione dicono: sono
delle bellezze statuarie. Questa affermazione contiene una rimozione, e cioè le
nigeriane prima ancora di essere belle e poi statuarie, sono profondamente
infelici” [7].
La rimozione del soggetto assolutamente debole importato come
merce nel nostro territorio fa leva su alcune paure endemiche di qualsiasi
società, come quella della malattia. In particolare nel tessuto sociale
meridionale, che ancora ricorda con terrore la deflagrante epidemia di colera
del ‘72, la prostituta per giunta proveniente da aree depresse del pianeta
appare soprattutto come un pericoloso veicolo di infezioni. I dati dell’Istituto
Superiore di Sanità rilevano l’aumento di malattie sessualmente trasmesse
(MST) tra la popolazione immigrata, che in dieci anni, dal 1988 al 1998, sono
passate dal 2,7% al 16% delle patologie diagnosticate in extracomunitari. Tra
queste malattie ricompare peraltro la sifilide, che sembrava definitivamente
debellata almeno in Occidente [8]. Dell’incremento
percentuale è senz’altro responsabile anche la crescita della presenza di
stranieri in Italia, oltre che l’esclusivo impiego di immigrati nel mercato
della prostituzione. Nella percezione comune, tuttavia, le MST non vengono
collegate tanto alle attività che le donne straniere sono costrette a svolgere,
in un contesto per lo più indifferente, sulle strade del meridione, quanto alla
specifica condizione dello straniero: come a dire che la malattia è sempre e
comunque importata, mai contratta in Italia. E che si tratta del frutto di una
colpa: morbus pravorum si diceva della sifilide [9]. Eppure la comparazione di categorie omogenee di immigrati e
italiani - ad esempio prostitute verso prostitute - mostrano percentuali simili
di incidenza dell’HIV, con il 6,5% di positività per le straniere e il 9,5%
delle italiane: è evidente, dunque, che la presenza di patologie non va
imputata alla provenienza delle donne ma all’attività che sono costrette ad
esercitare nell’ambito dei regimi di sfruttamento attuati dalle organizzazioni
criminali straniere con il concorso del territorio d’accoglienza.
6. Un insieme di solitudini. Conclusioni
L’economia di sfruttamento che governa il mercato della
prostituzione migrante nel sud Italia si fonda, tanto nell’elaborazione dell’offerta
quanto nell’espressione della domanda, sulla duplice negazione della donna
come lavoratrice e come persona. Come è stato sottolineato, lo sfruttamento dei
bisogni e del sostrato socio-culturale delle vittime, operato dalle
organizzazioni criminali straniere, trova atteggiamenti complementari nella
ghettizzazione e nella diminuzione della straniera perpetrata dalla società
locale. Questa riduzione della donna prostituita a cosa, scrive Enrico Pugliese,
“è una delle tante espressioni dei processi di globalizzazione e
mercificazione. I trafficanti gestiscono il controllo di una merce [...] il cui
arrivo è in generale illegale, così come in generale è illegale l’arrivo di
coloro i quali vengono a svolgere attività o mestieri che la società considera
onesti. Anche in questo caso si pagano organizzazioni più o meno criminali per
procurarsi la possibilità di entrare nei paesi ricchi dell’Occidente. Solo
che in questi casi la dipendenza finisce solitamente all’arrivo” [10]. Per le vittime della prostituzione, invece, il vincolo continua e si
configura come esperienza totalizzante, che genera radicali forme di abuso.
Consideriamo la rigorosa formulazione marxista della logica
dello sfruttamento: Marx distingue il corpo fisico dell’operaio dalla forza
lavoro, risultato di diverse capacità umane. Il capitalista acquista appunto
questa capacità di lavoro, dopodiché la gestisce a proprio piacimento. Ma il
lavoro compiuto non corrisponde soltanto al denaro speso, bensì continua per un
tempo ulteriore: così si origina il plusvalore. Ad esso si sacrifica lo spazio
esistenziale e la capacità produttiva, ma non necessariamente il corpo del
lavoratore: “A ben vedere, dunque, all’origine del plusvalore c’è questa
scissione, nel corpo stesso, tra il sostrato materiale corporeo e la forza
lavoro come capacità di lavoro, come pura potenza” [11]. Nella
prostituzione, invece, il corpo è l’unico mezzo di produzione che le
dinamiche della tratta espropriano, gestiscono, espongono (pro-statuere
significa appunto “porre davanti”) e vendono. Ai corpi esibiti delle
mercenarie forzate del sesso si adatta l’espressione di “nuda vita”, con
cui Giorgio Agamben indica l’individuo sottratto al diritto e alla proprietà
di se stesso, prestato a qualsiasi violenza o manipolazione e irrimediabilmente
impoverito: nel caso specifico, le malattie contratte con l’esercizio della
prostituzione sottraggono all’immigrata la salute individuale, ovvero “l’unico
patrimonio personale disponibile” [12].
L’estrema dequalificazione insita nella funzione della
prostituta - per cui basta avere un corpo, neanche giovane e attraente - si
aggiunge alla condizione di straniero e bisognoso nel rendere ardua la
costruzione di una coscienza collettiva e l’assunzione di comportamenti di
difesa da parte delle ragazze. In breve, le prostitute straniere non esistono
ancora come gruppo sociale, se non nelle pianificazioni economiche delle
organizzazioni criminali o nelle faccende di ordine pubblico. Ma questo è solo
l’esempio più evidente della difficoltà che i nuovi soggetti deboli, gli
immigrati nei paesi occidentali, incontrano nel percepirsi come collettività
dai problemi comuni: “forse perché - scrive lucidamente uno di loro - quello
dell’immigrazione è di per sé un percorso disperatamente individuale in cui
impari a contare solo su te stesso” [13].
[1] A. Morniroli, op. cit., p. 62.
[2] In Nigeria, dove vige il modello legislativo
britannico, la prostituzione è un reato punibile con il carcere fino a tre
mesi.
[3] Si
consideri, al proposito, la “presenza” degli antenati in ogni momento della
vita quotidiana delle tribù nigeriane. Cfr. I. Caputi, Nigeria: la religione
tradizionale africana, in F. Belletti et al., L’ospitalità tollerata,
Associazione J. E. Masslo, Napoli 2003, p. 94.
[4] D. A. Harouna, L’identità difficile, in F. Belletti
et al., L’ospitalità tollerata, cit., p. 8.
[5] Cfr. R. Natale, Dalla memoria all’impegno, in
F. Belletti et al., L’ospitalità tollerata, cit., p. 28.
[i] Nell’inferno della domiziana, cit., p.
40.
[6] Cfr. Condizioni
abitative degli immigrati in Italia, ricerca Sunia Ancab-Legacoop,
http://www.sunia.it/files/studi_ricerche/sunia_immigrati.htm.
[7] A. Pascale, La città distratta, Einaudi, Torino 2001, p.
141.
[8] http://www.iss.it/iss/sae/Notiziar.htm
[9] Un atteggiamento
peraltro non nuovo. Si pensi alle rappresentazioni della sifilide che l’Europa
moderna ha conosciuto dopo la scoperta dell’America: “Già in origine
rappresentava il moderno prototipo della malattia di importazione, con tutto
quello che ne consegue sul piano emotivo e sociale [...] Il rapido diffondersi
del male favorì uno ‘scaricabarile’ ante litteram, con l’attribuzione di
responsabilità allo straniero di turno (‘mal francese’ in Italia; ‘mal de
Naples’ in Francia; ‘vaiuolo ispanico’ in Olanda; ‘mal dei portoghesi’
in Spagna e, naturalmente, ‘mal dei cristiani’ in Turchia)” (G. B. Gaeta, Tra
paura e realtà, in F. Belletti et al., L’ospitalità tollerata,
cit., p. 112).
[10] E.
Pugliese, Prefazione ad A. Morniroli (a cura di), op. cit., p.
9.
[11] P. Covre, Prostituzione
e libertà individuale, relazione al convegno “Conversazioni sulla
laicità. Verso un forum dei laici in Italia”, a cura dell’Ufficio Nuovi
Diritti della CGIL e della Fondazione Critica Liberale, 10 marzo 2004.
[12] G. B. Gaeta, op. cit., p. 115.
[13] D. A. Harouna, op. cit., p. 8.