La guerra come Keynesismo padronale: economia di guerra contro il movimento dei lavoratori
Enzo Modugno
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È difficile che la stampa sostenga che una economia in crisi
possa riprendersi con ingenti spese militari, perché una metà ritiene che non
sia possibile e l’altra metà è pagata per giustificarle.
Qualcosa di simile accade anche a sinistra. Se c’è una
parte che giustifica le guerre, c’è un’altra parte che accoglie l’obiezione
del senso comune - comune perfino tra gli storici - per cui in una economia in
crisi bisognerebbe risparmiare anziché sperperare denaro in armamenti. Hobsbawm
ha scritto più volte dei bilanci militari «economicamente improduttivi». Paul
Kennedy ha indicato nelle insostenibili spese militari la causa della caduta
degli imperi, prevedendo la stessa fine per gli Stati Uniti. Stephen Roach,
della Morgan Stanley, sostiene che la guerra succhia le energie e la ricchezza
delle nazioni.
Mussolini invece aveva già chiaro, nel 1936, che «nell’attuale
periodo storico il fatto guerra è un elemento determinante della posizione
dello Stato di fronte all’economia della Nazione». E Bush ripete oggi: «Sono
il presidente della guerra e prendo ogni decisione pensando alla guerra».
Prevalgono poi a sinistra ragioni di opportunità politica:
è più facile e di immediata comprensione spiegare la guerra come guerra di
rapina, occupazione coloniale dei pozzi per il controllo del petrolio. Che può
essere un vantaggio collaterale, soprattutto per far raddoppiare il prezzo del
petrolio, ma è difficile credere che il controllo neocoloniale delle risorse
mondiali che dura da mezzo secolo sia stato messo in crisi da Saddam Hussein.
Altri a sinistra considerano “economicista” l’interpretazione
della guerra come keynesismo militare, interpretandola invece come politica di
potenza. Ma già Rosa Luxemburg notava che se si trattasse solo di questo si
potrebbe sempre sperare nei tentativi diplomatici e nelle conferenze di pace,
mentre la funzione economica del militarismo rimanda alle ineliminabili
contraddizioni del capitalismo e alla questione del suo superamento.
Tuttavia, dopo Mussolini e Hitler, anche gli Stati Uniti
hanno affrontato per oltre mezzo secolo le ricorrenti crisi economiche con le
spese militari. La creazione di domanda attraverso le spese del Pentagono è
ormai una normale misura di politica economica che ha le sue istituzioni,
ministeri, agenzie, centri di ricerca, istituti di studi strategici che vengono
presi sul serio anche dalla sinistra più radicale e che invece sono finanziati
dall’industria degli armamenti per enfatizzare e costruire nemici. Perché
questo fiume di denaro a sostegno della domanda, che si realizza con l’indebitamento
dello stato verso il settore privato, deve essere giustificato, e per questo
assume la forma di misure di natura militare per far fronte a tensioni
internazionali, mentre in realtà si tratta quasi sempre di un affare di
politica interna. Le tensioni della guerra fredda ossessivamente dilatate hanno
giustificato per decenni ogni spesa pubblica militare, ed ora le tensioni
vengono ravvivate col passaggio dall’anticomunismo all’antislamismo, dal
terrore nucleare al terrorismo.
Col neoliberismo poi, nonostante le dichiarazioni contrarie,
il keynesismo militare si è ulteriormente rafforzato, assorbendo anche quella
parte di spesa pubblica prima destinata al keynesismo civile.
La sinistra neoliberista e i suoi sindacati si sono adeguati
alla gestione militare della crisi economica con l’accettazione della versione
ufficiale Usa di guerra al terrorismo che giustifica ogni tipo di rinunce.
Infatti oggi le politiche neoliberiste si affiancano alle scelte del moderno
imperialismo: sul fronte esterno, quindi nei paesi di periferia ricchi di
risorse, le armi del dominio sono la guerra commerciale, il nodo scorsoio del
debito, le crisi finanziarie, i piani di aggiustamento strutturale fino alla
guerra guerreggiata «preventiva e infinita»; sul fronte interno, cioè nei
paesi a capitalismo avanzato, il dominio assume la forma della guerra sociale
contro il movimento di classe, distruggere le conquiste sociali, a precarizzare
il lavoro, ad abbattere i costi e i diritti del lavoro, e distruggendo lo stesso
concetto e contenuti del Welfare. Il tutto con il servile appoggio dei sindacati
concertativi che si fanno strumento attivo nell’applicazione dei dettami dei
guerrafondai e delle politiche di economia di guerra. Sono invece proprio le
lotte dei lavoratori e di un forte e conflittuale sindacalismo di base che
possono capovolgere la logica perversa di questo keynesismo padronale che ha
bisogno di terrore, sottomissione e guerre.