Il provvedimento del reddito di
cittadinanza in Campania ha concluso il suo iter legislativo con l’approvazione
in aula del regolamento di esecuzione della legge regionale. Come principali
promotori di questo provvedimento, avremmo motivi e ragioni per un facile
entusiasmo e per compiacerci di un risultato sin qui inatteso. Il nostro
intervento invece sarà lucidamente critico. Nei lunghi mesi che sono trascorsi,
quasi due anni, la questione del reddito di cittadinanza ha aperto una grande
discussione, in luoghi e in ambienti che erano ben lontani dalle nostre
argomentazioni. Eppure è divenuta una questione centrale. Non sono mancate
lacerazioni tra quanti desideravano un provvedimento efficace e innovativo e
quelli che desideravano l’approvazione di un provvedimento qualunque fosse,
purché portasse gloria e lustro. Non a caso i manifesti istituzionali che ne
vantavano l’approvazione sono stati irresponsabilmente affissi molto prima che
la legge fosse realmente applicata, così come questa legge che nessuno voleva
ha, dopo la sua approvazione, trovato immediatamente molti padri. A noi non
interessano le attribuzioni di paternità (chi può vantare di avere il copyright
sul reddito di cittadinanza?), ma interessa invece sapere che si è inserito un
nuovo tassello in un percorso comune di lotte. Per quanti sacrifici, quante
lacerazioni abbiamo attraversato, non abbiamo mai perso la convinzione che
questa era una battaglia che valeva la pena fosse combattuta fino in fondo.
Non credo ci sia bisogno, per chi ha dimestichezza con l’argomento,
di definire il reddito di cittadinanza. Come ho già avuto modo di dire l’assegnazione
di un reddito di cittadinanza non è una forma di assistenza che vuole porre gli
individui nella dipendenza di uno Stato (o Regione) caritatevole. Non deve
dispensare dal lavoro ma rendere effettivo il diritto al lavoro. Deve
essere inseparabile dallo sviluppo delle capacità individuali, dall’accesso
alle forme di conoscenza, di trasmissione dei saperi. È una misura di sostegno
in un paese, è bene ricordarlo, che, a differenza degli altri paesi europei,
non prevede forme di sostegno continuate per le persone espulse o mai entrate
nel processo produttivo. Ogni persona deve avere diritto a cercare il lavoro che
più lo soddisfa, a trovare forme di sostegno che, nei periodi in cui il mercato
li ha messi da parte, consentano un’attesa costruttiva e non angustiante.
È con questa idea che è cominciato un tavolo di confronto
con le altre forze di maggioranza, perché, è bene ricordarlo, il reddito non
rientrava nel patto elettorale di inizio legislatura. Quando, in una delle
ultime finanziarie regionali, la Regione ha deliberato la cessione di alcuni
beni immobili non funzionali all’attività pubblica (un albergo, una pompa di
benzina, etc.) abbiamo, insieme agli altri compagni del mio gruppo, cominciato
una battaglia perché quei fondi straordinari fossero per metà destinati a
politiche di sviluppo e per l’altra metà fossero vincolati a finanziare una
misura come il reddito di cittadinanza. Inizialmente c’era molto scetticismo
su una proposta che poteva apparire strumentale, ma le nostre intenzioni così
come le nostre argomentazioni erano più che mai valide e la “questione
reddito di cittadinanza” è stata iscritta all’ordine del giorno dell’agenda
politica regionale. Come si potrà immaginare non sono mancate opposizioni e
perplessità nello schieramento di centro sinistra, ma alla fine il primo
risultato, quello di vincolare l’uso dei fondi, era stato ottenuto. Adesso
avremmo potuto lavorare alla stesura del provvedimento sapendo di disporre delle
risorse necessarie e di non rischiare di approvare una legge puramente formale.
In corso d’opera, in un processo lungo due anni, quando si è capito che i
tempi di cessione e di realizzo sarebbero stati troppo lunghi, si è ottenuto
che quelle risorse fossero recuperate dai fondi ordinari.
È così arrivata, dopo un primo confronto, una bozza di
proposta di legge elaborata dall’Assessorato alle politiche sociali,
presieduto da Adriana Buffardi. E qui vorrei fare due piccoli incisi. Il primo
è che il testo su cui si è aperta la discussione non era stato preparato da
noi, per quanto molte volte la stampa ce ne attribuisse la paternità. Molte
cose di quel testo non corrispondevano alle nostre intenzioni e per modificarle,
come dirò a breve, abbiamo intrapreso una lunga battaglia. Il secondo,
conseguente del primo, è che purtroppo, a causa del grande squilibrio di
risorse e competenze che c’è tra giunta e consiglio non abbiamo potuto
presentare un testo direttamente in aula, ma, per evitare possibili errori,
abbiamo dovuto far sì che la proposta fosse elaborata dai tecnici della giunta.
Si badi, non che non disponessimo di nostre intelligenze, ma la struttura
amministrativa e la conoscenza in dettaglio delle singole voci di bilancio e di
spesa è sempre più patrimonio esclusivo dei tecnici, dell’apparato
burocratico amministrativo, in grado, se vuole, di affossare ogni volontà
politica. Uno squilibrio quello dei poteri tra consiglio e giunta che si va
sempre più accentuando, anche con le ultime proposte di riforma dello statuto
regionale, che vorrebbero un’assemblea semplice ratificatrice delle scelte del
presidente e della sua giunta.
La proposta di legge presentata dalla giunta e arrivata in
consiglio ci ha da subito lasciati perplessi. Il nostro primo obiettivo era
quello di stabilire un principio, cioè un diritto di ogni individuo ad un
reddito dignitoso. La legge invece aveva come punto centrale esclusivamente la
famiglia, tanto che a fare richiesta, secondo la bozza, avrebbe dovuto essere il
“capofamiglia”.
Avevamo poi espressamente chiesto che beneficiari del
provvedimento fossero anche gli immigrati regolarmente residenti, mentre il
testo non contemplava questa ipotesi. Mi sembra che la questione da noi posta, e
poi positivamente risolta, di considerare i migranti possibili beneficiari, apra
la via al concetto di cittadinanza di residenza, cioè del fatto che una persona
disponga di un patrimonio di diritti nel luogo dove vive e non in base alla
propria nazionalità. Un fatto molto importante, sul piano politico come su
quello giuridico, perché inserisce i migranti come soggetti titolari di un
pieno diritto di appartenenza alla nostra comunità.
Inoltre l’ipotesi iniziale prevedeva un’erogazione
monetaria di 300 euro e non prevedeva interventi extra-monetari, come gli
abbonamenti per i trasporti, l’accesso ai beni e alle manifestazioni
culturali, il sostegno alle spese per i fitti.
Ci sembrava un quadro d’insieme che svilisse i nostri
propositi iniziali. Eravamo e siamo ben consapevoli dei limiti di un
provvedimento a carattere regionale, ma guai se il reddito avesse assunto la
forma di una caritatevole elemosina.
È cominciato quindi il lungo braccio di ferro sulla legge da
approvare, fatto di emendamenti e di discussioni infuriate in aula. In questa
prima fase inizialmente è mancato un forte apporto dei movimenti, inizialmente
poco fiduciosi che una battaglia del genere potesse portare a qualche risultato.
Quando però è stato chiaro che quello di cui si discuteva era un problema
reale il loro contributo e il loro apporto è stato preziosissimo.
Abbiamo ottenuto che il testo contenesse un esplicito
riferimento ai migranti, che la somma fosse portata a 350 euro mensili, che
fossero potenziati gli interventi non monetari. Il percorso non è stato
lineare, è durato diversi mesi tra crisi di maggioranza e paralisi
istituzionali. La discussione in aula è stata spesso interrotta, frammentata,
con una maggioranza spesso incerta e un’opposizione abilmente demagogica. Nel
frattempo l’attenzione mediatica e popolare sul provvedimento è cresciuta,
complice anche una scarsa conoscenza dei meccanismi istituzionali, e in molti
hanno cominciato a cavalcare la tigre. Primi tra tutti i movimenti legati alla
destra napoletana, che, sviando l’attenzione dal governo nazionale che aveva
sospeso il reddito minimo di inserimento, hanno cominciato a giocare al rilancio
e a incalzare strumentalmente l’amministrazione regionale. Di tutt’altro
tipo invece la pressione di movimenti di precari, immigrati, studenti,
disoccupati, storicamente legati alla sinistra, che non hanno mai smesso un
ruolo positivamente critico e politicamente attivo.
La questione più dirimente si è aperta sul problema del
reddito come diritto familiare o individuale. Su questo punto non abbiamo mai
avuto dubbi, perché la titolarità di un diritto appartiene all’individuo e
non alla famiglia. È come se una persona si presentasse in farmacia e si
vedesse negare un farmaco perché già un altro membro della famiglia ne ha
preso uno. Allo stesso modo ci siamo anche resi contro che se c’erano delle
precise resistenze culturali, c’era d’altro canto la necessità di non
esaurire le risorse nell’ambito di pochi nuclei familiari. La mediazione,
perché di questo si è trattato, è stata di stabilire un tetto di 350 euro per
famiglia, ma all’interno di questa disponibilità ogni membro può far
richiesta dell’erogazione monetaria. Non ci sono limiti di sorta per gli
interventi di tipo extra-monetario, sui quali mi sembra giusto spendere qualche
parola.
Abbiamo immaginato che il reddito di cittadinanza dovesse
consentire ad ogni individuo la partecipazione alla vita sociale, civile e
politica. Gli interventi di tipo non monetario previsti dalla legge vanno in
questo senso: contributi al fitto, abbonamenti per i trasporti, facilitazioni
per l’accesso alle manifestazioni culturali, gratuità dei libri di testo
scolastici, sono elementi importanti e fondamentali di questo provvedimento sui
quali spesso poco si è soffermata l’opinione pubblica, più attenta al quantum
monetario. Noi crediamo che le due cose siano strettamente legate, e che evitare
che il reddito sia una misura di mera assistenza dipenda anche dal funzionamento
di questo tipo di misure.
Quando questo faticoso lavoro sembrava giunto a termine,
affiancato dal continuo confronto con intellettuali, movimenti, rappresentanze
sindacali, pronti ormai ad approvare la legge in aula, siamo avvertiti,
praticamente dalla stampa, che i fondi stanziati per il reddito sono stati
destinati a sanare i debiti con i farmacisti, che hanno aperto una aspra
vertenza con la regione per il pagamento in ritardo dei loro crediti. Una scelta
incauta che ha rischiato di vanificare il lavoro svolto e che ci metteva di
fronte al problema di trovarci ad approvare una legge priva di copertura
finanziaria.
Nulla infatti sarebbe stato più rischioso di approvare una
legge di carta, di soli intenti su di una materia così delicata sulla quale
avevamo investito tanto e per la quale si era determinata una forte aspettativa
popolare. Molti si sarebbero accontentati anche solo di una legge formale, pur
di poter vantare un risultato. Noi abbiamo preferito la strada che rispettasse l’impegno
e la volontà di tanti compagni e che non vanificasse gli sforzi sin qui fatti.
Abbiamo chiaramente fatto intendere che non avremmo votato il provvedimento se
prima non fossero state recuperate le risorse per la sua copertura. Solo così
è stato possibile recuperare la credibilità della legge che andavamo ad
approvare. La votazione non è stata un’operazione semplice e tra la
discussione generale e quella sull’articolato abbiamo speso diverse sedute del
consiglio regionale.
A maggio, finalmente, l’iter si è concluso con l’approvazione
del regolamento di esecuzione. Considerati i tempi del consiglio regionale,
siamo stati quasi veloci. Anche su questo comunque abbiamo molto lavorato in
fase di emendamenti per rendere effettivo il sistema dei controlli e assicurare
che la sperimentazione fosse assicurata ai beneficiari per i tre anni previsti
dalla legge.
Infatti il sistema prevede che il reddito sia erogato dai
comuni, che siano i comuni a raccogliere le domande, spetta poi ai comuni
capofila elaborare le graduatorie degli aventi diritto.
Avremmo preferito un sistema che accentrasse poteri di
controllo, di verifica e di elaborazione delle graduatorie alla regione, per
evitare il rischio di improprie differenziazioni di trattamento a livello
provinciale e quello di un’eccessiva discrezionalità da parte delle
amministrazioni comunali. Un rischio concreto, considerata la fragilità del
sistema amministrativo locale e l’enorme mole di domande che verosimilmente
saranno presentate.
Ora, questa nostra breve ricostruzione non vuole avere valore
storico. Ricostruire le tappe e le fasi del provvedimento ci serve solo per
guardare al futuro e per fare delle considerazioni di carattere più generale.
La legge sul reddito di cittadinanza regionale è stato un provvedimento
complesso. Una complessità che senza l’aiuto di tante intelligenze, del
generoso lavoro dei compagni dei movimenti che per mesi hanno letteralmente
presidiato le sedute del consiglio regionale, non avremmo nemmeno osato
affrontare. Rischioso, come sempre quando si sceglie di sperimentare qualcosa di
nuovo, che solo qualche anno fa sarebbe stato impossibile anche solo immaginare.
Oggi noi abbiamo la consapevolezza che la legge approvata non
sia la migliore delle leggi possibili e che sarebbe molto pericoloso se servisse
a nascondere o a mascherare scelte di tutt’altro spessore effettuate dal
centro sinistra. Riteniamo anche che bisogna vigilare sulla sua applicazione,
per evitare che si trasformi in un sistema clientelare, che si intrecci con la
pura logica dell’assistenzialismo caritatevole. Pensiamo invece che questa
norma debba servire come punto di partenza per una nuova battaglia sul tema dei
diritti, che, in piccolo, si sia aperta una nuova strada per mettere al centro
del dibattito istituzionale, regionale e nazionale, una questione nostra, non
legata ad interessi privati e a potenti corporazioni, ma che nasce dalla
sofferenza, la riflessione e l’impegno di tanti uomini e donne di sinistra.