Declino o crisi del capitale. Uno “spauracchio” contro il movimento dei lavoratori
Joseph Halevi
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Da circa due anni in Italia si vanno moltiplicando interventi
ed articoli concernenti un presunto declino economico del Paese. Può anche
essere vero, solo che il declino viene visto in termini assoluti, come se fosse
un fenomeno unicamente italiano. In tal modo ciò che appare come un atto di
consapevolezza critica si trasforma in una mistificazione della realtà. In
generale i ragionamenti sulla decadenza economica del Paese si basano su un’arbitraria
unificazione della natura delle imprese con il quadro macroeconomico. Si dice ad
esempio che l’Italia manca di grandi imprese di successo, cosa verissima, e la
si contrappone ad altre nazioni ove le grandi imprese di successo esistono.
Tuttavia non si dice che nelle nazioni ove risiedono molte grandi imprese di
successo la situazione economica non è necessariamente migliore di quella
vigente in Italia. Prendiamo ad esempio la Germania: non vi è alcuna relazione
tra la performance economica del Paese e la performance economica delle sue
grandi multinazionali.
Ancora più marcata è la situazione giapponese. Il grande successo
internazionale delle imprese monopolistiche nipponiche è un fattore di prima
importanza per il rifinanziamento del sistema bancario nazionale. Infatti il
Giappone realizza due grosse eccedenze nei conti correnti con l’estero. La
prima riguarda le esportazioni nette di merci e servizi, mentre la seconda
concerne il flusso netto in entrata di redditi da investimenti effettuati all’estero.
Ambedue le eccedenze sono, principalmente, il prodotto delle multinazionali del
paese. Nel caso delle esportazioni nette di merci si nota come il Giappone
riesca a combinare con notevole efficacia le attività delle filiali estere
delle proprie multinazionali con le esportazioni. Contrariamente agli Stati
Uniti ed alla Gran Bretagna, il Giappone - come pure, ma in minor misura, la
Germania - non pone l’attività di investimento estero in conflitto con le
esportazioni dal suolo nazionale. In realtà gli investimenti esteri nipponici
hanno anche l’obiettivo di rafforzare le esportazioni. In primo luogo essi
creano domanda estera per macchinario e tecnologia nipponica (quando una
multinazionale giapponese investe in Thailandia o in Cina o negli USA deve
comprare macchinari in Giappone che diventano quindi esportazini nipponiche
verso i paesi di investimento) cui si deve aggiungere il flusso permanente di
prodotti intermedi importati dalla casa madre. Le società giapponesi sanno
benissimo che il miglior modo per minimizzare i trasferimenti di tecnologia e
mantenere quindi un dominio oligopolistico nei mercati, è di conservare in casa
propria la matrice tecnologica. Di conseguenza la produzione nazionale dei beni
di capitale essenziali non viene messa in discussione. In secondo luogo gli
investimenti esteri vengono effettuati per aumentare lo spazio di domanda finale
più di quanto possa venire prodotto dalla filiale locale così da imporre il
ricorso alle importazioni dalla madrepatria.
Su questi due terreni le multinazionali nipponiche sono, per
il momento e per molti anni ancora, imbattibili. La capacità e volontà
politica di controllare la propria matrice produttiva e tecnologica facendo
perno sullo stato nazionale ha dato luogo, in Giappone, ad una controtendenza
rispetto alla crescita netta del subappalto all’estero. La percentuale di
produzione industriale nipponica subappaltata all’estero rispetto a quella
nazionale è aumentata in misura inferiore agli altri paesi malgrado la
vicinanza ed estrema apertura della Cina. La tendenza a non decentralizzare,
almeno non nella misura degli USA e anche di altri paesi capitalisti europei,
è, in parte sostenuta dal flusso in entrata di redditi da investimenti
effettuati all’estero. Infatti la strategia delle multinazionali nipponche
sebbne abbia avuto un notevole sucesso per le imprese stesse non ha però
sollevato il paese dalla stagnazione nè ha impedito una stagnazione nella
dinamica delle esportazioni epsresse in dollari. Quindi la difesa della
posizione internazionale del Giappone nonchè del cash flow del suo sistema
finanaziario ha dipeso, in misura non secondaria, dal rimpatrio di redditi
prodotti da investimenti effettuati all’estero.
Nell’eccedenza della bilancia dei pagamenti nipponica tale
flusso ha assunto un’importanza crescente a partire dal 1994 fino a tutto il
2002. Solo la recente ripresa delle esportazioni giapponesi collegate alla
crescita cinese ha ridato fiato alla quota spettante alle esportazioni nette di
merci. Il tutto è riassunto nella seguente tabella costruita su dati Ocse
Come si può osservare dalla tabella, il flusso in entrata di
soldi proveniente da ‘redditi’ generati da investimenti effettuati sull’estero
da residenti e/o società nipponiche è andato via via crescendo durante il
decennio 1994-2003 soprattutto in rapporto alla calo del valore in dollari delle
esportazioni nette dei beni e servizi. Ciò significa che il successo delle
multinazionali non si è trasformato in un successo dell’economia nipponica la
quale è vincolata dalle capacità di realizzo sia estere, vedasi il calo del
valore delle esportazioni nette, che interne. Per chi conosca l’intensità
degli investimenti in ricerca e sviluppo effettuati dalle società nipponiche e
per chi sia consapevole dell’enorme trasformazione dei prodotti giapponesi, la
stagnazione della dinamica nipponica non ha nulla a che vedere con una mancanza
di volontà ed azione innovativa. Ha invece tutto a che vedere con la crisi
stagnazionistica dell’accumulazione mondiale e non a caso la ripresa delle
esportazioni nette dell’ultimo anno è prevalentemente connessa alla crescita
cinese.
La realtà del mondo capitalistico odierno è la stagnazione
che dura da oltre tre decenni. Prendendo i dati forniti dalla Banca Mondiale si
nota quanto segue [1]:
Facendo l’ipotesi che i dati siano più o meno affidabili,
si vede immediatamente che il motore della stagnazione mondiale si situa nei
paesi dell’OCSE, cioè nel nucleo dei paesi capitalistici avanzati. In tale
contesto l’Asia orientale (Cina) e l’Asia meridionale (India) costituiscono
territori di investimento come soluzione alla crisi dell’accumulazione che
investe i paesi centrali. In questa prospettiva, è altresì evidente che i
paesi centrali non possono che perdere in termini di peso relativo non solo in
rapporto al tasso di crescita del prodotto interno lordo ma anche in relazione
al commercio mondiale. Pertanto una delle critiche alla tesi del declino
italiano - contrapposto a quale successo? quello dell’India? della Cina? -
viene a cadere. Infatti la tesi in base alla quale il calo della quota italiana
nel commercio mondiale è dovuta alla specificità del declino italiano non
appare corroborata dai fatti. Tutti i paesi centrali perdono quote di mercato
mondiale per via degli investimenti multinazionali in paesi terzi, soprattutto
in Cina ed in Asia merdionale. Le quote delle esportazioni per alcuni paesi del
gruppo OCSE sono riportate nella seguente tabella.
L’ultima colonna della tabella racchiude i dati più
significativi in quanto misura la variazione della quota di ciascun paese in
rapporto al dato iniziale del 1990. Nel 2003 l’Italia riteneva l’80% della
quota di esportazioni mondiali ottenuta nel 1990. ma gli altri grandi paesi
industriali europei subiscono grosso modo lo stesso andamento. Il calo maggiore
va attribuito alla Germania la cui quota scende del 22%, quello minore alla Gran
Bretagna che subisce un calo del 13%. Nell’area dell’OCSE il colpo maggiore
lo riceve il Giappone la cui quota cala del 27%. Così l’esportatore mondiale
per eccellenza è quello che se la passa peggio malgrado gli immani sforzi
effettuati per mantenere la struttura produttiva nonchè la valanga di soldi
investiti per innovare prodotti e tecnologia. Tutto sommato, Italia, Francia e
Germania si situano nello stesso campo di valori statistici.
Quali sono le osservazioni che possiamo svolgere a partire da
questa breve presentazione quantitativa? La prima, che è anche la più
importante, riguarda l’unicità del declino italiano. Questa tesi è
semplicemente falsa. Tutta l’area dell’OCSE è in perdita dal punto di vista
della quota di esportazioni totali. L’effetto dei bassi e calanti tassi di
crescita delle economie capitaliste è cumulativo. La domanda non tira e non
tirano nemmeno le esportazioni. Per sfuggire alla caduta dei profitti insita in
tale stato di cose le imprese, soprattutto quelle meglio organizzate aventi
strutture di tipo oligopolistico, investono e subappaltano altrove cercando di
riesportare direttamente o indirettamente verso i paesi a domanda matura. Ciò
spiega il forte aumento della quota delle esportazioni afferente ai paesi
asiatici extra OCSE tra i quali si situa la Cina oltre a Taiwan, alla Thailandia
ed alla Malesia (la Corea meridionale fa invece parte dell’OCSE). Lo stesso
processo avviene in parte all’interno dell’OCSE stesso con le
rilocalizzazioni in Messico ed anche in Turchia. Infatti nell’ambito dell’organizzazione
parigina dei paesi capitalisti, i minori aumentano la quota di esportazioni sul
totale mondiale che passa dal 23,8% del 1990 al 27,1% del 2003. Complessivamente
l’area dei paesi industrializzati perde sia in termini di esportazioni
mondiali che in termini di quota delle importazioni mondiali benchè in maniera
lievemente meno pronunciata. Fanno eccezione gli Stati Uniti che perdono meno di
Germania, Giappone, Francia ed Italia nella quota di esportazioni, aumentando
però sensibilmente la loro quota mondiale di importazioni (0,87 del 1990 per le
esportazioni e 1,41 per le importazioni). Il punto focale del cambiamento dei
flussi mondiali delle importazioni e delle esportazioni si trova nell’ Asia
extra OCSE ove la quota di importazioni mondiali aumenta più o meno nella
stessa proporzione delle esportazioni.
Esiste quindi un declino italiano? Certamente, solo che non
è unicamente italiano, bensì coinvolge l’intera aerea del mondo capitalista
sviluppato dall’Italia alla Germania, al Giappone. In altri termini esiste una
crisi del processo di accumulazione e non un declino unilaterale dell’Italia.
Evidentemente ogni paese ha una sua fenomenologia. Le multinazionali nipponiche
combattono a denti stretti, innovando tecnologie e prodotti ma non ottengono
risultati in relazione all’economia nazionale. I veri risultati derivano dagli
investimenti effettuati all’estero ma ciò è di poca consolazione per i
lavoratori nipponici i quali hanno visto la precarizzazione della forza lavoro
passare dai livelli bassi dell’OCSE a livelli decisamente alti. Nel caso
specifico dell’Italia le forme autoctone della crisi sono già state messe in
evidenza da Luciano Gallino e da Vladimiro Giacchè [2]
Il merito di tali contributi consiste nel presentare la
specificità italiana senza assolutizzarla. In tal senso i suddetti saggi hanno
contribuito a rompere, speriamo definitivamente, il mito delle piccole imprese
sempre furbe, svelte ed adattabili. Anche se così fosse, ma non lo è, non
risolverebbe il problema della crisi dell’accumulazione in Italia perchè essa
è connessa al calo sistematico dei tassi di accumulazione nei paesi centrali.
Semmai si potrebbe dire che la posizione italiana è
gerarchicamente subordinata alle strategie dei paesi centrali all’interno dell’Unione
Europea. Ma questa è una situazione strutturale ormai definita, nell’ambito
europeo, da oltre un secolo. Il cuore della struttura gerarchica europea è la
Germania la cui classe dirigente si trova in una crisi di orientamento molto
profonda. È assolutamente impensabile che il capitalismo italiano possa
svincolarsi dalla crisi tedesca. Tutta l’azione del centro sinistra, ma anche
il pensiero della sinistra di opposizione (Rifondazione, Manifesto ecc) che ha
accettato il progetto capitalistico per l’Europa, ha comportato la
subordinazione non solo di fatto ma ora anche istituzionale del capitalismo
italiano all’asse centrale costituito dalla Germania e dalla Francia.
Abbiamo detto che la Germania è in una crisi profonda
malgrado tutta l’attività diretta alla ricerca ed allo sviluppo. Il
capitalismo tedesco non sta uscendo dalla crisi però impone la sua egemonia in
Europa. Sul piano economico tale egemonia si manifesta in un’enorme ripresa
delle esportazioni nette che, tra il 2001 ed il 2003, ha frenato un po’ il
declino della quota delle esportazioni tedesche sul totale mondiale senza
minimamente risollevare il paese dalla stagnazione. La ripresa della crescita
delle esportazioni tedesche iniziò con la convergenza verso i tassi di cambio
di entrata nell’euro che implicarono una sostanziale svalutazione del marco.
La ripresa dell’export tedesco ha delle radici neomercantliste ormai
inattaccabili per via dei trattati Maastricht-Dublino e per via della
itituzionalizzazione - attraverso il ruolo della Banca Centrale Europea - dei
rapporti gerarchici tra le diverse componenti del capitalismo europeo. Ma la
strategia tedesca non solleva nè la Germania nè l’Europa dalla crisi.
La questione diventa pertanto non tanto di come affrontare un
declino solo falsamente tutto italiano ma di come affrontare l’insabbiamento
nella crisi tedesco-europea. Niente di serio può venire dalla classe
capitalistica italiana. Ed è qui che gli scritti già menzionati di Gallino e
di Giacchè vanno ripresi perchè mostrano appunto la debolezza congenita della
classe capitalistica nazionale. Cìò significa che non si posso prendere
minimamente sul serio nuovi patti produttivistici dopo anni di austerità
salariali e di tagli ella spesa pubblica sociale intrapresi per adeguarsi all’Europa
di Maastricht-Dublino. Nello stato attuale del capitalismo italiano, ove, come
argomentato da Gallino, imprese ad alta capacità tecnica sono state trasformate
in organismi di tipo finanziario speculativo, un patto di rilancio produttivo
signifca solamente bloccare salari ed occupazione, nient’altro. In declino
assieme agli altri paesi centrali il capitalismo italiano non ha alcuna
strategia da offrire al paese, ma solo ulteriore austerità.
[1] 1 Si veda anche Mark Weisbrot, Robert Naiman, and Joyce Kim,
“The Emperor Has No Growth: Declining Economic Growth Rates in the Era of
Globalization”, Washington: Center for Economic and Policy Research, may
2001. Accessibile presso:
http://www.cepr.net/globalization/The_Emperor_Has_No_Growth.htm
[2] Luciano Gallino, La
scomparsa dell’Italia industriale, Torino: Einaudi, 2003; Vladimiro
Giacchè, “Il calabrone ha perso le ali”, Proteo, Gennaio-Aprile
2004, no.1, pp. 76-82. Si vedano anche gli articoli di Federico Merola e Nerio
Nesi sulla crisi della Parmalat nello stesso numero.