Dalla padella nella brace. La Costituzione di Sua Maestà e le conseguenze per i lavoratori
Vladimiro Giacché
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1. La confessione di Jack
Nel luglio scorso l’Economist ha ospitato una
interessante polemica. In risposta ad un editoriale molto severo nei confronti
della “Costituzione” europea appena approvata dai rappresentanti dei 25
Stati membri dell’Unione Europea, il ministro degli esteri britannico Jack
Straw ha preso a sua volta carta e penna. E ha messo nero su bianco i motivi per
i quali a suo avviso non è il caso di attaccare questo Trattato [i]. Ecco i principali.
Primo: “con la Costituzione finisce nel dimenticatoio ogni
presunzione che l’Unione Europea sia un superstato federale”. Sono gli Stati
che le “conferiscono competenze (poteri) per conseguire obiettivi che hanno in
comune”. Le competenze non conferite restano quindi nazionali. Tant’è vero
che “per la prima volta è anche delineata una procedura attraverso cui ogni
Stato membro può uscire dall’Unione”.
Secondo. “La reputazione dell’Unione Europea ha sofferto
in passato per il fatto che l’uso e il trasferimento dei poteri sono apparsi
come un percorso irreversibile. Nella Costituzione ci sono innovazioni che lo
rendono reversibile. Alcune competenze condivise (o parte di esse) possono
essere ritrasferite agli Stati membri (art. 11). Ed ai parlamenti nazionali è
attribuito il compito di accertare la compatibilità [dei poteri esercitati a
livello Comunitario] con il principio di sussidiarietà” (secondo il quale all’Unione
spettano soltanto compiti che non possano essere efficacemente svolti dagli
Stati membri). “In base alle nuove disposizioni tutte le proposte di legge
comunitarie debbono essere notificate singolarmente a tutti i parlamenti
nazionali, che hanno sei settimane di tempo per esprimere il loro parere. Se un
terzo dei parlamenti solleva obiezioni, la Commissione deve ‘rivedere’ la
proposta”.
Terzo: la creazione di un Presidente del Consiglio europeo
(il consesso dei Capi del governo degli Stati membri), che resta in carica ben
oltre i 6 mesi previsti dalla rotazione tra Capi di governo sinora in vigore.
Questo, dice Straw, significa “restituire potere agli Stati membri”. Si
tratta infatti di una Presidenza che va ad affiancarsi a quella del Presidente
della Commissione: in tal modo viene enfatizzata l’importanza della
concertazione tra gli Stati membri e diminuita quella della Commissione Europea.
E Straw può rivendicare che “si tratta di una proposta britannica”, e che
essa è passata.
E veniamo così al quarto e ultimo argomento: “degli 80
blocchi di emendamenti al testo della Costituzione sui quali la conferenza
intergovernativa ha trovato l’intesa, 39 erano stati proposti dalla Gran
Bretagna. Abbiamo raggiunto ogni singolo obiettivo che ci eravamo proposti nel
libro bianco dello scorso settembre” [1].
Come è noto, Jack Straw è un bugiardo. Al pari del premier
inglese Blair (nonché ex-illustre esponente del defunto “Ulivo mondiale”
caro ai vaneggiamenti di D’Alema e Amato), ha raccontato ai suoi connazionali
e al mondo intero un mucchio di bugie: a cominciare dalle presunte “armi di
distruzione di massa” in possesso di Saddam che avrebbero minacciato “entro
45 minuti” la Gran Bretagna. Questa volta, però, non mente. Ha perfettamente
ragione a sostenere che la “Costituzione” europea contiene le cose viste
sopra. E dice il vero anche quando sostiene che la Gran Bretagna ha ottenuto
tutto quanto si prefiggeva. Precisamente per questi motivi la “Costituzione”
europea va valutata molto negativamente.
2. Le “incompetenze” dell’Unione
Abbiamo detto che Jack lo Squartatore (ci si consentirà di
chiamarlo così in omaggio alle “gesta” in Irak dei soldati di Sua Maestà,
ed alle sue stesse prodezze a Bruxelles) questa volta ha detto il vero. E in
effetti ha detto la verità. Però non tutta la verità (suvvia, adesso
non esageriamo con le pretese!). Ad esempio, non ha detto ai lettori dell’Economist
su cosa vertessero i 39 emendamenti alla bozza di Costituzione sui quali il
governo inglese ha tanto insistito da condizionare ad essi la propria adesione
alla Costituzione stessa. Che i lettori dell’Economist restino nell’ignoranza
a questo riguardo, non è un gran problema. È invece utile che i lavoratori che
leggono Proteo queste cose le sappiano. Perché li riguardano
direttamente.
Proviamo quindi a ripercorrere le prime parti della “Costituzione”,
fermandoci in particolare sui cambiamenti apportati nella stesura finale
rispetto a quella (già deprimente) del giugno 2003.
“L’Unione si adopera per lo sviluppo sostenibile dell’Europa,
basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi,
su un’economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena
occupazione e al progresso sociale, e su un elevato livello di tutela e di
miglioramento della qualità dell’ambiente” (Art. I-3, § 3). Si può notare
che l’obiettivo della lotta all’inflazione, ossessione dei banchieri
centrali dell’ex area del marco, è costituzionalizzato, e addirittura
inserito prima dell’intenzione di giungere alla “piena occupazione” (senza
peraltro accennare alla qualità dell’occupazione stessa) [2].
Del resto, per capire con quale serietà l’Unione Europea
intende battersi per l’occupazione, basta prendere l’art. I-11, § 3. Nella
prima versione esso recitava come segue: “L’Unione ha competenza per
promuovere le politiche economiche e dell’occupazione degli Stati membri e
assicurarne il coordinamento”. Dopo le coltellate di Jack lo Squartatore è
diventato: “gli Stati membri coordinano le loro politiche economiche e dell’occupazione
secondo le modalità esposte nella parte III [del Trattato], per la definizione
delle quali l’Unione dispone di una competenza”; per chi non avesse capito l’antifona,
provvede il § 5 dello stesso articolo: “gli atti giuridici obbligatori dell’Unione
adottati sulla base delle disposizioni della parte III... non possono
comportare l’armonizzazione delle disposizioni legislative e regolamentari
degli Stati membri”.
In questo modo all’interno del Trattato si determina una
fondamentale asimmetria tra diversi aspetti della politica economica. Dove
gli aspetti che sono lasciati alla discrezione dei diversi Stati membri sono,
guarda caso, proprio quelli che riguardano la politica sociale e dell’impiego.
È in assoluto la soluzione peggiore.
Infatti, da un lato l’Unione ha una “competenza esclusiva”
(ossia sottratta agli Stati membri) per quanto riguarda “l’unione
doganale, le regole della concorrenza necessarie al funzionamento del mercato
interno, la politica monetaria dei Paesi che hanno adottato l’euro, la
politica commerciale comune” (art. I-12). Non ha invece competenza esclusiva
sulla politica sociale. Questo in concreto significa che nessuno Stato membro
può mettere dei dazi all’importazione per colpire la concorrenza dei prodotti
di altri Paesi dell’Unione; ogni Stato membro può invece far sì che le
proprie imprese abbassino gli standard di protezione dei lavoratori per
abbassare i costi e colpire la concorrenza dei prodotti di altri Paesi dell’Unione [3]. Bello, no?
3. La Carta (straccia) dei diritti
L’argomento principe dei sostenitori della progressività
della “Carta costituzionale” europea è rappresentato dalla “Carta dei
diritti fondamentali dell’Unione”. Stipulata per la prima volta a Nizza,
essa è ora per la prima volta inserita a pieno titolo in un Trattato. A parte
alcune curiose particolarità (come l’affiancamento del concetto di “libertà”
a quello di “sicurezza” - ma è il segno dei tempi...) [4], è sicuramente un testo garbato e ben scritto. Contiene articoli
che saremmo lieti di vedere applicati nel nostro Paese (“la libertà dei media
e il loro pluralismo sono rispettati”: art. II-11, § 2), articoli di
contenuto prevedibile (“è riconosciuta la libertà d’impresa”, art.
II-16), altri di contenuto piuttosto enigmatico (come il “diritto di sposarsi”
di cui all’art. II-9), ed altri - infine - decisamente più interessanti: la
libertà di associazione in campo politico e sindacale (art. II-12), il diritto
all’istruzione e alla formazione professionale e continua (art. II-14), il
divieto della discriminazione fondata sulla cittadinanza (art. II-21), il
diritto dei lavoratori all’informazione e alla consultazione nell’ambito
dell’impresa (art. II-27), il diritto di sciopero (art. II-28), il diritto a
condizioni di lavoro giuste ed eque (art. II-31), il divieto del lavoro minorile
(art. II-32), il diritto alla sicurezza sociale e all’assistenza sociale (art.
II-34), nonché alla protezione della salute (art. II-35). Il bello, ci dicono
gli estimatori della “Costituzione”, è che questi enunciati così attraenti
sono ora costituzionalizzati e resi vincolanti!
Purtroppo, però, le cose non stanno così. E per diversi
motivi. Intanto, anche in questo caso è intervenuto Jack lo Squartatore. Non
pesantemente, a dire il vero: la Carta è stata infatti inserita nel Trattato
senza mutamenti di contenuto. La qual cosa impensieriva non poco il governo
inglese, preoccupato che i diritti in essa contenuta potessero “creare nuovi
diritti” o addirittura (orrore!) essere utilizzati “per rovesciare le
riforme del mercato del lavoro dell’èra Thatcher” [i]. Detto fatto. Una volta
constatato che era impossibile bloccare l’inserimento nel trattato di questa
“Carta”, Jack si è adoperato per privare tale inserimento di ogni
efficacia. Lo ha fatto in due tappe: in primo luogo, imponendo una dichiarazione
“a carattere esplicativo” secondo cui la carta dei diritti si applica “agli
Stati membri solo nella misura in cui essi stanno applicando leggi dell’Unione”.
In secondo luogo, facendo inserire nell’art. II-52 un paragrafo aggiuntivo (il
§ 7): “i giudici dell’Unione e degli Stati membri tengono nel debito conto
le spiegazioni elaborate al fine di fornire orientamenti per l’interpretazione
della Carta dei diritti fondamentali” [5].
Ecco fatto: ora, dal momento che “la Carta sarà interpretata dai giudici dell’Unione
e degli Stati membri alla luce delle spiegazioni elaborate sotto l’autorità
del Presidium della Convenzione che ha redatto la Carta e aggiornate sotto la
responsabilità del Presidium della Convenzione europea” (Preambolo alla parte
II del Trattato), sarà facile rendere praticamente inefficaci molti dei
diritti solennemente enunciati.
E l’aspetto da sottolineare è che la “Costituzione”
europea in questo modo viene a costituire un passo indietro rispetto all’applicazione
della Carta dei diritti: infatti, mentre in precedenza la Corte di giustizia
europea aveva cominciato ad emanare sentenze ispirate alla Carta stessa, ora
sarà vincolata a giudicare soltanto nei casi in cui gli Stati non
ottemperino alla carta mentre applicano normative europee. Quindi non nei
casi, sottratti alla competenza europea, che riguardano le politiche sociali e
la protezione dei lavoratori!
Complimenti alla gang di Tony & Jack. Però sarebbe
ingeneroso prendersela solo con loro. Perché in fondo non hanno fatto altro che
condurre alle estreme conseguenze un aspetto di fondo del Trattato (e dell’intera
costruzione giuridica europea come si è andata costruendo nel corso dei
decenni): quello per cui da un lato ci sono i “diritti”,
astrattamente e pomposamente dichiarati nella loro universalità, dall’altro
ci sono le politiche concrete dell’Unione. Queste ultime (esposte in
dettaglio nella parte III del Trattato) sono imperniate attorno ai dogmi della
“libera concorrenza” e della priorità assoluta del “Dio mercato”, e quindi
di necessità escludono l’applicabilità concreta di molti dei presunti
“diritti inalienabili”.
4. Il capitalismo reale in salsa europea
Con la parte III del Trattato (“Le politiche e il
funzionamento dell’Unione”) si scende dall’empireo dei sacri principi al
ben più prosaico e volgare terreno della vita concreta. Questo è chiaro fin da
subito. E lo stesso testo dell’art. III-2 bis, che vorrebbe essere
rassicurante, in realtà ci preoccupa. Il suo testo recita così: “Nella
definizione e nell’attuazione delle politiche e azioni di cui alla presente
Parte, l’Unione tiene conto delle esigenze connesse con la promozione di un
livello di occupazione elevato, la garanzia di una protezione sociale adeguata,
la lotta contro l’esclusione sociale e un livello elevato di istruzione,
formazione e tutela della salute umana”. Il significato che percepiamo è
questo: “Perdete ogni speranza, o voi che entrate! Eccovi nel regno dell’Economia
Capitalistica e delle sue leggi! Nell’applicare queste leggi alla lettera e
nel porle come fini della nostra azione, si tenterà di ‘tener conto’ anche
di esigenze di carattere sociale. Ma sapete come vanno queste cose: si prova, si
vorrebbe fare di più, ma il Mercato ha le sue dure necessità...”.
Del resto, è sufficiente prendere anche solo
superficialmente in esame il Trattato per accorgersi di come il testo, che in
generale procede spedito, cominci ad incespicare in tutti i casi in cui si
affrontano tematiche socialmente significative. Così, gli articoli sulla “libera
circolazione delle merci” filano via spediti che è un piacere. Per quanto
riguarda i lavoratori, invece, le cose vanno in maniera ben diversa: se
formalmente essi “hanno il diritto di circolare liberamente all’interno dell’Unione”
(III-18, § 1) e di non essere discriminati sulla base della nazionalità “per
quanto riguarda l’impiego, la retribuzione e le altre condizioni di lavoro”
(§ 2), già il § 4 dello stesso articolo ci dice che questo “non si applica
agli impieghi nella pubblica amministrazione”. E, più in generale, come
sappiamo, questo articolo non si applica ai cittadini europei dei 10 nuovi Paesi
membri dell’Unione. Formalmente, a causa del rischio di un’ondata migratoria
verso i Paesi della Vecchia Europa (rischio smentito anche da una ricerca della
Commissione UE). In realtà, per consentire alle imprese europee di
delocalizzare i propri impianti di produzione nei Paesi di recente ingresso nell’Unione,
nei quali il costo della forza-lavoro è più basso e le garanzie sindacali
assenti [6]. Il tutto, alla faccia della
Carta dei diritti...
A questo proposito è utile riproporre un caso concreto,
raccontato da lavoratori della Ronal France che hanno deciso di cercare un
incontro con i loro colleghi della fabbrica polacca dove era stata delocalizzata
la produzione. Ecco come è andata: “Siamo arrivati di fronte alla fabbrica e
abbiamo trovato ad accoglierci delle milizie private. Avevano i manganelli. Non
abbiamo mai potuto avvicinarci a più di 80 metri dalla fabbrica. Abbiamo
cercato di distribuire dei volantini, verso le 14, al cambio di turno. Ma solo
quelli che andavano a casa li hanno presi: quelli che entravano li hanno
rifiutati. Due o tre li hanno presi, ma sono stati subito perquisiti dai
vigilantes. Nella fabbrica l’avvocato ci aveva detto che c’erano più di
1000 operai, ma abbiamo aspettato fino alle 15,30 e ne abbiamo visto molto
pochi. Li avevano trattenuti all’interno con la scusa che c’era una
riunione. In sostanza la gente non ha potuto essere informata, i volantini sono
stati strappati... Quello che abbiamo visto è che in Polonia c’è la
dittatura a livello di impresa. Come è possibile che lo stato polacco, che è
nella UE, permetta a dei vigilantes armati di fare la guardia alle fabbriche? In
Francia questo non è legale, come non sono legali i colpi di manganello ai
cancelli” [7].
5. Concorrenza al ribasso nelle politiche sociali
Riprendendo la lettura della parte III del Trattato anche
alla luce della testimonianza che abbiamo appena visto, acquisiamo nuovi
elementi su come vanno concretamente declinati i solenni impegni proposti nelle
parti precedenti del Trattato. Così, nel primo degli articoli dedicati all’occupazione,
l’“impegno” comunitario a favore dell’occupazione è così specificato:
“in particolare a favore della promozione di una forza lavoro competente,
qualificata e flessibile [susceptible de s’adapter], come pure di
mercati del lavoro in grado di reagire rapidamente ai mutamenti economici”
(III-97). E comunque - manco a dirlo - resta fermo che l’Unione “rispetta
pienamente le competenze degli Stati membri in materia” (III-99, § 1).
Addirittura esilarante, poi, la lettura degli articoli
dedicati alla “Politica sociale”. Al riguardo si dice subito che “l’Unione
e gli Stati membri agiscono tenendo conto della diversità delle prassi
nazionali, in particolare nelle relazioni contrattuali [come quelle della
fabbrica polacca riportato più sopra... N.d.R.], e della necessità di
mantenere la competitività dell’economia dell’Unione” (art. III-103, §
2). L’articolo successivo enuncia i settori della politica sociale in cui l’Unione
“sostiene e completa l’azione degli Stati membri” (art. III-104, §1). A
tale riguardo la “legge quadro europea può stabilire le prescrizioni minime
applicabili progressivamente”. Seguono subito le limitazioni. Primo: la legge
deve “tener conto [?] delle condizioni e delle normative tecniche [?]
esistenti in ciascuno Stato membro”. Secondo: deve evitare “di imporre
vincoli amministrativi, finanziari e giuridici di natura tale da ostacolare la
creazione e lo sviluppo di piccole e medie imprese” (§ 2, b). Terzo: nelle
materie che riguardano “sicurezza sociale e protezione sociale dei lavoratori,
protezione dei lavoratori in caso di risoluzione del contratto di lavoro,
rappresentanza e difesa collettiva degli interessi dei lavoratori e dei datori
di lavoro, condizioni di impiego dei cittadini di paesi terzi che soggiornano
legalmente nel territorio dell’Unione”, la legge quadro europea può essere
approvata soltanto all’unanimità dei componenti il Consiglio europeo (§ 3).
Come ho già avuto modo di sottolineare in un precedente contributo su questi
argomenti, la regola dell’unanimità per le politiche sociali (così come, del
resto, per la fiscalità) comporta necessariamente la paralisi delle
decisioni e il concreto posizionarsi dello standard di protezione sociale
al livello più basso (forzato dagli Stati che promuoveranno azioni di dumping
sociale, ossia utilizzeranno bassi livelli di protezione sociale come fattore
competitivo) [8].
Il quadro appare già di per sé abbastanza disperante. Ma
anche in questo caso a Jack lo Squartatore non bastava. Perciò durante la
Conferenza intergovernativa ha fatto mettere a verbale la seguente dichiarazione
sulle politiche sociali (con specifico riferimento all’occupazione, alle
condizioni di lavoro, alla formazione, alla previdenza sociale, alla protezione
contro gli infortuni e le malattie professionali, all’igiene del lavoro ed al
diritto sindacale): tali politiche “sono essenzialmente di competenza degli
Stati membri. Le misure di incoraggiamento e di coordinamento da adottare a
livello d’Unione... hanno carattere complementare. Esse mirano a rafforzare la
cooperazione tra gli Stati membri e non ad armonizzare sistemi nazionali. Non
incidono sulle garanzie e gli usi esistenti in ciascuno Stato membro...”.
Morale: il padrone della Ronal Polonia può dormire sonni tranquilli. E farsi
due risate sull’articolo 7 della prima parte della “Costituzione” europea:
“L’Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta
dei diritti fondamentali che costituisce la parte II della Costituzione”.
6. Che fare?
O meglio: che farsene di questa “Costituzione”?
Secondo un’opinione piuttosto diffusa (purtroppo anche a sinistra),
bisognerebbe intanto accettarla così com’è, e poi cercare di cambiarla. Il
punto è che, ancora una volta grazie alla premiata ditta Tony & Jack, non
è facile neppure questo. Anzi, come ha detto un signore certamente non sospetto
di estremismo, “la Costituzione è stata ingessata. Non sarà facile farla
evolvere e adeguarla ai mutamenti politici perché potrà essere modificata solo
all’unanimità” [9].
E allora:
Perché accettare un testo così insoddisfacente sotto il
profilo della giustizia sociale e così arretrato anche rispetto alla
Costituzione italiana del 1948? Perché adattarsi ad una “Costituzione” che
nessun popolo ha voluto, nessuna Costituente ha scritto, ma che è stata
concepita e discussa in assenza di qualsivoglia dibattito pubblico, secondo
modalità a dir poco oligarchiche? Infine, perché subire un testo che accetta in
toto l’ideologia e la prassi liberistiche, che tanti danni hanno già
fatto ai lavoratori?
Già, perché?
[i] The
Economist, 10 luglio 2004.
[1] Nel settembre 2003 il governo inglese
aveva predisposto un Libro Bianco che conteneva modifiche, spesso di grande
importanza, alla bozza di Costituzione predisposta dalla cosiddetta “Convenzione
Giscard” e resa pubblica nel giugno 2003.
[2] Il tema
della stabilità dei prezzi torna nell’art. I-29, per cui il suo mantenimento
rappresenta “l’obiettivo principale del sistema europeo di banche centrali”;
l’enunciato è letteralmente ripetuto all’art. III-77.
[3] Lo
stesso discorso vale per le politiche fiscali, che pure hanno evidenti ricadute
sulle condizioni dei lavoratori. Vedi in proposito V. Giacché, “L’Europa
che non c’è”, in Proteo, 2/2004.
[4] Vedi Preambolo e
art. II-6.
[i] “A difficult
birth”, the Economist, 26 giugno 2004.
[5] È interessante notare che i “laburisti”
inglesi non si sono accontentati neppure del § 6, che nel suo testo (“si
tiene pienamente conto delle legislazioni e prassi nazionali”) già tutelava
non poco gli Stati meno desiderosi di attuare i diritti previsti dalla Carta.
[6] Al riguardo si veda J. Arriola, L. Vasapollo, La dolce maschera
dell’Europa. Per una critica delle politiche economiche neoliberiste, Milano,
Jaca Book, 2004, ed in particolare le pp. 47-108.
[7] Testimonianza raccolta da Anna Maria Merlo nel suo reportage “In
giro per l’Europa, cercando la fabbrica”, il manifesto, 29 giugno
2004.
[8] Cfr. V. Giacché, “L’Europa che non c’è”,
cit.
[9] R. Prodi, intervista a la Repubblica, 21 giugno
2004.