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EUROBANG: IL CAPITALISMO ITALIANO

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Federico Merola
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Esperto di finanza strutturata internazionale e docente di Statistica Economica alla facoltà di Economia e Commercio dell’Università delle Tuscia di Viterbo

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Riforma previdenziale, TFR e mercati finanziari: al lavoratore l’ardua sentenza

Federico Merola

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Nel doppio numero di Proteo uscito a fine 2003 (n. 2-3, maggio-dicembre 2003), avevamo affrontato il delicato tema delle pensioni con un articolo dal titolo: “Gli attuali mercati finanziari sono in grado di intermediare adeguatamente il futuro previdenziale dei lavoratori?”. L’articolo, uscito proprio a cavallo tra lo scandalo Cirio e quello Parmalat, traeva spunto dall’ennesima iniziativa di riforma del sistema pensionistico per passare in rassegna quei problemi fisiologici di funzionamento dei mercati finanziari nazionali e internazionali che compromettono fortemente la credibilità di meccanismi previdenziali alternativi a quello pubblico.

In quel contesto, si è sottolineato il fatto che la previdenza privata è inevitabilmente incerta nel suo effettivo ammontare per ragioni squisitamente finanziarie, a differenza di quella pubblica che invece è per definizione certa in quanto determinata da leggi e regolamenti. In secondo luogo, è stato poi rimarcato il fatto che questa incertezza è enormemente aggravata dal cattivo funzionamento dei mercati finanziari e dallo scarso sviluppo del sistema di regole e garanzie sul quella questo funzionamento oggi si basa. Una circostanza che sottopone il risparmio previdenziale del lavoratore a rischi aggiuntivi rispetto a quelli meramente finanziari, con fenomeni di erosione da costi, oneri e sottrazioni che nulla hanno a che vedere con la sbandierata logica del mercato.

L’accusa da parte di chi sta spostando l’asse previdenziale dal pubblico al privato è che opporsi è da conservatori, in quanto il “vecchio” meccanismo a ripartizione - con il quale i lavoratori attuali pagano attraverso la contribuzione le pensioni attuali senza alcun processo di accumulazione progressiva e investimento - è ormai irrimediabilmente saltato per fattori demografici. Senza dubbio il problema demografico esiste. Ma la soluzione ideologica che è stata data al problema nasconde precisi interessi sulla cui genuinità intellettuale rimane difficile confidare. Come diceva James Tobin, premio Nobel per l’economia, parlando dei neo-monetaristi, “vogliono sostituire alle vecchie teorie e politiche economiche, nuove 50 anni fa, delle nuove teorie e politiche economiche, già vecchie 50 anni fa”.

Una conferma eclatante a questi sospetti la si ricava dal fatto che nonostante la gravità della lunga serie di scandali che si sono susseguiti in Italia nel corso degli ultimi anni, il Parlamento non è stato in grado di varare alcuna seria riforma di carattere generale a tutela del risparmio. Anzi, la soluzione che si profila al momento sembra orientata a lasciare le cose esattamente come stanno.

Basterebbe questa grave inadempienza del nostro sistema di governo a rendere improponibile qualsiasi proposta di ulteriore spostamento della previdenza dal settore pubblico a quello privato, nei confronti del quale già oggi è fortemente sbilanciata con le rilevanti incognite implicite in questa precisa scelta politica. Ed invece, congiuntamente alla manovra finanziaria per il 2005 il Governo in carica ha portato a compimento la riforma avviata in estate, aggredendo anche l’ultimo baluardo rimasto fino ad oggi relativamente protetto: quello del Trattamento di Fine Rapporto (di seguito “TFR”). Un’aggressione dalla quale ci si può in parte difendere solo attraverso una piena presa di coscienza da parte dei lavoratori e una risposta univoca e concertata.

 

2. Non scegliere significa scegliere di perdere il proprio TFR

La legge del 23 agosto 2004 n.243 (c.d. “Legge Delega” in materia pensionistica), pubblicata sulla G.U. n.222 del 21 settembre 2004 e in vigore dal 6 ottobre 2004, ha delegato il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi di attuazione volti, tra le altre cose, a favorire lo sviluppo di forme pensionistiche complementari (fondi pensione negoziali, fondi pensione chiusi o aperti, polizze vita Pip) anche attraverso modalità automatiche di utilizzo del TFR (meccanismo del silenzio-assenso). Più precisamente, le Legge Delega demanda ai decreti delegati, tra gli altri, anche il compito di:

- Adottare misure finalizzate ad incrementare l’entità dei flussi di finanziamento alle forme pensionistiche complementari, collettive e individuali, prevedendo a tal fine il conferimento, salva diversa esplicita volontà espressa dal lavoratore, del TFR maturando [1] alle forme pensionistiche complementari, garantendo però che il lavoratore stesso abbia un’adeguata informazione sulla tipologia, le condizioni per il recesso anticipato, i rendimenti stimati dei fondi di previdenza complementare per i quali è ammessa l’adesione, nonché sulla facoltà di scegliere le forme pensionistiche a cui conferire il TFR, previa omogeneizzazione delle stesse in materia di trasparenza e tutela;

- individuare modalità tacite di conferimento del TFR ai fondi istituiti o promossi dalle regioni, tramite loro strutture pubbliche o a partecipazione pubblica all’uopo istituite, oppure in base ai contratti e accordi collettivi nel caso in cui il lavoratore non esprima la volontà di non aderire ad alcuna forma pensionistica complementare e non abbia esercitato la facoltà di scelta in favore di una delle forme medesime entro il termine di sei mesi dalla data di entrata in vigore del relativo decreto legislativo, emanato ai sensi del comma 1 e del presente comma, ovvero entro sei mesi dall’assunzione;

- costituire presso enti di previdenza obbligatoria (INPS, Inpdap, ecc.), forme pensionistiche alle quali destinare in via residuale le quote del TFR non altrimenti devolute;

- subordinare il conferimento del TFR all’assenza di oneri per le imprese, attraverso l’individuazione delle necessarie compensazioni in termini di facilità di accesso al credito, in particolare per le piccole e medie imprese, di equivalente riduzione del costo del lavoro e di eliminazione del contributo relativo al finanziamento del fondo di garanzia del trattamento di fine rapporto.

In sintesi, dunque, la Legge Delega in materia pensionistica, ribaltando l’impostazione precedente, ha introdotto un meccanismo di silenzio-assenso in base al quale ogni lavoratore ha 6 mesi di tempo dall’entrata in vigore dei decreti attuativi (oppure 6 mesi dall’assunzione) per decidere se mantenere i nuovi accantonamenti di TFR nella forma attuale ovvero destinarli ad una forma qualsiasi di previdenza complementare. In caso di inerzia e silenzio da parte del lavoratore, è questa la vera novità, i nuovi accantonamenti al TFR di sua competenza saranno automaticamente destinati ad un fondo pensione negoziale ovvero, in mancanza, ad un fondo pubblico istituito presso l’INPS, altro ente previdenziale o a fondi istituiti e promossi dalle regioni.

I decreti delegati previsti dalla Legge 243/2004 avrebbero dovuto essere emanati entro un anno, ma sono ormai in dirittura d’arrivo, unitamente alla Finanziaria per il 2005 che deve provvedere alla copertura di questi provvedimenti. Con essi, è in dirittura d’arrivo anche il momento in cui ciascun singolo lavoratore dovrà effettuare una scelta. Non scegliere significa scegliere di rinunciare ai nuovi accantonamenti del TFR, per destinarli a quella che, a seconda delle circostanze, sarà la soluzione alternativa applicabile. In ogni caso, come vedremo, un’incognita pericolosa.

 

3. Origini e funzionamento del TFR: un istituto utile anche alle imprese

Il TFR nasce in Italia nel lontano 1919 come prima forma di indennità di pensionamento riservata agli impiegati (indennità di anzianità). Nel 1942 viene introdotto nel Codice Civile (attualmente regolato dall’articolo 2120) e nel 1966 viene esteso a tutti i dipendenti privati e pubblici.

Si tratta di un accantonamento annuale effettuato dal datore di lavoro a beneficio del lavoratore, ma versato a quest’ultimo solo al termine del rapporto di lavoro subordinato, per qualsiasi motivo avvenga (dimissioni o licenziamento).

L’accantonamento a TFR si ottiene dividendo l’importo della retribuzione annuale per 13,5. Questo criterio di calcolo comporta che il TFR sia pari al 6,90% della retribuzione. Il TFR già accumulato, inoltre, è soggetto a rivalutazione annuale su base composta [2] ad un tasso dell’1,5% più il 75% del tasso di inflazione [3].

Una semplice tabella dimostra come il rendimento del TFR rivalutato con l’attuale disciplina sia positivo per tassi annuali di inflazione inferiori al 6%, ovvero la norma da circa 10 anni a questa parte.

In virtù della funzione di tutela previdenziale attribuita tradizionalmente a questa componente di salario differito, anticipi sul TFR sono possibili solo a fronte di particolari necessità familiari, sotto forma di prestito. Anche per questo motivo, il TFR prima della recente riforma era esente da imposizione, mentre oggi è imponibile alla medesima aliquota prevista per i fondi pensione, ovvero l’11% della quota capitale maturata (al netto della rivalutazione annuale).

Sotto il profilo delle imprese, il TFR costituisce una forma di autofinanziamento dell’attività a basso costo. Le somme accantonate, infatti, possono essere utilizzate liberamente nell’ambito del proprio processo produttivo ad un costo vicino al tasso d’inflazione, e quindi solitamente molto inferiore agli interessi richiesti dalle banche. Un vantaggio significativo soprattutto per le aziende di piccole e medie dimensione.

Per capire la dimensione macroeconomica del problema basta considerare che, secondo stime recenti, il flusso annuale complessivo di TFR nel settore privato riguarda 12 milioni di lavoratori ed è stimabile in circa 13 miliardi di euro mentre il suo stock accumulato complessivo, sempre per il settore privato, è di circa 125 miliardi di euro. A questi valori occorre aggiungere oltre 3,4 milioni di lavoratori pubblici e 2 milioni di liberi professionisti.

Questa considerazione spiega perché la Legge Delega abbia subordinato il conferimento del TFR all’assenza di oneri per le imprese, “attraverso l’individuazione delle necessarie compensazioni in termini di facilità di accesso al credito, in particolare per le piccole e medie imprese, di equivalente riduzione del costo del lavoro e di eliminazione del contributo relativo al finanziamento del fondo di garanzia del trattamento di fine rapporto”. E poiché compensazioni di questo tipo saranno difficilmente introdotte, data la difficoltà tecnica di individuare soluzioni di questo tipo e la mancanza di copertura finanziaria per compensare le perdite, è plausibile che imprese e lavoratori si troveranno in materia di TFR a lungo dalla medesima parte.

 

4. La tormentata vicenda del TFR nelle numerose riforme previdenziali degli anni ‘90

Nel corso degli anni ’90 ci sono state già due grandi riforme del sistema previdenziale, la Legge Amato del 1992 e la Legge Dini del 1995, nonchè una serie di continui aggiustamenti tra il 1996 e il 2003, fino all’ultima significativa riforma dell’anno in corso. Per effetto di queste disposizioni, i lavoratori hanno subito una sostanziale riduzione della pensione pubblica, un tempo pari all’80% dell’ultima retribuzione e oggi ragionevolmente corrispondente alla metà di questo valore.

Per colmare il significativo taglio della pensione pubblica, è stata introdotta la possibilità di costruirsi una pensione “complementare” privata, ovvero aggiuntiva rispetto a quella pubblica ma realizzata attraverso l’accantonamento e l’investimento di contributi ulteriori rispetto a quelli obbligatori. Dato che la previdenza complementare privata dipende dal rendimento degli investimenti effettuati dagli intermediari finanziari, il suo ammontare finale è incerto e indeterminato. In ogni caso, in un paese come l’Italia dove i contributi sociali a carico di lavoratori e imprese sono già molto elevati, il primo grande problema della previdenza privata complementare è quello di trovare le risorse necessarie ad effettuare gli accantonamenti.

Da un lato le imprese, per evitare aumenti del costo del lavoro, hanno mostrato scarsa propensione a finanziare schemi pensionistici complementari attraverso un aumento della contribuzione a loro carico. I lavoratori, d’altro canto, possono finanziare tali schemi solo a fronte di riduzioni del loro reddito disponibile. Proprio per questo motivo, solo raramente lavoratori e imprese hanno trovato un accordo, per cui appena l’11% dei dipendenti privati oggi possiede un fondo pensione complementare, mentre i dipendenti pubblici sono sostanzialmente esclusi da questo ambito. Il risultato per i lavoratori è tanto drammatico quanto ancora poco percepito. Poiché la riforma della previdenza pubblica è già avvenuta, finché quella privata stenta a decollare la gran parte dei lavoratori è destinata ad accumulare un buco previdenziale che non potrà mai colmare con le proprie forze né, tanto meno, attraverso tardivi schemi di ricorso al mercato.

Per chiudere questo difficile cerchio, sin dalla prima riforma della previdenza pubblica, e connessa introduzione di una disciplina dei fondi pensione, si è individuato nel TFR una possibile fonte di finanziamento della previdenza privata complementare. Il ragionamento, in termini estremamente sintetici, è stato il seguente: il TFR rappresenta una forma di salario differito nato con finalità previdenziali all’inizio del secolo, quando non era comune cambiare datore di lavoro se non per oggettive necessità. Oggi costituisce una specifica peculiarità italiana che non ha istituti simili in altri paesi occidentali. Peraltro, si tratta di risparmio previdenziale del lavoratore che l’azienda trattiene al proprio interno per finanziare la propria attività produttiva. La remunerazione non è elevata ma è determinata con certezza. Tuttavia, il lavoratore subisce sul proprio TFR una forte concentrazione del rischio, in quanto investe questo suo salario differito interamente su un’unica impresa: quella del proprio datore di lavoro.

Per questo motivo è stato ritenuto giusto di dare ai lavoratori che lo avessero voluto, la possibilità di indirizzare il TFR anche al di fuori della propria azienda, attraverso fondi pensione o altri schemi di previdenza complementare, collettiva o individuale. Una libertà, non un obbligo. Una libertà, peraltro, a lungo contrastata proprio dalle aziende, timorose di perdere così una preziosa forma di finanziamento a basso costo.

Oggi, quella che era stata sempre configurata come una libertà in più per il lavoratore sta per diventare un meccanismo automatico coercitivo in caso di inerzia per tutti coloro che non esprimeranno apertamente il loro dissenso. Non solo. Iin assenza di fondi pensione collettivi in qualche modo controllati direttamente dai lavoratori attraverso i loro rappresentanti di categoria, il TFR potrà confluire in appositi fondi pubblici istituiti dall’INPS, altri enti pubblici previdenziali o persino le regioni. L’uso che questi soggetti faranno dei fondi raccolti è ad oggi un’incognita. Per quanto se ne sa, potrebbero comprare titoli di stato o finanziare il ponte sullo stretto. Non ci sono indicazioni di sorta in proposito. Quello che è importante sottolineare è che la natura pubblica del destinatario del TFR non garantisce affatto circa l’utilizzo del TFR nel pubblico interesse. Questi fondi speciali, infatti, non darebbero alcuna certezza di rendimento o rivalutazione degli accantonamenti e potrebbero essere gestiti con logiche privatistiche o, peggio, con finalità politiche o di finanza creativa, andando magari ad appianare fabbisogni finanziari di vario tipo. Con buona pace per i tanto sbandierati diritti dei lavoratori sul proprio TFR.

 

5. Conviene abbandonare il TFR?

In definitiva, come viene chiaramente rimarcato nella relazione del Prof. Luciano Vasapollo [All’incontro-dibattito “Il TFR nei Fondi Pensioni. Un’opportunità o una trappola” del 12-11-2004 a Roma “Pensioni, fondi e TFR: Per evitare di andare “a fondo” quando è già difficile stare “a galla”], con il meccanismo del silenzio-assenso, il lavoratore potrà:

- dichiarare di non accettare alcuna forma pensionistica complementare, e lasciare il TFR nella completa disponibilità del proprio datore di lavoro;

- comunicare il fondo pensione al quale destinare i propri accantonamenti annuali di TFR;

- non dichiarare nulla. In questa ipotesi, il TFR andrebbe a finire automaticamente al fondo pensione di categoria, se esistente, oppure in un fondo speciale presso l’INPS.

Le alternative per il lavoratore che non desidera lasciare il proprio TFR in azienda sono quindi le seguenti:

- aderire ai fondi pensione negoziali (fondi chiusi);

- aderire ai fondi pensione aperti o, se esiste, a un fondo regionale;

- stipulare delle polizze assicurative (i piani individuali di previdenza, pip);

- lasciare che il TFR vada a finire ad un fondo residuale speciale istituito presso l’INPS.

Quale scelta conviene? In termini previsionali, è naturalmente difficile dirlo. In genere la convenienza di una soluzione rispetto all’altra cambia a seconda dell’orizzonte temporale che si assume. Orizzonte temporale che è inevitabilmente diverso per ogni singolo lavoratore, dipendendo dal numero di anni che ragionevolmente mancano al suo pensionamento. Anche in termini retrospettivi, la convenienza di una soluzione rispetto ad un’altra dipende dal periodo che si va a considerare. Solitamente, ad esempio, si dimostra la convenienza dell’investimento azionario sulla base dell’andamento medio nel corso degli ultimi 100 anni. Ma quando il periodo di analisi si restringe a meno di 10 anni, o anche a qualche decennio, diventa difficile trovare risposte univoche.

Quello che si può ragionevolmente fare è quindi valutare la convenienza relativa dell’attuale meccanismo di rivalutazione del TFR sulla base delle condizioni oggi prevalenti sui mercati finanziari e su quanto è accaduto nel corso degli ultimi 5 anni.

A novembre 2004, l’inflazione su base annua è stata del 2,2% circa. I tassi nominali a 10 anni su titoli di stato sono il 3,75% circa mentre quelli reali non raggiungono il 2% [4]. Il tasso di interesse dei BOT ad un anno è intorno al 2,2% lordo (cioè zero in termini netti dall’inflazione ed è negativo se si considera la tassazione). Il TFR, invece, viene attualmente rivalutato al 3,15% annuale, pari allo 0,95% netto di inflazione. Anche se il rischio dello stato italiano è inferiore al rischio di qualsiasi impresa privata, si tratta di un differenziale significativo, considerando anche tutte le garanzie e le priorità di cui il TFR beneficia in caso di fallimento dell’impresa.

Secondo dati della Covip [5], ripresi nella già citata relazione del Prof. Luciano Vasapollo che riporta interessanti ed esplicative tabelle in proposito, nei primi otto mesi del 2004 il rendimento generale netto dei fondi pensione è stato pari al 2,3% per i fondi negoziali e all’1,8% per i fondi aperti. Nell’ambito di questi ultimi, i comparti obbligazionari misti, prevalentemente investiti in obbligazioni e con una quota residuale di azioni, hanno ottenuto il rendimento più alto, pari al 2,3%, mentre i comparti azionari hanno conseguito il rendimento più basso pari all’1,4%. Nello stesso periodo i rendimenti dei fondi pensione negoziali è stato in media superiore alla rivalutazione lorda del TFR, che si è attestata al 2,1%. Ma ampliando l’orizzonte temporale il confronto con il TFR cambia segno. Tra il 1° gennaio 2000 e il 30 giugno 2003 il rendimento complessivo del TFR è stato del 14%, a fronte del + 1,7% dei Fondi pensione chiusi, e del -13,9% dei fondi pensione aperti.

Il rendimento del TFR negli anni che vanno dal 1999 al 2003 è stato maggiore rispetto non solo ai fondi pensione aperti ma anche nei confronti dei fondi pensione chiusi. La percentuale di rivalutazione lorda del TFR è stata infatti del 17,7%, a fronte di un 16,1% dei fondi pensione chiusi e di un 10,6% dei fondi pensione aperti [6].

Nel lungo periodo questi raffronti potrebbero risultare diversi. Tuttavia resta il fatto sostanziale che i lavoratori vanno in pensione quando devono è non possono subordinare questa scelta al momento dei mercati finanziari sottostando ai loro capricci e andamenti alterni. La difesa del valore reale della contribuzione è un problema che va salvaguardato con stabilità e costanza, non su basi irregolari o secolari!

Anche per questo è lecito tornare all’interrogativo con il quale abbiamo aperto l’articolo: “Gli attuali mercati finanziari sono in grado di intermediare adeguatamente il futuro previdenziale dei lavoratori?”.

 

6. La recente crisi dei mercati finanziari come crisi strutturale di funzionamento del sistema

Abbiamo già messo in luce più di un anno fa come l’attuale crisi dei mercati finanziari derivi solo in parte dal negativo andamento dell’economia reale, dipendendo in realtà da significative criticità interne al settore del risparmio gestito e dei mercati finanziari che la crisi economica - spesso utilizzata come alibi - ha messo in luce più chiaramente. Non siamo, insomma, semplicemente di fronte ad una crisi di quotazioni legata alle generalizzate difficoltà aziendali o alle conseguenti minusvalenze finanziarie ma, più propriamente, ad una vera e propria crisi delle regole che governano i mercati finanziari, il comportamento degli operatori e i meccanismi di sollecitazione e tutela del pubblico risparmio.

Il problema è grave in quanto va a colpire lavoratore, consumatore e risparmiatore, ovvero le tre principali prospettive che lo stesso cittadino assume nella propria dimensione economica. Tre prospettive che richiedono tre profili di tutela per ogni cittadino in quanto parte debole rispetto ad interessi forti ed organizzati. Tuttavia, mentre la tutela del lavoratore ha una consolidata tradizione e quella del consumatore si è conquistata recentemente maggiori spazi, la tutela del cittadino in quanto risparmiatore è ancora ferma all’anno zero. E questo nonostante il fatto che ormai il risparmio sia un importante fonte di sostentamento per le famiglie e per la vecchiaia.

L’esigenza di una maggiore tutela del risparmio è peraltro aggravata dal fatto che oggi in Italia sono presenti forti poli di concentrazione economico-finanziaria, spesso incentrati su rendite di posizione monopolistiche o oligopolistiche che limitano fortemente la dialettica di mercato e i meccanismi automatici di controllo diffuso.

Con i limiti della sintesi possiamo ricondurre i nodi strutturali più significativi dei mercati finanziari e del risparmio gestito ai seguenti aspetti:

- La presenza nel settore creditizio e finanziario di estesi e irrisolti conflitti d’interesse che colpiscono l’intera catena che va dalle banche alle reti di collocamento e alle società di gestione dei prodotti, condizionando la credibilità e il funzionamento dell’intero mercato;

- Forme di tutela dei risparmiatori spesso insufficienti e talvolta addirittura pericolose, nella misura in cui rappresentano garanzie solo formali e non sostanziali che però lasciano intendere di essere risolutive;

- La mancanza di moderne soluzioni di Corporate Governance sia nelle società quotate in Borsa (soprattutto le Public Company) sia nelle stesse società di gestione del risparmio (SGR, SICAV, ecc.), soluzioni cioè tali da assicurare ai risparmiatori un’adeguata rappresentanza dei loro interessi quale parte debole del sistema;

- Le lacune oggettive e soggettive della vigilanza, dovute anche ai numerosi e talvolta contraddittori obiettivi affidati alle autorità preposte.

 

7. La necessitò di una difesa collettiva del TFR

In queste condizioni, abbandonare il TFR per entrare nella giungla del mercato finanziario può essere certamente un salto nel buio. In sintesi possiamo riassumere i termini del problema nel modo seguente:

- In Italia solo pochi lavoratori dispongono attualmente di schemi pensionistici collettivi complementari, nonostante il fatto che tutti i lavoratori abbiano già subito da anni una significativa riduzione delle proprie aspettative di pensione pubblica (senza peraltro alcuna riduzione contributiva sostanziale). Dunque, la maggior parte dei lavoratori è ancora scoperta nei confronti di un “vuoto previdenziale” che si è già determinato da tempo e che, purtroppo, in molti casi sarà percepito correttamente solo al momento del pensionamento;

- Questo “buco pensionistico” dipende anche dalla difficoltà di trovare risorse da destinare ai fondi pensione senza aumentare ancora il costo del lavoro o ridurre il reddito disponibile dei lavoratori attraverso aumenti di contribuzione a carico di entrambi. Dal punto di vista strutturale, l’apporto del TFR al finanziamento dei fondi pensione viene considerato necessario a dare un peso specifico effettivo al secondo pilastro. Per questo l’ultima riforma in materiaprevidenziale prevede il silenzio assenso per la destinazione del TFR ai fondi pensione;

- Questa circostanza, tuttavia, se può contribuire in parte alla risoluzione del problema generale di finanziamento dei fondi pensione, non risolve affatto i problemi dei lavoratori. C’è oggi, infatti, una generale presa di coscienza circa il fatto che uno schema pensionistico complementare abbia prestazioni incerte. Non solo, quindi, non garantisce più i precedenti livelli di previdenza pubblica, ormai aboliti, ma integra in misura solo eventuale e imprevedibile l’attuale ridotta prestazione dello Stato. Le prestazioni dei fondi pensione, infatti, dipendono essenzialmente dal rendimento degli investimenti nel momento del proprio pensionamento;

- In definitiva, i fondi a contribuzione definita, per i quali è determinata la contribuzione iniziale ma non la prestazione finale, possono offrire trattamenti previdenziali troppo bassi (o negativi) mentre quelli “a prestazione definita” - comuni in paesi come Stati Uniti e Gran Bretagna - per mantenere le promesse possono aver bisogno di significative integrazioni contributive;

- In particolare, se guardiamo agli ultimi 5 anni la rivalutazione automatica del TFR è stata superiore al rendimento delle forme di previdenza complementare di vario tipo e forma;

- In aggiunta, la cronaca recente ha altresì evidenziato che i fondi pensione talvolta non sono in grado di assicurare neanche una prestazione previdenziale minima. Si tratta di una circostanza spesso legata anche a inadeguati profili di tutela sui mercati finanziari. Se le aspettative previdenziali dei lavoratori passano sempre di più per i mercati finanziari, i profili di tutela necessariamente si spostano anche in quel settore;

- Come se tutto ciò non bastasse, sembra improbabile che il governo possa trovare forme di compensazione per le imprese per la perdita del TFR, che rappresenta un finanziamento costante e a basso costo.

Se questi sono i termini del problema, la scelta sul TFR appare evidente: va difeso. Una difesa collettiva di questo istituto, ultimo baluardo e ancoraggio di uno Stato sociale ormai smantellato, costituirebbe la migliore risposta che i lavoratori possono dare per far valere le proprie ragioni e i propri diritti, questa volta magari anche con il consenso esplicito o tacito delle imprese.


[1] Resta quindi escluso il TFR già accumulato.

[2] Cioè che riguarda di volta in volta anche gli ammontari derivanti dalle rivalutazioni degli anni precedenti.

[3] Se, ad esempio, l’inflazione di un determinato anno rilevata dall’ISTAT con riferimento all’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati fosse pari all’1,9%, il TFR sarebbe rivalutato ad un tasso pari a: 1,5% + (1,9% * 0,75) = 1,5% + 1,43% = 2,93%.

[4] Infatti, 3,75% - 2,2% = 1,55%.

[5] L’organismo di vigilanza sui fondi pensione.

[6] Si veda di Luciano Vasapollo Op. Cit.