L’Europa che vogliamo è facile a
descriversi: è un’Europa giusta, democratica, unita, indipendente, e -
ovviamente - pacifica. Purtroppo, volere un’Europa con queste
caratteristiche significa volere un’Europa piuttosto diversa da com’è oggi.
Diciamo pure: significa volere un’Europa che non c’è.
In effetti, è difficile definire “giusta” un’Europa
nella quale le differenze nel reddito tra le diverse classi sociali crescono
anziché diminuire ed in cui la precarizzazione dei rapporti di lavoro avanza
pressoché ovunque. [1] Quanto alla “democrazia”,
basterà ricordare che la cosiddetta “Costituzione europea” non è nata da
una Costituente eletta direttamente dalle popolazioni dell’Europa, e tantomeno
da un dibattito che abbia coinvolto i cittadini di questa “costituenda”
Europa.
Anche l’”unità” europea non è oggi molto più
che un’ideale - a parte la moneta unica: che è certo di grande importanza, ma
non è davvero sinonimo di un’unità europea in senso pieno (e del resto non
è adottata ufficialmente neppure da tutti i Paesi dell’Unione Europea).
Anche sull’”indipendenza” dell’Europa si
potrebbe a lungo discutere: certo è che alla sovranità monetaria (ormai
pienamente acquisita) non fanno riscontro né una politica economica, né una
politica estera comuni - ed è ben difficile parlare di “indipendenza”
laddove non vi sia neppure un’uniformità di indirizzi in questi campi.
Quanto al fatto di vivere in un’Europa “pacifica”,
pensando all’Irak ne siamo più o meno tutti convinti: e certamente è un
fatto che l’Unione Europea in quanto tale non ha dichiarato guerra a nessuno.
A dire il vero, non potrebbe neppure farlo, stante l’assenza di una politica
estera e di difesa comune; ma questo non dovrebbe rassicurarci: infatti -
proprio a motivo di questa assenza - ben 10 tra i 25 Paesi dell’Unione Europea
hanno inviato truppe in Irak - e di conseguenza non soltanto hanno preso parte
ad una guerra, ma ad una guerra intrapresa senza e contro il parere dell’Onu,
e quindi illegale secondo i principi della legalità internazionale. [2]
Insomma: per affermare i princìpi indicati all’inizio, si
può dire - volendo essere eufemistici - che c’è ancora molto da lavorare. E
qui dobbiamo tenere a mente due cose. La prima è che sarebbe illusorio pensare
di potere conseguire quegli obiettivi al di fuori dell’Europa: in altri
termini, quelle 5 sfide per noi oggi non possono giocarsi che sul terreno dell’Unione
Europea (vedremo meglio più avanti cosa questo significhi in concreto). La
seconda cosa è che in Europa o quegli obiettivi si conseguono tutti assieme,
o non si conseguono affatto. Senza giustizia sociale avremo un’Europa
sempre più divisa al suo interno, sia in termini sociali che
territoriali. E in occasione del grande movimento per la pace del
febbraio 2003 si è visto che il deficit di democrazia che affligge l’Europa
(emblematicamente raffigurato dalla partecipazione di dieci Stati europei alla
guerra, nonostante l’opinione pubblica europea fosse ovunque in
maggioranza contraria) si è rivelato un forte limite anche per una politica indipendente
dell’Europa in quanto tale.
Resta il fatto che oggi, su tutti i princìpi citati,
registriamo una situazione tutt’altro che incoraggiante. In questo l’Europa
è vittima di se stessa. In due sensi: è vittima del suo successo, del
successo della costruzione europea, ed è vittima di alcuni vizi di fondo,
cioè di alcuni limiti connaturati al processo di costruzione europea come si è
svolto storicamente e fino ad oggi (più precisamente: così come esso è stato
voluto e condotto dalle élite europee). Vediamo perché, cominciando dai
successi dell’Europa.
1. L’euro: un successo... catastrofico?
Il vero, grande successo dell’Europa è l’euro. Per
Robert Alexander Mundell, premio Nobel per l’economia nel 1999, l’euro è
stato “un successo eccezionale”, “il miglior lancio di una valuta in tutta
la storia delle monete su scala mondiale”. [i]
Mundell ha ragione. Lo dimostra il fatto che, dalla sua introduzione, il peso
dell’euro a livello internazionale cresce: è sempre maggiore il volume degli
strumenti finanziari denominati in euro e delle transazioni commerciali
effettuate in questa valuta; inoltre, aumenta il numero dei Paesi che hanno
adottato l’euro o comunque lo adoperano come valuta di riferimento; e cresce
il peso relativo delle riserve in euro detenute dalla banche centrali di tutto
il mondo. A quest’ultimo proposito, il presidente della Commissione Europea
Prodi ha raccontato che già quattro anni fa le autorità di Pechino gli avevano
assicurato che avrebbero continuato “a comprare euro fino a quando non avremo
nel futuro non vicino una uguale quantità di euro e di dollari nelle nostre
riserve”.
Quindi quando lo stesso Prodi afferma che l’euro è “uno
strumento che ha evitato il monopolarismo monetario”, dice la pura e semplice
verità. [3] Una
verità che da un anno a questa parte ritroviamo anche nelle dichiarazioni degli
operatori sui cambi: “sono impressionato dalla forza dell’euro. Una cosa che
trovo incoraggiante come trader è la crescente statura internazionale
della valuta europea che in molti casi ormai la pone come alternativa diretta al
biglietto verde”. [4] Il fatto di rappresentare un’alternativa al dollaro
sarebbe ovviamente un fatto positivo per l’economia europea: ad esempio, l’Unione
Europea potrebbe cominciare ad attrarre capitali dal resto del mondo - e si
tratta di un processo che del resto è già in corso dal 2002, anno in cui l’afflusso
netto di capitali verso la zona euro è stato di 29,4 miliardi di euro (l’anno
precedente ne erano usciti 63,4). [5]
Potrebbe però essere un successo catastrofico. E non
per via delle “alte quotazioni” dell’euro rispetto al dollaro. Queste
quotazioni non sono particolarmente elevate, e tra l’altro presentano vantaggi
non indifferenti (come quello di ridurre gli effetti dell’aumento del
petrolio, che viene pagato in dollari). Tra l’altro, la quota maggiore del
commercio estero dei Paesi europei è interna alla zona euro, e quindi da questo
punto di vista le quotazioni della moneta unica rispetto al dollaro sono
pressoché ininfluenti.
No. I rischi legati all’euro ed al suo successo vengono da
un’altra parte: vengono dagli Stati Uniti. Nella stessa intervista citata più
sopra Romano Prodi ha fatto anche un’affermazione piuttosto pesante: dopo aver
detto che la moneta unica è un fatto “soprattutto politico”, ha spiegato
che “non a caso i maggiori scontri e le maggiori tensioni con gli Stati Uniti
sono avvenuti dopo che è stato creato l’euro”.
Sono affermazioni che possono sembrare eccessive e fuori
luogo soltanto a chi non capisce che l’euro rappresenta la più seria
minaccia di sempre all’egemonia valutaria del dollaro. Tale egemonia ha
assunto la configurazione che perdura tuttora nel 1971, allorché Nixon decretò
la fine della convertibilità del dollaro in oro. Da allora il dollaro è
divenuto una valuta puramente fiduciaria, senza più l’ancoraggio al valore
delle riserve in oro detenute dalla Federal Reserve. Nonostante ciò, oltre il
50% del commercio mondiale avviene tuttora contro pagamento in dollari (mentre
la quota statunitense del commercio mondiale è appena del 25%), così come la
maggior parte delle riserve valutarie delle banche centrali è in dollari. È
questa egemonia valutaria che consente agli Stati Uniti di avere una bilancia
commerciale con il resto del mondo cronicamente in rosso senza che questo
comporti le conseguenze che ogni altro Paese del mondo al suo posto
dovrebbe patire: svalutazioni, pagamento di cospicui interessi sui titoli di
Stato, crisi finanziarie.
Il punto è proprio questo: se quella egemonia valutaria
venisse meno, verrebbero meno questi privilegi (il cosiddetto “signoraggio del
dollaro”). A questo tipo di osservazioni in genere i difensori della valuta
statunitense rispondono che è “il mercato” a decidere il valore delle
valute, e che quindi, se le cose vanno avanti in questo modo da così tanto
tempo, è perché evidentemente non esiste una valuta in grado di rivaleggiare
col dollaro. Verissimo - sino a poco tempo fa. Oggi però quella valuta esiste,
ed è la moneta unica europea: che tra l’altro (a differenza di quanto troppo
spesso si legge sui giornali anche economici) si riferisce ad un’economia che
ha fondamentali più solidi di quelli statunitensi, a cominciare da una
bilancia commerciale in attivo.
Di qui le contromisure adottate dagli Stati Uniti. Tra cui la
guerra all’Irak. Da questa guerra, infatti, gli Stati Uniti si ripromettevano
il conseguimento di questi obiettivi: controllare materie prime strategiche;
scongiurare la possibilità che il petrolio fosse venduto in euro (come aveva
iniziato a fare Saddam Hussein) anziché in dollari; controllare e/o
destabilizzare di un’area come il Medio Oriente, che rientra nella zona
gravitazionale dell’euro ed è geograficamente limitrofa all’Unione Europea;
[6] garantire introiti per le multinazionali a base
Usa (tanto nella ricerca, estrazione e commercializzazione del petrolio, quanto
nella ricostruzione del Paese e nella gestione delle sue risorse privatizzate);
rilanciare le spese militari, di grande importanza per l’economia
statunitense; [7] e, last but
not least, operare una spaccatura politica dell’Europa: facendo leva sui
Paesi dell’Europa dell’Est appena entrati nell’Unione Europea, nonché sui
fedelissimi Blair, Aznar e Berlusconi.
Il raggiungimento di molti degli obiettivi di cui sopra sarà
determinato dall’effettivo esito della guerra in Irak, che allo stato non
sembra dare troppe soddisfazioni a chi l’ha voluta. Altri obiettivi, invece,
sono stati comunque conseguiti. A cominciare dalla frattura politica in Europa.
La cosa è stata subito chiara. “L’Europa è la prima vittima della
guerra”: così titolava il Financial Times il 12 marzo 2003; “Ue,
prima vittima”: quasi con le stesse parole, il 31 gennaio era stato
titolato l’articolo di fondo del Sole 24 ore, scritto da Adriana
Cerretelli; [8] più esplicito l’articolo scritto negli stessi
giorni da Lucio Caracciolo: “È guerra contro l’Europa” (l’espresso,
6/2/2003). Al di là di questi commenti “a caldo”, una cosa è certa: far
fallire il progetto di unità politica dell’Europa è tuttora un obiettivo esplicito
dei neoconservatori americani che attorniano Bush. Basti pensare che nel
settembre 2003 il settimanale “The Weekly Standard”, diretto dal
neoconservatore William Kristol, ha fatto del motto “Contro l’Europa
unita” il suo titolo di copertina. [9] Un’Europa unita, così argomenta Gerard Baker all’interno della
rivista, sarebbe oltremodo pericolosa: “immaginate un’Europa unita che
persegua aggressivamente un’unica linea contro gli Usa alla Nato. O che
rovesci il suo peso economico in America Latina o in Africa”. Le contromisure
consigliate sono varie: si va dal rafforzamento dei legami politici e militari
degli Usa con i Paesi dell’Est europeo (appunto...), all’ostacolare i
tentativi dell’Unione Europea di presentarsi come un unico soggetto in
organismi internazionali quali l’Onu, il G8, la Nato (la rappresentanza unica
europea è invece già una realtà all’Organizzazione Mondiale del Commercio);
dall’impedire l’adozione dell’euro da parte della Gran Bretagna al far
leva sul malcontento dei cittadini europei per questo nuovo Stato calato dall’alto.
Dopo cotanti consigli, la conclusione dell’articolo è ottimistica: “non è
troppo tardi: gli Usa possono impedire che questo superstato diventi realtà”.
Probabilmente, qualche mese dopo la pubblicazione di questo
articolo sul “Weekly Standard”, i neoconservatori americani hanno
pensato di avercela fatta. È stato quando, nel dicembre 2003, la Conferenza
intergovernativa che doveva ratificare il progetto di Convenzione europea è
fallita. Qui è bene essere chiari: si è trattato di un fallimento voluto - e
non del frutto dell’insipienza berlusconiana. Curiosamente (ma non troppo) l’analisi
più lucida in proposito si è potuta leggere sul giornale della Confindustria -
mentre le testate di sinistra si trastullavano con la presunta “incapacità”
di Berlusconi.
Ecco qualche passo dell’articolo che Piero Ignazi dedicò
alla vicenda: “La crisi esplosa alla Conferenza intergovernativa parte da
lontano, dal mutato assetto internazionale del dopo guerra fredda. Fino ad
allora, Europa e Stati Uniti, al di là delle bizze [sic!] golliste, avevano
sempre marciato assieme. Il comune nemico attestato sulle sponde dell’Elba
cementava l’alleanza atlantica. (...) Scomparso il pericolo comune sovietico
e, allo stesso tempo, approfondita la dimensione integrativa dell’Unione con
la nascita dell’euro e lo sviluppo dei due ‘pilastri’ (sicurezza interna
ed esterna), l’Europa è diventata, per forza di cose, non solo un partner
degli Stati Uniti, ma anche un concorrente. (...) Oggi l’Ue è atttraversata
da una nuova linea di frattura, definita dalla relazione con gli Stati Uniti”.
E l’articolo proseguiva, venendo alle vicende della Conferenza
intergovernativa: “Proprio perché si stanno disegnando nuove alleanze e nuove
gerarchie nello scacchiere mondiale, Spagna e Polonia, capifila dei
filo-americani ad oltranza, hanno avuto la forza di opporsi agli altri 23 paesi.
(...) La conduzione dei lavori dimostra come il governo italiano avesse
preventivato anche un esito negativo, non necessariamente ‘sotto-ordinato’
rispetto a quello ufficiale. Al punto da far pensare che l’obiettivo primario
di Berlusconi non fosse la firma della convenzione ma il
mantenimento/rafforzamento di buoni rapporti con gli alleati della cordata
pro-americana, anche a costo di far fallire la trattativa”. [10]
Questa era quindi la situazione a fine dicembre 2003: la
Costituzione europea non ratificata, e la prospettiva di un lungo stallo
istituzionale (prospettiva che sarebbe poi stata messa in discussione
dalla sconfitta di Aznar in Spagna, nel marzo successivo). Una gioia per i
neoconservatori americani, e un vero guaio per chi propugnava l’unità
europea.
Che la mancata ratifica del dicembre 2003 abbia rappresentato
un gradito regalo per gli Usa e per i loro ascari europei, è un fatto. È
altrettanto vero, però, che i limiti del progetto di Costituzione non erano (e
non sono) né pochi, né di poco conto. Questo aspetto è di grande importanza,
perché dalla sua comprensione dipende in misura non piccola la possibilità di
perseguire con efficacia la costruzione dell’Europa che vorremmo - e che oggi,
come abbiamo visto, non c’è.
[1] Vedi R. Martufi, L. Vasapollo, “Povero atipico...
tipicamente povero”, in Proteo, n. 1/2004, pp. 3-19.
[2] Questi
Paesi sono: Danimarca, Italia, Portogallo, Regno Unito, Spagna, Lituania,
Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria. Non si tratta quindi soltanto
dei Paesi della “nuova Europa” cari a Rumsfeld: i primi 5 di essi infatti
fanno parte dell’Europa a 15.
[i] “Una scommessa vinta dall’Europa”,
intervista a R.A. Mundell, il Sole 24 Ore, 2 gennaio 2003.
[3] Le due affermazioni sono tratte da un’intervista contenuta nel
libro Europa al bivio di Piero Badaloni (Portalupi Editore, 2004).
[4] B. Tamiso, “L’euro scavalca anche lo yen. La corsa
potrebbe continuare”, Borsa & Finanza, 26 aprile 2003. Va notato che
queste dichiarazione sono state rilasciate prima che l’euro toccasse i
massimi sul dollaro.
[5] Dati resi noti dalla Banca Centrale
Europea il 24 febbraio 2003.
[6] Nel 2001 M. Sturm, un ricercatore della Banca Centrale Europea,
osservava: i Paesi del Medio Oriente e del Nord Africa sono tra i Paesi “nei
quali probabilmente il ruolo internazionale dell’euro crescerà più
rapidamente ed estesamente. Già oggi l’euro gioca in molti di questi
Paesi un ruolo preminente per la determinazione dei tassi di cambio come riserva
in valuta straniera”; per questo motivo “l’Europa sarebbe maggiormente
colpita da crisi politiche ed economiche in Medio Oriente di quanto lo
sarebbero, per esempio, gli USA” (“The Middle East and Northern Africa as
Part of the ‘Euro Time Zone’”, EUI Working Paper, Badia Fiesolana,
novembre 2001, pp. 5 sgg.).
[7] Un’esame più dettagliato dei motivi della guerra all’Irak
è contenuto in alcuni miei articoli: “Irak: una guerra e i suoi perché”,
la Contraddizione, n. 93, 6/2002; “La debolezza della forza. L’imperialismo
americano e i suoi problemi”, ne Il piano inclinato del capitale, a
cura di L. Vasapollo, Milano, Jaca Book, 2003, pp. 167-190.
[8] Anche se la Cerretelli, curiosamente, addebitava la cosa al “pacifismo
franco-tedesco” [sic!].
[9] R. Menichini, “Usa, il manifesto
anti Ue: ‘Fermiamo il Superstato’”, la Repubblica, 19 settembre
2003.
[10] P. Ignazi, “Nascono
oltre l’Atlantico le divisioni esplose alla Cig”, il Sole 24 ore, 17
dicembre 2003.