Le classi nel mondo moderno (parte terza) Nuove frontiere della produzione e dello sfruttamento
Alessandro Mazzone
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-In questa terza e ultima parte cercherò di porre in luce -
senza alcuna pretesa di completezza - alcuni problemi che si pongono a chi
guarda all’attuale fase della mondializzazione e competizione capitalistica
dal punto di vista dei lavoratori.
1. Lavoratori dipendenti e lavoratori salariati
Di recente è stato reso pubblico il rapporto dell’Ufficio
Internazionale del Lavoro (UIL) di Ginevra, creato dopo la prima guerra mondiale
sotto l’egida della Società delle Nazioni, e oggi agenzia dell’ONU. I
lavoratori salariati nel mondo sono 2800 milioni, circa il 45% della popolazione
globale, e il loro numero è venuto crescendo (oltre 100 milioni in più dall’ultima
rilevazione). Questo è il primo dato di fatto: il rapporto di capitale
investe ormai la maggioranza della popolazione attiva in tutto il mondo. La
classe operaia si espande: di fronte a lei la borghesia, a livello mondiale,
acquista una sua struttura sempre più oligarchica; le classi intermedie
(piccoli produttori indipendenti, per lo più contadini di sussistenza nelle
periferie e nei Paesi del c.d. Terzo Mondo) declinano, e si avviano a essere
minoranze. - Nei Paesi “centrali”, le metropoli capitalistiche, i “lavoratori
dipendenti” sono da un pezzo oltre il 90% della popolazione attiva [1].
Bisogna partire di qui. La tendenza secolare del capitale all’accumulazione,
alla concentrazione di tutti i MP in forma di capitale, alla centralizzazione
dei capitali non rallenta, ma anzi si accelera nell’età dell’oligopolio,
del capitale finanziario, dell’imperialismo, della gerarchizzazione degli
ordinamenti statuali e internazionali in funzione dell’oligarchia
capitalistica transnazionale. La nuova [2]
configurazione del MPC, nuova fase dell’imperialismo, che è
quella dei nostri giorni, va compresa in questo quadro [3].
Naturalmente, i dati delle statistiche globali, di per sé,
non sono strumenti di analisi. Ma non si tratta (solo) di “disaggregarli”
(ripartirli per territori, settori produttivi, ecc.). Ancora, occorre
raccordarli a categorie concettuali: cioè a quelle determinazioni e forme di
movimento del processo complessivo, che permettono l’interpretazione del dato
e la verifica, estensione, correzione della teoria. Senza di questo, il dato
anche imponente e incontrovertibilmente significativo come quelli ora
ricordati, non ci fa fare passi avanti.
E qui si presenta il primo problema. “Lavoratori dipendenti”
è lo stesso che “lavoratori salariati”? Si dovrà dire che tutti
coloro che, non disponendo di mezzi di produzione e vendendo la loro
forza-lavoro, sono produttori di valore e plusvalore per il capitale che li
impiega e remunera, e dunque sono “classe operaia” - ne abbiano coscienza o
no?
La distinzione tra “lavoratori dipendenti” e “lavoratori
salariati” va fatta innanzitutto in senso obiettivo. (È da sempre
politica dei c.d. “datori di lavoro” il creare distinzioni di status, di
modalità di trattamento ecc., per dividere i lavoratori - per es., “operai”
e “impiegati” in una stessa azienda). La stragrande maggioranza degli “economicamente
attivi” (secondo le statistiche correnti: coloro che “producono” un
reddito qualunque) è costituita, in un Paese come il nostro, da “prestatori d’opera”
[4]: qui la forma
particolare della remunerazione (salario, stipendio, “contratti atipici”) è
irrilevante: interessa sapere se si tratta di lavoratori produttivi per il
capitale (cioè che contribuiscono alla sua valorizzazione). Per
veder questo, occorre prendere come riferimento una unità di produzione (con
divisione del lavoro, cooperazione ecc.), e relativo capitale (una “azienda”)
o, poi, un insieme di aziende dipendenti da, o riunite in, una impresa. Nell’
una, e poi nell’altra, si potrà allora parlare di lavoratore complessivo:
un collettivo di lavoro che, producendo merci, valorizza il capitale
investito [5].
La nozione di lavoratore complessivo si riferisce sempre a
una unità di produzione, nella quale il capitale si valorizza: siamo perciò al
livello concettuale del Processo di produzione del Capitale: qui le
unità di produzione (capitalistiche) sono elementi del genere “Capitale”,
soggetto del processo [6],
e stanno perciò, idealmente, tutte sullo stesso piano: non abbiamo ancora
concentrazione, holdings, finanza privata e pubblica - in una parola, non
abbiamo processo complessivo della produzione capitalistica, ma soltanto il suo
fondamento, appunto il “Processo di produzione del Capitale”.
Prima di procedere, perciò, sarà bene chiarire il carattere
di una partizione del “lavoratore complessivo” che ha grande importanza dal
punto di vista della divisione del lavoro nella società,
complessivamente intesa, e quindi della lotta di classe e dell’egemonia di
classe [7], ma che è artatamente
distorta nel senso comune (e nelle statistiche, e nei manuali di sociologia),
per dividere i lavoratori. Si tratta della partizione tra “lavoro manuale” e
“intellettuale”. A prima vista, può sembrare che quei “prestatori d’opera,”
che sono ormai oltre il 90% della popolazione attiva, vadano appunto distinti,
per cominciare, in “manuali” e “intellettuali”.
Ma: attenzione! Primo. Una attività “puramente” manuale,
innanzitutto, non esiste. Anche lo sterratore deve, non solo usare la
vanga, o il bulldozer, conformemente allo scopo di questo suo mezzo di
lavoro, e orientandone il movimento secondo uno scopo dato, ma deve per prima
cosa volere uno scopo, e dirigere sé stesso e il suo lavoro a quello
scopo. Questa differenza può sembrar sottile, ma non è affatto “soltanto”
teorica! Ogni attività che sia solo orientata a scopo e conforme a lui può
essere automatizzata e affidata a macchine. Nella nostra epoca di
automazione, informatizzazione e robotizzazione diffusa, la pratica si incarica
di mostrare che la differenza è decisiva. Una volta programmato, il computer
è incomparabilmente più veloce di un operatore umano, elabora masse di dati
incomparabilmente più grandi, ecc.: ma non “pensa”, cioè non pone
lui stesso scopi prima di realizzarli. (Un’altra faccenda è che in molti
casi, dove la sostituzione della macchina all’operatore umano sarebbe
possibile, resti l’operatore umano con un compito ripetitivo e monotono, per
motivi di “convenienza”).
Secondo. La distinzione di “lavoro manuale” e “intellettuale”
è di grado, non di qualità. L’attenzione - cioè la tensione psico-fisica
c’ è sempre, nel costruire un muro e nello studiare
seduti a tavolino. La combinazione delle varie forme di energia umana operanti
nell’esecuzione di qualunque lavoro varia nel tempo, secondo le forze
produttive sociali (e i rapporti di produzione in cui esse operano). Dunque la
distinzione di lavoro manuale e intellettuale è storica, sempre. E deve
esser considerata sotto due aspetti: quello dell’interesse immediato e quello
delle possibilità di sviluppo della società nel suo complesso. Il primo
aspetto tende a identificarsi con gli interessi della classe dominante, in
particolare quando essa, come è per l’odierna borghesia oligarchica, non è
più dirigente, cioè la promozione delle sue condizioni di esistenza e di
potere non importa promozione di sviluppo sociale e umano di altre
classi.
Ma storico è il rapporto di lavoro manuale e lavoro
intellettuale non solo nel lungo periodo (come è intuitivo: si pensi alle masse
contadine e al tenue strato di intellettuali-chierici nel Medioevo, p. es.):
esso è anzi processo in ogni istante, il cui ambito generale di
variazione (ma solo l’ambito generale!) è la forma di moto
della Riproduzione sociale complessiva, e quindi, in lei, il rapporto di
produzione fondamentale. Così le funzioni “fisiche” e “intellettuali”
del lavoro sono, nel loro complesso, quelle che la Riproduzione sociale
complessiva in un determinato istante esige. Esse costituiscono un insieme di
potenze sociali, che può essere promosso e ampliato, o viceversa disperso e
lasciato decadere. Dunque: il rapporto di lavoro manuale e intellettuale
riguarda tutta intera la classe lavoratrice. Nel mondo moderno, questo rapporto
è una questione di classe e di lotta di classe, nello scontro sulla
quale si gioca una fondamentale partita di egemonia.
Si pone qui il problema dell’istruzione-educazione. Esso è
ben diverso dalla questione delle c.d. “competenze” richieste a breve
termine dalle esigenze della produzione in rapporti dati! Infatti (come si è
accennato nella Parte II), la produzione di futuri produttori capaci, e capaci
di apprendimento può emergere solo da una concezione alta e ampia del processo
sociale e del progresso umano - dei tipi umani che in quel processo sono
diventati e diventano possibili, anzi necessari per lo sviluppo di ciascuno, e
per questa via, della collettività [8].
Quello qui indicato come oggetto della lotta egemoniale di
classe, dirà qualcuno, è un obiettivo comunista! Sia pure: ma appunto, questo
obiettivo NON è un astratto “futuribile”! Esso è portato dallo sviluppo
delle forze produttive, che, con la rivoluzione del controllo, rende impensabile
la sussunzione del lavoratore sotto una mansione vita natural durante (come fu
nell’epoca della divisone manufatturiera del lavoro). Non vale più “la
vita è breve, l’arte lunga”, ma proprio - ormai - l’opposto.
(Pensabile e praticabile, naturalmente, è la precarizzazione generalizzata, la
forza-lavoro usa-e-getta, lo scialo massiccio di energie ed esistenze umane. Ci
torneremo più avanti.)
È purtroppo diffusa nel nostro Paese, ma profondamente
errata e retrograda, la veduta della formazione delle nuove generazioni sotto il
profilo del rendimento scolastico (quando non, peggio, delle banali “pagelle”).
La gran diffusione di questa veduta si può spiegare con la meschina demagogia (“scuola
facile”, tutti promossi) e l’ignavia (tanti rappezzamenti, nessuna riforma
organica, in 60 anni) di governanti, prima democristiani, poi neoliberali, che -
mentre l’Italia diventava Paese industriale e poi “terziarizzato” - han
fatto della scuola pubblica un grande serbatoio clientelare prima, e poi un
campo di rovine. È vero: senza una scuola pubblica aperta a tutti, democratica,
repubblicana (“laica”), capace di promuovere i capaci e meritevoli senza
riguardo al censo, non c’è progetto di educazione e formazione in vista dello
sviluppo collettivo e di ogni individuo. E non c’è neppure progetto capace di
mettere la nazione in grado di competere civilmente con le altre paragonabili
(come mostrano le statistiche internazionali, lo studio P.I.S.A, in cui l’Italia
figura agli ultimi posti). Tutto questo è vero. Ma va detto anche che tutto
questo è solo la condizione, lo strumento, forse anche il principio
organizzativo della pubblica istruzione-educazione: ma non di più. Va
detto, e fatto capire, che manca ancora il contenuto, e il contenuto è
dato dagli scopi che si perseguono - dall’ideale di cultura umana che sta a
monte di tutti i programmi di insegnamento e di studio, dà loro vita e
senso, e senza il quale quei programmi diventano vuoti e umilianti schematismi.
Chi va a scuola oggi, sarà uomo e donna matura nel 2030, nel 2050. Che cosa
farà allora, e fino allora? Basta fare questa semplicissima riflessione per
vedere che la questione dello “ideale formativo” non è solo una questione
di produzione di ricchezza, e neppure del benintenzionato auspicio per un’Italia
nazione “più colta”! A monte di tutto ciò è la questione di classe. Una
questione di classe, alla stregua della quale si misurò la capacità egemonica
della borghesia finché essa fu progressiva, e si misura oggi il carattere
distruttivo di un potere oligarchico, che pare non aver altra prospettiva che
quella del Re Sole - “dopo di me, il diluvio!”, e che va detto
propriamente, tirannide. “Tirannide”, infatti, vuol dire esercizio del
potere contro la vita e gli interessi fondamentali di chi quel potere
subisce.
Ben altro, dunque, si nasconde sotto la classificazione
sociologica e immediata delle mansioni “manuali” e “intellettuali”.
Il potere dell’oligarchia capitalistica (nazionale e transnazionale) diventa
tirannico, là dove e in quanto i rapporti di produzione capitalistici
cominciano ad entrare in contrasto con lo sviluppo delle forze produttive -
umane in primo luogo.
2. Aziende, imprese, filiere
Abbiamo visto che i lavoratori dipendenti si distinguono obiettivamente,
non secondo il tipo di remunerazione che ricevono (salario, stipendio), né
secondo il tipo di prestazione (“manuale”, intellettuale”), ma secondo il
loro rapporto con la produzione di plusvalore, la valorizzazione del capitale
che li usa.
Questa valorizzazione, come sappiamo, implica il ciclo
del capitale: il prodotto-merce deve essere venduto (“realizzato”) per
fungere davvero come merce, quindi anche come capitale, e generare profitto. Ma
la modalità e l’ambito della realizzazione è un fenomeno storico entro la
produzione industriale capitalistica (come mostrava A. Smith nella Ricchezza
delle Nazioni, all’alba della Rivoluzione Industriale). Essa dipende caso
per caso da determinanti economiche, geografiche (distanze, trasporti),
storico-sociali [9] - non dal c.d.
puro “mercato” [10]
In condizioni capitalistiche alquanto sviluppate, avremo una
figura nuova del capitale commerciale, il “capitale per il commercio di
merci”: la parte terminale del ciclo D-M-D’, cioè la commercializzazione e
vendita delle merci prodotte [p...M’ - D’ ], diventa oggetto dell’attività
di altri capitali, che rilevano queste merci dai capitalisti industriali
e le rivendono, vuoi ad altri produttori capitalisti a valle nella catena
produttiva, vuoi al consumatore finale. Nei capitalismi della seconda metà del
XX secolo, si diffonde larghissimamente la figura dei lavoratori della
distribuzione commerciale branche affini [11]. La “grande distribuzione”, del resto, è oggi
familiare a tutti.
Tuttavia, quando si è già prodotto M’ (cioè merce carica
di valore e plusvalore), la metamorfosi M’-D’ (la realizzazione in denaro)
è momento della pura circolazione del capitale, e non sembra produrre
nuovo valore e plusvalore [12]. La domanda che ci poniamo ora è: i
lavoratori dipendenti del commercio, della distribuzione, e delle branche
affini, sono “produttivi” (di plusvalore, di profitto) o no? E se non lo
sono, in che senso si può dire che sono “lavoratori” come gli altri (p.
es., gli operai di fabbrica), cioè producono, complessivamente, la ricchezza
reale, ossia la massa complessiva di valori d’uso (come sempre: “materiali”
o “immateriali” non importa), di cui è costituita appunto la “ricchezza”,
l’insieme di quello che può essere acquistato e goduto o consumato (in un
regime capitalistico)? Per rispondere a questa domanda ci serviremo di alcune
nozioni marxiane [i],
ma unicamente per intendere che il problema si pone al livello della
produzione e circolazione nel suo insieme, nel “Processo complessivo
della produzione capitalistica”, e quindi riguarda la divisione del lavoro,
non più (solo) nelle unità di produzione (aziende, imprese), ma nella società
posto, beninteso, e come al solito, che per clausola di astrazione si abbia
che tutta la produzione sia capitalistica.
Oltre a questa clausola, Marx affronta il problema
introducendone una seconda: e cioè, che i molti capitali, in concorrenza tra
loro, possano “trasmigrare” in tempi relativamente brevi, entro un settore o
branca di produzione e da un settore a un altro, muovendo sempre a quegli
impieghi che offrono il profitto più elevato. (Nel capitalismo di libera
concorrenza, questa clausola permette un avvicinamento alla realtà,
rispetto all’astrazione della pura e semplice “Produzione del capitale”
[come in Capitale I], pur studiandosi sempre “il fenomeno nella forma
pura”). Ciò posto, Marx mostra che il capitale commerciale partecipa alla
spartizione generale del plusvalore, nella forma di una quota del profitto
totale (profitto di tutto il capitale fungente in una economia in un
istante t) proporzionale al capitale investito, sebbene il
capitale per il commercio di merci, come somma sborsata, sia di regola molto
più grande del “normale” c+v (c, capitale costante, indica i
mezzi di produzione, che qui sono uffici, magazzini, mezzi di trasporto ecc.; v,
come sempre, indica il capitale variabile, cioè sborsato in salari dei
lavoratori occupati). Infatti, l’operazione-base è qui: D-M (acquisto delle
merci dai produttori industriali capitalisti, dove “industriali”comprende
naturalmente la produzione agricola capitalistica), e M-D (rivendita delle
stesse merci). L’argomentazione di Marx si svolge tutta al livello della
produzione e riproduzione sociale complessiva [13], e
verte sul fatto che, da questo punto di vista, il capitale totale investito è, a
parità di effetto (e quindi di saggio del profitto sul capitale totale
stesso, perciò di saggio medio), sempre di nuovo minore di quello che
sarebbe se i singoli produttori capitalisti dovessero destinare risorse
(magazzini, contabili, ecc.) a vendere essi stessi, all’ingrosso e al
dettaglio, le merci prodotte. Non è il caso di entrare qui nel dettaglio di
questa argomentazione. Va osservato, però, che la riduzione del tempo di
produzione (=tempo di lavoro + tempo di circolazione), e quindi della rotazione
dei singoli capitali [i], è di grande attualità nella “terza maniera” dell’imperialismo,
quella odierna! Qui, infatti, svolge una funzione importante la c.d. “qualità
totale” - ottenuta sostanzialmente con la riduzione tendenzialmente a zero del
tempo che intercorre tra il completamento del prodotto-merce e la sua
realizzazione, e, soprattutto, con la precarizzazione o “flessibilizzazione”
massima della forza-lavoro impegnata.
Si può dimostrare, mediante un modello teorico, che nella
produzione “a rete” una quota del plusvalore prodotto nelle aziende
subappaltatrici o nelle fasi esternalizzate viene assorbito dal”centro”,
cioè nell’impresa in cui sono concentrate le determinazione del prodotto
finito e del “target” di mercato. In genere, i fenomeni di “decentramento
produttivo... spesso si accompagnano a... intensi processi di concentrazione
finanziaria e proprietaria” [14].
Questa doppia tendenza si accentua nella c.d. “filiera
produttiva”. Per rendersene conto, si consideri uno schema in cui il “centro”
programmi un prodotto o una gamma di prodotti in qualunque modo collegabili (l’affinità
merceologica non è necessaria: basti pensare ai “marchi”). Questa
progettazione complessiva è fatta dunque in vista della realizzazione,
la metamorfosi M’-D’. La produzione in tutte le sue fasi, dalle materie
prime ai mezzi di lavoro specifici, agli investimenti fissi, alla confezione,
imballaggio, trasporto, nonché la commercializzazione in tutte le sue fasi,
vengono programmate al “centro”, in funzione della realizzazione. Ma la
produzione vera e propria può essere scomposta in (1) prodotti a monte (materie
prime, ecc.); (2) componenti; (3) montaggio del prodotto finito. (1) e (2)
possono essere delegati a terzi, per esternalizzazione e delocalizzazione:
questi terzi restano economicamente legati al “centro”, cui trasferiscono
una parte del plusvalore, mentre sfruttano condizioni localmente “favorevoli”
(basso prezzo della forza-lavoro, vantaggi fiscali, o altro). Ancora: (1)
impiegherà a sua volta materie prime e mezzi di lavoro, macchine ecc., che gli
verranno ceduti da terzi. L’integrazione verticale non sarà più
necessariamente industriale, ma piuttosto finanziaria (si pensi a holdings
composite, come la ITT, p. es.); oppure, (2) potrà ricevere dal centro i suoi
mezzi di produzione specifici, p. es sotto forma di leasing del
macchinario (in sostanza, una forma di prestito ad interesse). Le varianti sono
numerose, possono essere combinate tra loro e permettono alla “filiera”
transnazionalexxx di scegliere in ogni momento le condizioni più convenienti,
in Paesi diversi. La progettazione complessiva delle “linee” di prodotti e
del loro smercio fornisce la base per istituire e consolidare vincoli economici
e finanziari tra il “centro” e la periferia in cui è dislocata la
produzione, o alcune sue fasi. Lo stesso vale a valle: confezione, imballaggio,
trasporto, commercializzazione, promozione pubblicitaria, possono essere
demandati a terzi, “esternalizzati”, secondo la convenienza del momento.
Alle linee di comando “tecnologiche” ed economiche
garantite dalla progettazione complessiva di tutti i flussi, materiali e
monetari, fatta al “centro”, si aggiungono, per le imprese transnazionali,
le linee di comando proprie del capitale finanziario.
Condizione tecnica di tutto ciò è la riduzione delle
distanze fisiche economicamente rilevanti, e la flessibilizzazione totale della
produzione al centro, grazie all’automazione del controllo e alla
possibilità di produrre per serie maggiori o minori, sempre just in time (“qualità
totale”). Ma la condizione essenziale è la “flessibilizzazione” della
forza-lavoro, mediante la segmentazione giuridica e geografica dei rapporti di
lavoro, il supersfruttamento e la precarizazione.
L’uso segmentato della forza-lavoro (che naturalmente sarà
remunerata al ribasso, secono il “costo del lavoro” più conveniente nelle
periferie geografiche e sociali dove ha luogo la esternalizzazione) si
accompagna al governo dei flussi materiali, che ribalterà sugli “indipendenti”
(“indotto” a monte e a valle, subappalti ecc.) le fasi di minore smercio, il
passaggio a nuove “linee” di prodotti, ecc. - E ancora: l’uso segmentato
della forza-lavoro, insieme alla possibilità di scelta di condizioni materiali
esterne (infrastrutture), nonché giuridiche, fiscali, e normative in genere, in
un ambito plurinazionale che contiene differenziali diversamente sfruttabili,
garantisce la fluidità - cioè riduce i tempi di rotazione del capitale
investito e permette nuove forme di profitto di monopolio, limitate in genere
nel tempo, ma sempre rinnovabili [15].
Di fatto, le “filiere” sono essenzialmente transnazionali
sono un aspetto dell’internazionalizzione del capitale [16]. Possiamo ancora parlare di
un “lavoratore complessivo” che comprenda tutti i salariati, a qualsiasi
titolo, nelle diverse imprese che si assommano nella filiera? Per un
certo verso, sì: in quanto un prodotto (o una gamma di prodotti), che passa
nelle diverse fasi in imprese diverse inserite nella filiera, ed è progettato
fin dall’inizio come valore, come merce vendibile, incorporerà tutte le
attività lavorative scomposte e localizzate in imprese diverse. Queste
attività, che concorrono alla fabbricazione e vendita del prodotto (o gamma),
permettono la valorizzazione del capitale.
Ma è chiaro che questo aspetto della cosa può esser tenuto
fermo solo mettendo in ombra la presenza e il ruolo decisivo dei capitali “centrali”
nella filiera, il carattere di oligopoli che essi spesso hanno, le funzioni del
capitale finanziario, e, all’interno della filiera, la gerarchia, mobile ma
ineliminabile, della varie unità di produzione. Al profitto del capitale “centrale”
del “baricentro” della filiera [17] - si aggiunge un “vantaggio competitivo”
(M. E. Porter), che viene sì ri-acquisito sempre di nuovo, e idealmente, in
ogni istante, ma non è meno un superprofitto di monopolio. Alla capacità del
“baricentro” di attrarre a sé quote del plusvalore prodotto nei segmenti
esternalizzati o delocalizzati si associa, come abbiamo visto, il carattere
oligopolistico della “offerta”. Che vale tanto nei confronti di altri
capitali cui vengono venduti mezzi di produzione, quanto nei confronti dell’ultimo
acquirente, il “consumatore”, i cui comportamenti vengono preordinati e
influenzati in ogni caso (v. le c.d. utilities, servizi di trasporto,
telecomunicazione ecc.).
3. Possibili campi di azione
In queste condizioni, la segmentazione locale e
internazionale della classe operaia sembra costituire, al presente, un vantaggio
insormontabile del capitale. Ma vi sono almeno due altri aspetti.
Primo. Nei Paesi capitalistici “centrali”, la
informatizzazione della produzione e delle attività connesse (dalla
progettazione alla commercializzazione ai servizi bancari, ecc.) tende anche ad
omogeneizzare le prestazioni di lavoro. Questo va, in prospettiva, oltre la
proletarizzazione di fatto di strati “intermedi - impiegati, tecnici,
insegnanti, sia nel privato che nel pubblico, - più volte segnalata nell’ultimo
mezzo secolo, sia per il reddito che per gli stili di vita. Riemerge qui, anzi,
il carattere di classe della formazione. Una formazione fondamentale,
scientifica, e poi polivalente è possibile. L’imporla dipende dai
rapporti di forza tra le classi, nel senso dell’egemonia, e quindi nel quadro
delle tradizioni di cultura e di democrazia in ogni Paese. Questi rapporto di
forza, attualmente, non sono favorevoli, come è noto. Nondimeno, per questo
lato la segmentazione è parvenza. Quel che è segmentato, in realtà,
non sono i lavoratori, ma le prestazioni. Ma si tratta di prestazioni che
si modificano rapidamente nel tempo, e non è più possibile sussumere un
lavoratore sotto una funzione parziale relativamente permanenente come ai
tempi della manifattura, prima delle macchine. I lavoratori diventano sì
appendici del processo, come nel sistema di macchine ottocentesco e poi in
quello “fordista”: ma si tratta ora di un processo che per sua natura e
organizzazione, con la rivoluzione del controllo, deve mutare continuamente,
o in tempi brevi.
Nella macchina informatica l’oggetto di lavoro sono informazioni,
appunto, da trasmettere ad altri (“in rete”), o ad automi (progettazione e
manifattura del prodotto computer aided): ma una volta schematizzate e
programmate, queste informazioni possono venire incorporate nel sistema, e l’operatore
umano al terminale è necessario (tecnicamente) solo per apprendere dal sistema novità
per sé, o per introdurre nel sistema novità per il sistema. La
produzione di schemi di flusso, di sequenze informatiche, di programmi è oggi
devoluta a uno strato di specialisti. Ma anche qui, una volta messi in opera,
questi schemi e programmi andranno ri-progettati in una fase ulteriore, che
interverrà in tempi medio-brevi. Segmentate sono così “competenze” e “mansioni”
transeunti per definizione. Se la risposta capitalistica a questa sfida è il
subappalto e la precarizzazione, la risposta operaia può essere l’educazione
politecnica in senso nuovo [18],
e la solidarietà sulla base di una vera alfabetizzazione informatica
universale. Questa non significa certo diffondere le basi di future “competenze”
singole da sfruttare precariamente e poi scartare! Al contrario, si tratta di
costruire una comune e condivisa capacità civilizzatoria, che - aggiungendosi
alla alfabetizzazione vera e propria - crei uno spazio universale di idee [19], e che
perché comune e condivisa capacità, praticata nel lavoro, sarà sviluppabile
nel cursus vitae di ciascuno [20].
Secondo. La segmentazione operaia nella figura di “filiera”
può creare anche elementi di debolezza per il capitale. La filiera è, sì,
mobile per definizione. Ma un arresto della produzione, nel Messico o a Hong
Kong, se avviene e nel momento in cui avviene, può colpirla nel suo
punto decisivo - la “qualità totale” che vuol dire “qualità subito”
(G. Gattei). Certo: la solidarietà internazionale dei lavoratori può essere,
oggi, solo un obiettivo a lungo termine. Nessuno può rallegrarsi della crisi di
iscritti, di capacità d’azione, di prospettive, in cui versano i sindacati
“storici”; mentre il neocorporativismo, dentro e fuori di essi, viene
promosso e alimentato, economicamente e ideologicamente. Ma il ricatto padronale
sui lavoratori dei Paesi “centrali” ha un limite: il tentativo di ridurre
tutti a salari “cinesi” (o romeni...) si scontra con la necessità di
realizzazione di merci prodotte in rapporto allo sviluppo civilizzatorio di
questi stessi Paesi. Così la “crisi di lavoro” è, in realtà, soltanto l’apparenza
della “crisi di capitale” - come ha scritto Gianfranco Pala.
Ma con questo aspetto si apre la strada a due questioni
ancora più ampie. La prima è quella dei caratteri nuovi che il capitalismo
monopolistico di Stato, che non è morto di certo, acquista nell’ epoca della
mondializzazione “tronca” e distorta (Samir Amin), delle funzioni che la
normativa giuridica e il potere di Stato assumono per garantire e agevolare il
libero movimento dei capitali, e in parte delle merci, ma per regolamentare
quello del lavoro vivo. Con questa complessa questione si intreccia, all’orizzonte,
quella della riduzione del tempo di lavoro socialmente necessario in senso
complessivo (o, come si può dire, su scala macroeconomica). Nei Paesi “centrali”
del capitale la produttività del lavoro sociale è cresciuta e continua
a crescere, anche grazie alla produzione “a rete”, ma soprattutto in
seguito alla rivoluzione industriale del controllo, all’utilizzazione della
scienza e delle forze della natura, fino ad avvicinarsi a quel limite in cui,
secondo Marx, essa “non ha più comune misura” con il capitale nel suo
processo, cioè “con la forma storica determinata dei rapporti di produzione”.
Però questo fenomeno, se lascia apparire all’orizzonte un’epoca nuova, non
si produce affatto uniformemente nelle varie regioni del pianeta, e ciò non
già nonostante la mondializzazione capitalistica, ma anzi proprio in
conseguenza di essa, e della polarizzazione tra vecchi e nuovi “centri”
e “periferie” che essa porta con sé. È in questo quadro che si pongono, io
credo, i problemi della lotta di classe che sono davanti a noi, oggi.
[1] Cfr.
R. MARTUFI e L. VASAPOLLO, Eurobang. La sfida del polo europeo nella
competizione globale. Roma, Mediaprint, 2000. Pag. 39 ss.
[2] Cfr. G. GATTEI, Tre maniere dell’imperialismo,
in: AA.VV., Il piano inclinato del capitale. Jacabook, Milano 2003.
[3] Altro che “spettro di
Marx” e “previsioni azzeccate” del Manifesto dei comunisti del
1848! Certo: nel Manifesto leggiamo che “la borghesia... costringe
tutte le nazioni ad adottare il [suo] modo di produzione”. Ma non si trattò
di divinazione! Sono le forme o “leggi”) di movimento del MPC, elaborate nel
Capitale, che trovano sostanziale conferma, oggi, quando non più il
5-10% della produzione (come quando Marx scriveva), ma ormai la massa
maggiore della produzione nel mondo ha forma capitalistica.
[4] Codice civile, § 2094 ss.: “prestatore d’opera” è il “prestatore di
lavoro subordinato”, manuale o intellettuale, nell’impresa.
[5] Cfr. Capitale I, cap. 14, inizio: “Col carattere cooperativo
del processo lavorativo si amplia.... il concetto del lavoro produttivo e
del veicolo di esso, cioè del lavoratore produttivo. Ormai... per
lavorare produttivamente non è più necessario por mano personalmente al
lavoro, è sufficiente essere organo del lavoratore complessive compiere una
qualsiasi delle sue funzioni subordinate”. - La direzione operativa, più o
meno gerarchizzata, ed economico-finanziaria del collettivo esercita una duplice
funzione: di razionalizzazione permanente dei MP e del lavoro (c.d. “risorse
umane”) in vista del prodotto (“materiale” o “immateriale” che
sia - è indifferente); e di produzione del profitto. Le due funzioni non
coincidono. È poi noto che la remunerazione dei c.d. managers comprende
di fatto, e spesso anche formalmente (attribuzione di quote azionarie ecc.)
parti del profitto, sebbene questi agenti del capitale siano, come elementi
tecnici del lavoratore complessivo, suoi salariati.
[6] Cfr. la Parte II, nel n° precedente di “Proteo”.
[7] Cfr. in “Proteo”, 1/2004, Il movimento dei lavoratori e la
nozione storica di egemonia, p. 119 ss.
[8] Tanto decisiva questione di classe è
questa, che proprio qui si registrano le più straordinarie falsificazioni e
mistificazioni. I futuri lavoratori capaci e capaci di apprendere, che si tratta
di educare ora, e naturalmente anche nella scuola, ma non solo a
scuola, fin da bambini e non solo in certe ore o mesi, ecc., saranno
dunque flessibili. Ma appunto, NON nel senso reso corrente dalla
pubblicistica di Lorsignori (il “lavoro flessibile” di trista notorietà),
ma proprio al contrario. “Flessibili” perché capaci di sviluppare
sé stessi e così la loro attività nel corpo sociale. Non-ossificati,
non-settorializzati, ecc.
[9] In tal senso va intesa anche la nota espressione di Marx,
secondo cui la compravendita delle merci ai prezzi di produzione suppone un
grado di sviluppo più elevato che non il loro scambio al valore: il “grado
più elevato” è quello di uno sviluppo della produzione capitalistica tale,
da poter rispondere alle clausole di modellizzazione del valore di mercato e
quindi del tasso medio del profitto, sulla cui base è reale, e
capitalisticamente calcolabile, il “prezzo di produzione”.
[10] Sui “valori” di quest’espressione camaleontica, che
presa assolutamente di per sé è priva di significato, si legga l’arguto e
istruttivo saggio di V. GIACCHÈ, I mille volti di Mister mercato, in “La
contraddizione”, n° 105, 2004.
[11] Ciò si è verificato dapprima negli
USA, come è noto. Storicamente, gli impiegati nel commercio furono in una prima
fase lavoratori più qualificati e meglio pagati. Poi le cose cambiano. Negli
USA, già verso il 1960, il loro salario medio era pari al 60% di quello degli
operai dell’industria.
[12] Questo non riguarda il trasporto a destinazione delle
merci, o altre operazioni, che - secondo Marx - pur svolgendosi nella sfera
della circolazione, completano la vera e propria produzione delle merci, ma solo
i “puri costi di circolazione).
[i] Capitale III, cap. 17, Il profitto commerciale.
[13] La “Riproduzione sociale
complessiva” in senso stretto, cfr. Parte II, in “Proteo” 2, 2004.
[i] Capitale II, cap. 7, tempo di rotazione e numero
delle rotazioni.
[14] R. MARTUFI e L. VASAPOLLO, Eurobang,
cit., p. 163.
[15] Questo, ritengo, può spiegare i vantaggi
competitivi che godono le “piccole” e medie multinazionali, oltre alle
grandi.
[16] A metà degli anni
1980 Horst HENNINGER e Lutz MAIER distinguevano gli aspetti “transnazionali”
da quelli “internazionali”, sottolineando in particolare i problemi di
regolazione che ne derivano, in Internationaler Kapitalismus, Dietz,
Berlin (DDR), 1987, parte I, cap. 4.3, p. 157 ss.
[17] M. DONATO e G. PALA, La catena e gli
anelli. Divisione internazionale del lavoro, capitale finanziario e filiere di
produzione. Napoli 1999.
[18] Cfr. K. MARX, Capitale I, cap. 13, 9. Marx
intravvede allora la possibilità, data la “inevitabile” presa del
potere politico da parte della classe operaia, di una istruzione politecnica che
avviiasse il superamento della divisione del lavoro nel “sistema di macchine”.
[19] Di
idee, sì. Non si tratta davvero del “chatting” sulla “Gran rete”, che
qualche sprovveduto ha scambiato per “democrazia telematica”.
[20] Andavano in questa direzione i progetti -
rimasti poi sulla carta - per l’uso dell’informatica nella RDT. V. l’
annuario “Politiche Oekonomie” del 1987, con ricca documentazione e
bibliografia.