Si è molto parlato in questi mesi della dottrina Mitterand,
a proposito di Cesare Battisti, e molto se ne parlerà negli anni che verranno
per l’eccezione - come sospensione politica di norme giuridiche - che essa ha
costituito nella storia del diritto europeo. Non approfondirò l’argomento
avendone già parlato a sufficienza la stampa italiana e francese, ma per avere
un’idea della situazione bisognerà riflettere con estrema lucidità sull’idea
di asilo e su quella, conseguente, dell’esilio che l’affaire
“Battisti” ha suscitato.
Bisogna aver frequentato la comunità dei rifugiati italiani
a lungo, ormai quasi quindici anni, per determinare e configurare un nuovo
territorio, sospeso tra villaggio globale e locale - Lello Voce definiva, sull’Unità,
la nostra rivista Sud come esperimento di letteratura glocale - tra
frontiere immaginarie e confini reali.
In realtà, l’idea di asilo “politico” si accompagna a
quella di rifugio. Uno strano destino della parola in questione la fa viaggiare
attraverso l’asilo - scuola materna - e l’asile francese, che
è il manicomio. Nella nostra storia di novecento, chiedeva asilo chi era
perseguitato per motivi di opinione nel proprio paese, e che una volta ricevuto
lo statuto di “rifugiato” cominciava inevitabilmente un periodo di “esilio”
dal proprio paese. I compagni italiani, di mille storie diverse, a volte
intrecciate, accavallate, contrastanti, che dal 198O, anno di elezione a
presidente del socialista Mitterand, furono accolti in Francia, per l’Italia
non erano esuli e liberi di circolare altrove. Non avevano passaporto, ma carte
di soggiorno da rinnovare ogni tre mesi. Non potevano lasciare il territorio
francese e la loro posizione era più simile - ma dovrei usare il presente per
quelli che restano - al confino che non all’esilio. La nuova Europa, ma
dovremmo dire il nuovo Occidente, abbatte frontiere per creare “confino”, in
altri termini stampa “ponti” sulle sue banconote, creando muri e fossati per
chi quelle carte non ce l’ha.
Il dialogo che segue - non è un’intervista - è tra due
“esterifatti”. Uno, il cui esile esilio è legato ad una scelta obbligata di
libero destino, l’altra il cui esilio robusto è il frutto della libera scelta
di destino necessario. Ci accomuna la fuga, ed il punto di partenza. Ci separa l’impossibilità
del ritorno. Entrambi vorremmo che Cesare Battisti restasse in Francia, libero
nel confino.
Dal greco hieròn àsylon, tempio senza il diritto di
cattura, terribile millenaria saggezza.
E nelle chiese perfino gli assassini potevano trovare
ostello. Ti ricordi la storia di Rodrigo, e Fra’ Cristoforo. L’inetto Renzo
e lo scandalo Abbondio.
Designare un luogo dove si ferma il gioco, una “tana!”,
un respiro.
Immaginare un altro da sé. Altra storia. Come alla legione
straniera dove nessuno ti chiede la tua. Di Kafka amo l’America. Ci
sono due capitoli, in successione. Un asilo e Il teatro naturale di
Oklahoma. Nel primo il protagonista si salva dagli sbirri grazie ad uno dei
suoi aguzzini, Delamarche, e la prigione in cui si trova è appena meno angusta
di quella in cui sarebbe sbattuto se lo acciuffassero. Per la vecchia storia
dell’Hotel occidentale (il genio del praghese è tutto in questo nome). Nel
secondo, quello più luminoso che Kafka abbia mai scritto in tutta la sua vita,
Karl si trova sin dalla prima pagina di fronte al cartellone: “Oggi dalle sei
di mattina a mezzanotte, all’ippodromo di Clayton, viene assunto personale per
il teatro di Oklahoma! Il grande teatro di Oklahoma vi chiama! Vi chiama
solamente oggi, per una volta sola! Chi perde questa occasione la perde per
sempre! Chi pensa al proprio avvenire, è dei nostri. Tutti sono benvenuti! Chi
vuol diventare artista, si presenti! Noi siamo il Teatro che serve a ciascuno,
ognuno al proprio posto!”.
Così vorremmo a volte che fosse lo spazio dell’Hotel
Europa. E invece.
Questo spazio che cresce millimetrato di norme e controlli fa
paura. Fa paura che lo “spazio giudiziario” sia inventato ancor prima dello
spazio geografico.
Se gli “asilati” italiani sono pulviscolo della storia,
le masse migranti in Occidente sono valanghe variamente frenate dalla nuova più
larga frontiera, permesso di passaggio, foglio di via, denaro di transito,
biglietto di ritorno, autorizzazione di viaggio, di lavoro, di matrimonio, di
parola, di vita, di morte.
Per tutti, scelta di destino necessario.
Ma ormai ogni gesto ha la sua leggina, la sua deroga, il suo
controllo, il suo consenso sociale, il suo trasgredire e il suo punire.
E la tana?
Fuggiti in Africa, Algeri la bianca, senza sinistri islamisti
ma con segni di surrealismo socialista privi di gioia, occhi neri diffidenti,
prezzi politici per vendere mappamondi e uova introvabili. Un bus per il
deserto.
Lo si prende a un capolinea normale, potresti sentirti a
Napoli o a Catania. Biglietto, donne vocianti, bambini mocciolosi, un’oca
spunta da un paniere. Tutti seri a affrontare l’avventura del viaggio.
E presto il deserto comincia. Ci si è messo addosso come il
mantello dell’esiliato, sabbia e stelle e linee infinite. Pericolo infinito e
infinita protezione. Che ne sa un europeo di questa emozione?
Le categorie marxiste cigolano già nella prima notte. All’alba
sei un’altra persona. Più silenziosa, più silenziosa...