Rubrica
Eurobang. Il capitalismo italiano

Copyright - Gli articoli si possono diffondere liberamente citandone la fonte e inserendo un link all'articolo

Autore/i

Vladimiro Giacché
Articoli pubblicati
per Proteo (16)

Studioso di economia e politica economica

Argomenti correlati

Capitalismo italiano

Competizione globale

Economia

Nella stessa rubrica

L’impossibile concertazione. La crisi dell’Italia nella crisi economica internazionale
Vladimiro Giacché

Declino o crisi del capitale. Uno “spauracchio” contro il movimento dei lavoratori
Joseph Halevi

La crisi economica e il capitalismo italiano alla ricerca di una nuova identità
Federico Merola

 

Tutti gli articoli della rubrica "Eurobang"(in tutti i numeri di Proteo)


Home
Autori
Rubriche
Parole chiave

 

 

 

L’impossibile concertazione. La crisi dell’Italia nella crisi economica internazionale

Vladimiro Giacché

Formato per la stampa
Stampa

3. C’è Europa e Europa: e specificità del caso italiano

“- Come pensi di aumentare la produttività senza nuovi investimenti?

- Mi auguro con la tortura”

(da una vignetta di Massimo Bucchi, la Repubblica, 30 aprile 2004).

Chiunque in Italia legga la stampa (economica e non) tedesca deve confrontarsi con un autentico paradosso: in Germania il possibile fattore di crisi che è ritenuto più pericoloso è rappresentato dal rallentamento dell’economia cinese. Laddove la principale preoccupazione di padroni e padroncini nostrani è rappresentata dalla “concorrenza cinese” (spesso “scorretta”, sempre “temibile”).

Il paradosso è solo apparente. In effetti, non è chiaro se la Cina riuscirà a moderare la sua crescita impetuosa (attualmente del +9,7% rispetto allo scorso anno...) per evitare forti squilibri della sua economia. Se il rallentamento sarà brusco (e questo sembrano temere i grandi investitori istituzionali, che negli ultimi mesi stanno in parte dirigendo altrove il loro denaro), ne pagheranno il prezzo innanzitutto il Giappone e la Germania. Ossia i due paesi che hanno maggiormente beneficiato della crescita cinese, aumentando notevolmente le loro esportazioni in Cina [1].

Il modello di specializzazione della Germania, in particolare, focalizzato com’è su macchinario strumentale e beni di investimento ad elevato contenuto tecnologico (il 57% delle esportazioni tedesche è rappresentato da beni di investimento), ne fa un grande esportatore in paesi come la Cina. Più in generale, l’export tedesco cresce (+4,6% nei primi tre mesi del 2004): e cresce per l’appunto in Asia, ma anche negli Usa e nei paesi dell’est europeo. Oggi la Germania è tornata ad essere il paese che esporta di più in assoluto (62 miliardi di dollari di vendite all’estero nel 2003). Tutto questo nonostante l’euro forte. È utile riportare la spiegazione che di questo fenomeno dà un analista finanziario: “i prodotti tedeschi sono poco sensibili alle oscillazioni valutarie grazie alla loro qualità. La concorrenza è pochissima e paesi in così forte espansione come la Cina pagano volentieri un prezzo superiore pur di avere macchinari migliori” [2].

Del tutto diversamente vanno le cose da noi. Il nostro modello produttivo (retaggio di decenni di politiche economiche sbagliate, ma le cui conseguenze sono venute alla luce nella loro drammaticità soltanto negli ultimi anni) è centrato su aziende di piccola dimensione, forte su prodotti maturi, imperniato sul basso costo della forza-lavoro (costo nettamente inferiore alla media degli altri Paesi dell’Unione Europea a 15), [3] debole in tecnologia, ricerca, innovazione di prodotto.

In tal modo la nostra specializzazione produttiva tende nel complesso a posizionarsi precisamente là dove sono la Cina e i Paesi di nuova industrializzazione (come pure quelli di recente ingresso nell’Unione Europea). Per questo possiamo ritenere “temibile” la concorrenza dei prodotti cinesi anche nel nostro mercato interno. Per questo si è avuto negli ultimi anni un vero e proprio crollo del nostro export in Germania, dovuto non soltanto alla debolezza della domanda interna di quel Paese, ma anche - e soprattutto - al fatto che prodotti provenienti dai Paesi dell’Est europeo hanno sostituito quelli italiani.

Ho esposto analiticamente altrove i motivi di questa situazione. [4] Mi limito, perciò, a ricapitolarli per punti.

1) Le piccole e medie imprese

A lungo sono state considerate un modello di competizione unico al mondo, tale da farle ritenere una sorta di confutazione vivente dell’importanza delle economie di scala. La loro crisi attuale rende manifesto quali fossero i loro veri vantaggi competitivi: a) le svalutazioni periodiche della lira (sino al 1995), b) un’evasione fiscale senza confronti negli altri Paesi sviluppati, c) un basso costo della forza-lavoro.

Il destino di questi fattori è presto detto: a) le svalutazioni competitive non sono più possibili a seguito dell’introduzione dell’euro, b) l’evasione fiscale non può ulteriormente aumentare (in particolare dopo la vera e propria orgia di “condoni”, “concordati” e regalie varie promossi da Berlusconi...), c) il costo della forza-lavoro non è ulteriormente comprimibile (e già oggi comporta una crisi marcata della domanda interna di beni di consumo).

2) Le grandi imprese

Non si semplifica troppo se si dice che in Italia non ce ne sono quasi più. Nella classifica recentemente pubblicata da “Fortune” delle 500 più importanti multinazionali del mondo, soltanto 8 sono italiane. Tra esse troviamo una sola impresa manifatturiera (peraltro in crisi), ossia la Fiat, qualche azienda del settore bancario e assicurativo, una società di servizi come Telecom, e due imprese pubbliche come Eni e Enel. Fine.

Come si è arrivati a questo? I motivi sono più d’uno. Un ruolo decisivo hanno però giocato le privatizzazioni degli anni Novanta, realizzate soprattutto da governi di centro-sinistra. Esse hanno in sostanza consentito a capitalisti industriali in difficoltà (a causa della concorrenza internazionale) di trovare un porto sicuro nel meraviglioso mondo oligopolistico dei servizi pubblici privatizzati (mentre, circostanza degna di nota, le imprese manifatturiere privatizzate sono state invece quasi tutte acquisite da multinazionali straniere) [5].

Le privatizzazioni hanno quindi creato una situazione così sintetizzabile:

a) Hanno eliminato la necessità, per le grandi famiglie del capitalismo italiano, di coltivare i business tradizionali nei quali erano in difficoltà.

b) I monopoli a proprietà pubblica (per lo più monopoli naturali, cioè inerenti a servizi non liberalizzabili o non completamente liberalizzabili) sono divenuti monopoli a proprietà privata: in molti casi si è quindi avuto un aumento delle tariffe, senza un parallelo miglioramento dei servizi offerti [6].

c) Lo Stato ha perduto una leva importante di politica economica (non potendo, ad es., usare le tariffe in funzione anticiclica, per calmierare i prezzi, ecc: e infatti le tariffe dei servizi di pubblica utilità sono tra le principali cause dell’inflazione degli ultimi due anni).

d) I benefici per le finanze pubbliche sono risultati reali (oltre 220.000 miliardi di vecchie lire...), ma a carattere di una tantum e con effetti di breve periodo: nel lungo periodo lo Stato avrebbe incassato probabilmente di più qualora avesse quotato una quota di minoranza delle proprie società e si fosse limitato a riscuotere i relativi dividendi (e infatti proprio calcoli del genere hanno rallentato negli ultimi anni la privatizzazione dell’Enel).

e) Si è prodotto un effetto significativo nell’attrarre verso l’investimento azionario i risparmiatori italiani. Sarebbe facile ironizzare sul fatto che, soprattutto per quanto riguarda le ultime privatizzazioni, la cosa non è stata fonte di particolari soddisfazioni per i risparmiatori stessi (Enel, e ancor più Finmeccanica, quotano a tutt’oggi a valori molto inferiori a quelli ai quali sono stati collocati presso il pubblico).

f) Un effetto parimenti significativo si è avuto sulla capitalizzazione di Borsa e sui suoi volumi. Questo però non ha sortito l’effetto sperato di spingere più aziende private italiane alla quotazione. In un certo senso è avvenuto il contrario: non soltanto i “capitalisti familiari” italiani non hanno superato la loro naturale ritrosia nei confronti della quotazione, ma in diversi casi le imprese privatizzate, una volta comprate dalle grandi (o medie) famiglie del capitalismo italiano, sono state cancellate dal listino (emblematico il caso degli Aeroporti di Roma).

Poi è arrivato Berlusconi e ci ha messo del suo. Con il suo governo (una delle più riuscite incarnazioni recenti del “comitato d’affari della borghesia” di marxiana memoria), per quanto riguarda le residue società del comparto pubblico ha in qualche caso lasciato incancrenire alcune gravi situazioni di crisi (vedi Alitalia, di cui la Lega vorrebbe il fallimento, e di cui Forza Italia preferirebbe la svendita mascherata da commissariamento), in altri casi ha dato alle società pubbliche strategie assolutamente perdenti sul piano industriale (ma profittevoli nel consolidare l’asse con gli Usa del governo italiano). Emblematico il caso di Finmeccanica, che, proprio nel momento in cui va affermandosi un forte settore aerospaziale europeo, fa la scelta di buttarsi tra la braccia degli Usa: e quindi stringe rapporti con la Boeing e con la britannica BAE Systems (entrambe in cattive acque), propizia la vendita al Gruppo Carlyle della Fiat Avio, e si rifiuta di esercitare un’opzione di acquisto sulle azioni del colosso aerospaziale europeo Eads.

Se poi ci volgiamo alla situazione delle finanze pubbliche, è facile accorgersi del fatto che:

a) i condoni hanno aperto una vera e propria crisi fiscale dello Stato, derivante dall’assenza di gettito da parte di intere categorie;

b) il fisco non è mai stato così iniquo: di fatto sono ormai quasi soltanto i lavoratori dipendenti a sostenere il peso della fiscalità, e sempre più sosterranno anche il peso dei tagli agli Enti Locali, direttamente (cioè pagando imposte regionali e comunali più onerose) o indirettamente (attraverso l’aumento delle tariffe dei servizi pubblici);

c) le cartolarizzazioni degli immobili pubblici hanno ottenuto benefici di breve periodo (comunque inutili a tamponare le falle apertesi nelle finanze pubbliche) in cambio di maggiori spese future;

d) il deficit ha ripreso a correre;

e) da ultimo, il debito pubblico dell’Italia è stato declassato dall’agenzia di rating Standard & Poor’s (primo caso del genere dall’introduzione della moneta unica nel 1999). Questo renderà in prospettiva più onerosi gli interessi sull’enorme debito pubblico italiano e su titoli comunque garantiti dallo Stato (come le cartolarizzazioni di immobili pubblici) [7], ma renderà più oneroso il ricorso al debito anche per le imprese private che decideranno di emettere obbligazioni (e che, dopo lo scandalo Parmalat, già scontano un atteggiamento non proprio entusiastico da parte dei mercati internazionali...).

4. “Concertazione” o conflitto?

Il conflitto è il padre di tutte le cose”.

(Eraclito)

Il quadro sommariamente tracciato sinora ci permette di ragionare sulle prospettive di breve-medio periodo per le condizioni materiali dei lavoratori e le concrete possibilità di costruire movimenti di lotta efficaci.

La situazione è caratterizzata, non soltanto in Italia ma in tutta Europa, da un attacco che ha pochi precedenti nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale. Questo avviene in una situazione in cui è sempre più vero, non soltanto in Italia ma in Europa, che ormai in molti casi è povero anche chi lavora, e non soltanto chi è disoccupato. La precarietà non garantisce ai lavoratori più giovani neppure la possibilità teorica di usufruire un domani di prestazioni pensionistiche decenti, mentre sempre maggiori strati di lavoratori sono rigettati nell’insicurezza dalle crisi industriali e crescono i veri e propri ricatti operati brandendo la minaccia della “delocalizzazione”. Contemporaneamente, le prestazioni sociali sono sottoposte ad un attacco micidiale anche nei Paesi del cui “modello sociale” rappresentavano sino a pochi anni fa il fiore all’occhiello.

È importante avere sempre chiaro questo contesto più complessivo quando si ragiona delle cose italiane. Ma anche tenere conto di alcune specificità della situazione del nostro Paese. Provo a riassumerle:

1) In Italia i margini dei redditi da lavoro da erodere ulteriormente a beneficio dei profitti sono molto più esigui che altrove. Il perché è presto detto:

a. I salari (tanto al lordo quanto al netto delle ritenute sociali) sono già molto più bassi della media degli altri Paesi dell’Europa a 15; dal 1996 al 2004 l’Italia è in assoluto il Paese industrializzato in cui le retribuzioni sono aumentate meno (lo stipendio di un operaio è aumentato dello 0,2%: elaborazione Eurostat su dati Ocse).

b. La situazione al riguardo si è aggravata a motivo dell’inflazione post-euro, che ha eroso in maniera in molti casi intollerabile il potere d’acquisto di salari e stipendi;

c. I salari italiani sono più bassi di quelli europei anche in termini indiretti: ossia perché le inefficienze nel sistema delle prestazioni sociali in essere nel nostro Paese (sanità, scuola, trasporti pubblici, assistenza agli anziani, ecc.) sono tali da richiedere un ricorso massiccio a prestazioni private a pagamento;

d. Quanto sopra vale anche per il pubblico impiego, nel quale siano ben lontani da stipendi europei.

2) Un’altra specificità italiana è rappresentata dalla vergogna fiscale. Secondo stime attendibili la ricchezza che sfugge alla tassazione in Italia sotto forma di evasione è pari al 30% del totale. Si ha così una una violenta redistribuzione del reddito dai salari ai profitti e alle rendite. Il fisco in Italia agisce come un vero e proprio Robin Hood alla rovescia, in aperta violazione della stessa Costituzione.

3) I sovraprofitti determinati da salari bassi ed evasione fiscale alta (in effetti anche l’evasione fiscale potrebbe essere considerata un “aiuto di Stato”, in quanto abbatte i costi di produzione in misura estremamente significativa) non sono stati impiegati dalle nostre imprese in investimenti, in spese per ricerca e sviluppo, innovazione di prodotto, ecc.  [8]. Essi sono stati in generale tesaurizzati dalle famiglie degli imprenditori (la arretrata struttura proprietaria delle imprese italiane è parte non piccola dei problemi economici del nostro Paese), oppure investiti in operazioni finanziarie in Italia o all’estero.

Se quanto precede ha un senso, ne derivano indicazioni piuttosto chiare su quali strade siano oggi praticabili e quali no.

1) Non è praticabile un ulteriore prelievo dal monte salari. Al contrario, si pone con urgenza la necessità quantomeno di avvicinarsi a salari europei.

2) Non è praticabile nessuna riedizione della “concertazione” dei primi anni Novanta (a proposito della quale bisognerebbe che qualcuno ogni tanto ricordasse, en passant, che la Confindustria e i suoi associati non hanno a tutt’oggi neppure adempiuto agli impegni che avevano preso in tale sede...) [9].

3) Sarebbe, invece, praticabile un forte intervento sull’evasione fiscale (prima ancora della introduzione di una patrimoniale), con il quale finanziare tanto l’assistenza (che non deve essere a carico dei contributi pensionistici dei lavoratori dipendenti) quanto investimenti in infrastrutture e in ricerca e sviluppo, quanto - infine - una riduzione del prelievo fiscale a carico dei lavoratori. Un tale intervento sulla fiscalità sarebbe tra l’altro un vero e proprio intervento di modernizzazione del Paese, in quanto ridurrebbe il peso della rendita e darebbe un colpo a quelle grandi e piccole corporazioni che rappresentano uno dei principali freni dell’economia italiana [10].

Si tratta, in altri termini, di rovesciare la tendenza di tutti gli anni Ottanta e Novanta, aumentando la quota di valore prodotto che va ai lavoratori [11]. Si tratta, cioè, di rovesciare la concezione (e la prassi) dei bassi salari come variabile indipendente e fondamentale per la competitività delle imprese. Una concezione e una prassi che - è importante ripeterlo - hanno contribuito in misura determinante a spingere l’economia italiana nel cul de sac in cui attualmente si trova. È l’ora di voltare pagina.


[1] Per capire il potenziale di assorbimento del mercato cinese basta avere presente che in un anno le importazioni in Cina sono aumentate del 50,5%, più di quanto siano aumentate le esportazioni cinesi (+ 46,5%) (Dati di luglio 2004).

[2] Così H. Wehner di West Am in M. Frojo, “Il made in Germany importa utili”, Bloomberg Investimenti, 17 luglio 2004. Il problema della Germania è semmai il calo della domanda interna e degli investimenti delle imprese in patria, a fronte di un aumento dei loro investimenti all’estero.

[3] Questo aspetto è opportunamente documentato, con dati di estremo interesse, da J. Arriola, L. Vasapollo, “La dolce maschera dell’Europa. Per una critica delle politiche economiche neoliberiste”, Milano, Jaca Book, 2004, pp. 121-126.

[4] “La scialuppa del Titanic. Dalla crisi ai servizi pubblici: il punto d’approdo delle grandi famiglie del capitalismo italiano” Proteo, nn. 2-3/2003; “Il calabrone ha perso le ali. Le piccole e medie imprese nella crisi” Proteo, n. 1/2004, “Il borghese piccolo piccolo. Considerazioni sulla crisi italiana” in la Contraddizione, n. 102, maggio-giugno 2004.

[5] Anche per questo motivo - come ha evidenziato una recente ricerca dell’Istat - le imprese italiane che esportano sono ormai, in misura significativa (che supera il 30% nei settori tecnologicamente di punta), filiali di multinazionali a controllo estero: cfr. F. Sallusti, “L’export ‘tira’, ma non è italiano”, il manifesto, 22 luglio 2004.

[6] 20 Questo in quanto la situazione di monopolio od oligopolio determina un forte “potere di mercato” dell’impresa, che le consente di aumentare i margini di profitto attraverso l’aumento dei prezzi. Di passaggio si può notare che, se è stato empiricamente accertato un nesso tra concorrenza ed efficienza, non esiste una sola prova empirica del nesso tra proprietà privata ed efficienza - a differenza di quanto è divenuto senso comune anche a sinistra nel corso degli anni Novanta: conclusiva in proposito l’analisi di G. Bognetti, Il processo di privatizzazione nell’attuale contesto internazionale, Working Paper del Dipartimento Economia Politica e Aziendale, Università degli Studi di Milano, n. 23, dicembre 2001.

[7] I. Bufacchi, “Effetto domino S&P su 10 mld di bond”, il Sole 24 ore, 16 luglio 2004.

[8] La più recente conferma di questo è offerta dalla citata ricerca Istat sulle imprese a controllo straniero operanti in Italia. I livelli di produttività del lavoro di tali imprese sono quasi doppi rispetto a quelli delle imprese nazionali: a motivo degli elevati investimenti per addetto (doppi rispetto a quelli effettuati da imprese italiane) e per la ricerca (all’incirca 7 volte superiori!): cfr. ancora F. Sallusti, “L’export ‘tira’, ma non è italiano”, il manifesto, 22 luglio 2004.

[9] Tra le condizioni dell’accordo c’era un raddoppio delle spese in ricerca e sviluppo da parte delle imprese: sono dimezzate.

[10] 24 Vale la pena di osservare che il recupero anche solo parziale dell’evasione (quantificata annualmente dalla stessa Agenzia delle Entrate in cifre che si aggirano sui 200 miliardi di euro) consentirebbe un significativo avanzo primario, ossia l’ottemperanza di quei “parametri di Maastricht” - su deficit e debito pubblici - di cui ci si ricorda soltanto quando si tratta di colpire le pensioni o di ridurre le spese sociali. Da questo punto di vista, anche il dibattito pro o contro i parametri di Maastricht è fuori centro: appunto perché quei parametri possono tranquillamente essere rispettati colpendo l’evasione e le rendite (che è come dire che la stabilità monetaria non devono necessariamente pagarla i lavoratori). E in verità il rispetto di quei parametri non è necessariamente una politica di classe, così come non lo è il farli saltare (e infatti tutti i governi di destra europei, a cominciare dal nostro, da un lato attaccano periodicamente il patto di stabilità, dall’altro diminuiscono le tasse sulle imprese...).

[11] Condivisibile in proposito L. Gallino, “Lavoro, profitti e produttività”, la Repubblica, 29 agosto 2004.