La resistenza nel Terzo mondo e la solidarietà degli intellettuali occidentali
James Petras
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Falluya, Bagdad, Ramadi - tutto un popolo si è alzato per
affrontare l’esercito di occupazione coloniale, i suoi mercenari, lacchè e
collaboratori. Durante pacifiche proteste di massa, sono stati massacrati dalle
truppe degli Stati Uniti, della Gran Bretagna, della Spagna e della Polonia: non
avevano altre armi oltre alle proprie mani, contro i blindati e le
mitragliatrici. All’inizio, la resistenza armata era una minoranza, oggi,
indiscutibilmente, è la maggiore forza popolare, sostenuta da milioni di
persone. Gli eserciti coloniali, temono ogni iracheno, sparano contro la folla e
si ritirano, accerchiano intere città, lanciano missili in zone piene di
lavoratori, gli elicotteri scaricano le mitragliatrici sulle case, le fabbriche
e le moschee... agli occhi dei soldati coloniali il nemico è ovunque. Solo che
questa volta hanno ragione. La resistenza resiste: si spara in ogni blocco di
case, in ogni singola casa, nelle zone commerciali, la resistenza è ovunque.
Ogni edificio viene bombardato, la resistenza non diminuisce. Il popolo aiuta i
combattenti colpiti, gli lava le ferite. Procura l’acqua agli assetati - per
rinfrescarsi la gola e le mani - perché le armi automatiche sono incandescenti.
E dove sono i mercenari occidentali? Quelli affittati a 1.000 dollari al giorno,
con i giubbetti antiproiettile, gli occhiali scuri - con la loro protervia e la
loro insolenza? Sono scomparsi. Si sono accorti che i proiettili colpiscono
anche i loro ex compagni di morte. Centinaia di iracheni sono stati assassinati,
migliaia sono stati feriti, molti altri dovranno morire, però dopo ogni singolo
funerale, altre decine di migliaia di persone pacifiche, apolitiche, quelli “aspetta
e spera”, raccoglieranno le armi dei caduti.
“È una guerra civile” grida la stampa borghese. Un pio
desiderio. Gli shiiti e i sunniti combattono insieme, fratelli e sorelle (sì,
ci sono donne tra i combattenti) coprono le spalle dei compagni che affrontano i
blindati. E la resistenza sta vincendo. Dimentichiamoci delle “proporzioni”
cinque, dieci o venti per ogni soldato coloniale. La resistenza irachena sta
vincendo politicamente. Nessun collaboratore ufficialmente designato ha un
futuro: sopravvivono finché restano i militari americani, ma verranno cacciati
non appena l’esercito invasore si ritirerà. Militarmente, i nord americani
stanno subendo centinaia di perdite, decine di morti e feriti per ogni giorno di
combattimento. A Washington i civili militaristi, gli architetti della
distruzione dell’Iraq sono nel panico. “Si devono inviare altre truppe”
dicono Rumsfeld, Wolfowitz e il candidato alla presidenza, Kerry. Dal suo ranch
nel Texas, Bush proclama che il capo della resistenza Mogtada Sadr è un “assassino”.
Lontano dal fuoco, dai contrattempi, dai massacri, la sua televisione non mostra
il bambino con il viso distrutto. Bush, ancora una volta, resta lontano dai
campi di morte -prima il Vietnam e ora l’Iraq. Ora deve sollecitare un
pagherò - è lui il presidente che ha unilateralmente dichiarato la fine della
guerra a maggio del 2003. Ora, primavera 2004, ci sono più di 600 soldati
nordamericani morti, mentre la resistenza irachena si alza per affrontare la
spacconata di “Bring them on” (civilizzateli) e conquista una strada
per volta; continuano ad avanzare e conquistano le città e restano sul
territorio con coraggio e determinazione.
Gli arabi resistono mentre Sharon tace. I suoi agenti - una
volta loquaci- Wolfowitz, Feith, Abrams e i suoi scudieri, sono stranamente
silenziosi. Sono preoccupati che ci sia una rivolta di massa contro chi ha
manipolato l’informazione per appoggiare gli Stati Uniti in una guerra nella
quale migliaia di soldati nordamericani moriranno o resteranno invalidi, per “proteggere”
Israele nelle sue pretese di dominio sul Medio Oriente.
All’inizio della primavera di quest’anno, 2004, in aprile
per essere più precisi, i sogni di un nuovo impero coloniale si sono infranti
davanti a chi sosteneva un Nuovo Ordine Mondiale, un impero indiscusso e
unilaterale. La fine del sogno degli Sharon - Wolfowitz - Blair - Cheney di una
“Greater Mid-East Co-Prosperity Sphere”. La resistenza irachena ha
trasformato il sogno di Rumsfeld-Wolfowitz di una serie di guerre contro Siria,
Iran, Cuba e Corea del Nord, in un incubo di sanguinosi scontri nelle strade di
Falluya e di Bagdad. L’eroismo, il valore, l’ispirazione, la resistenza di
massa, sono in continua crescita man mano che il popolo iracheno sviluppa le
proprie risorse, la propria solidarietà, la propria storia, il convincimento
che saranno liberi e che cacceranno ogni soldato coloniale, combattendo fino
alla morte. La frase “Patria o Muerte” assume, in Iraq, un significato
speciale molto concreto: non è lo slogan di un leader, di un’avanguardia, per
spingere e ispirare il popolo, è piuttosto la pratica di tutta la popolazione.
Patria o Morte esce dalla gola degli adolescenti che combattono nelle strade,
dei venditori ambulanti, delle vedove vestite di nero. I “giorni della
primavera irachena” sono una lezione per tutto il Terzo Mondo e per chi aspira
a diventare una potenza imperialista: la resistenza armata di massa non può
essere sconfitta né politicamente né militarmente. L’eroismo della
resistenza irachena si erge in fiero contrasto con l’abituale codardia dei
leaders arabi: i monarchi dell’Arabia Saudita e della Giordania, il loquace e
corrotto “presidente a vita” Mubarak, i collaboratori dell’Ayatollah
iraniano. Nessuno di loro ha mosso un dito per aiutare la lotta di liberazione
irachena. Temono che l’esempio di una resistenza irachena trionfante accenda
il fuoco sotto i loro ampi sederi.
E gli intellettuali occidentali? Da quando è iniziata la
resistenza è passato un anno... non un solo intellettuale nordamericano, tra le
dozzine di pensatori critici e progressisti (Not in my name) ha osato dichiarare
la propria solidarietà con la lotta anticoloniale. Hanno “problemi”, ho
sentito dire, “ad appoggiare il fondamentalismo arabo, i terroristi, l’antisemitismo
ecc....”. Echi degli intellettuali francesi che si opposero ai movimenti di
resistenza armata popolare contro i nazisti perché “i comunisti se ne
sarebbero appropriati” o, più tardi, perché anche “i coloni” avevano “diritto
a stare in Algeria” (Albert Camus). Nel suo libro Listen Yankee, C.
Wright Mills sfidava i “progressisti” statunitensi che, all’inizio degli
anni ‘60, vacillavano nell’appoggiare la Rivoluzione Cubana. “Questa è
una vera rivoluzione popolare fatta di coraggio e sangue”, diceva. “Potete
scegliere, potete far parte della soluzione o far parte del problema”.
Gli intellettuali occidentali fanno parte del problema. Non
comandano le truppe e né loro e tanto meno i loro figli o i loro nipoti,
premono il grilletto delle armi che uccidono gli studenti iracheni. Non fanno
nulla. “Ma”, dicono, “noi siamo contro la guerra” e intanto si danno da
fare ad appoggiare il candidato Kerry che sostiene la guerra e che anzi chiede
che vengano inviati altri 40.000 soldati per lanciare missili sui quartieri, per
sicurezza sotto il comando delle Nazioni Unite. Allora dove sono gli
intellettuali occidentali in questi giorni in cui il popolo iracheno ha preso le
armi per resistere contro il Frankestein nordamericano? Ci sono due
schieramenti: una nazione intera che lotta contro un esercito di occupazione
coloniale e l’imperialismo statunitense. Gli intellettuali seri e
politicamente conseguenti devono fare una scelta. Evitare di scegliere equivale
ad una complicità, la soddisfazione intellettuale è un lusso per gli
intellettuali dell’impero. Non esiste in Iraq. Durante l’occupazione sono
stati uccisi più di 1000 tra intellettuali e professori. Non si tratta di
problemi complessi o oscuri. Una parte esige libere elezioni, libertà di stampa
e il diritto all’autodeterminazione, mentre l’altra parte, quella dei
funzionari coloniali, chiude i giornali, sostiene dei fantocci al governo e
assassina gli oppositori.
La paralisi degli intellettuali nordamericani, la loro
incapacità ad esprimere solidarietà alla resistenza irachena, è un problema
che affligge tutti gli intellettuali “di sinistra” dei paesi coloniali.
Hanno paura del problema (la guerra coloniale) e hanno paura della soluzione (la
liberazione nazionale). Alla fine, le comodità e le libertà di cui godono, il
plauso che ricevono nella patria coloniale, hanno più peso dei costi di una
diretta dichiarazione di appoggio ai movimenti rivoluzionari di liberazione.
Ricorrono a sciocchezze come le “equivalenze morali”, contro la guerra e
contro i “fondamentalisti”, i “terroristi”, “chiunque” si impegni
per la propria auto-emancipazione e non prestano la giusta attenzione a chi si
autoproclama guardiano dei Valori Democratici Occidentali. Non è difficile
comprendere la mancanza di solidarietà con i movimenti di liberazione da parte
degli intellettuali progressisti occidentali dei paesi imperialisti: anche loro
sono stati colonizzati, mentalmente e materialmente.
Dal 4 aprile del 2004, migliaia di persone umili in Iraq
stanno dando una lezione pratica di solidarietà a questi eruditi occidentali.
Tra i minacciosi blindati e gli elicotteri armati, in migliaia hanno marciato da
Bagdad a Falluya, per portare cibo e medicine a quelli che stanno combattendo,
assediati in una città che sarà ricordata per sempre come la culla dell’emancipazione.
Ne prenderanno nota i nostri intellettuali? Possono almeno far circolare un
manifesto “In nostro nome”, di solidarietà con la resistenza irachena? Nel
frattempo, in Iraq la resistenza popolare combatte contro gli eserciti di
occupazione, ben nutriti e superbamente equipaggiati. Non chiedono se i loro
vicini, i loro amici o compagni siano sunniti, laici, shiiti, del partito Baath
o comunisti, non si fanno da parte quando viene colpita una moschea, una scuola
o un palazzo... hanno giurato di lottare, di unirsi in un movimento nazionale
per cacciare l’invasore, i ladri di petrolio, gli assassini vicini e lontani.
È un peccato, più per loro stessi che non per l’eventuale
contributo materiale che avrebbero potuto portare a questa lotta storica, che
gli intellettuali progressisti degli Stati Uniti abbiano deciso di astenersi
dimostrando così, ancora una volta, l’irrilevanza degli intellettuali
occidentali nella lotta per la liberazione del Terzo Mondo.