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Contro la retorica della comunicazione **

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Michele Loporcaro
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Professore all’Università di Zurigo (Svizzera)

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Contro la retorica della comunicazione **

Michele Loporcaro

le parole sono importanti

Le parole, a volte, hanno vicende strane. L’aggettivo ermetico, nella sua accezione traslata, è spiegato sul vocabolario come ‘enigmatico, incomprensibile’. Originariamente valeva ‘formulato con linguaggio comprensibile solo agli iniziati’: agli iniziati del culto di Ermete Trismegisto (Hermes tre volte grandissimo), la divinità che nella tarda cultura ellenistica i Greci identificarono con l’egizio Thot, dio della scrittura. Le scritture connesse a questi culti, proverbialmente, dovevano servire a comunicare per pochi. Qualche tempo fa però lo psico-sociologo statunitense James Hillman ha lanciato un nuovo significato di ermetico. Entro un discorso di matrice junghiana, egli parla della nostra come di un’età ermetica, caratterizzata da un “inquinamento ermetico”. Hermes, il Mercurio dei Romani, è anche il messaggero degli dèi, il loro ufficiale comunicatore: è questa la motivazione della nuova accezione del termine ermetico che, all’opposto di quella tradizionale, vale ‘che comunica’, anziché ‘che non comunica’. Hillman non è certo il solo ad aver sostenuto che viviamo in tempi di ipertrofia della comunicazione (l’inquinamento ermetico, nei suoi termini). Anzi, sottolineare la sovrabbondanza dei flussi di comunicazione è ormai dire una banalità. Si registrano anche delle reazioni, più o meno pittoresche. Ultimamente, ad esempio, si è diffusa anche in Italia, irradiata dagli USA, la moda dei quiet parties: si va in un locale, si paga e ... si sta zitti. Su di un piano più serio, un’altra reazione a questo straripamento della comunicazione è costituita dal saggio recente di Mario Perniola Contro la comunicazione. La comunicazione massmediatica - questa la tesi di fondo - è assurta a chiave di volta della società contemporanea, almeno in alcuni suoi aspetti centrali, non ultimo l’agire politico. I black block che distruggono oggetti simbolici scegliendo per agire la cornice di eventi pubblici con copertura dei media, così come il capo di partito e di governo che dice e si disdice, afferma e smentisce, insulta e blandisce giorno per giorno pur di esser presente costantemente al tg, costituiscono sintomi di questa elevazione dell’atto (e del flusso) comunicativo a valore in sé, indipendentemente da ogni contenuto.1 Nelle pagine che seguono non tratterò però dello straripamento dei flussi di comunicazione bensì dello straripamento oggi in atto del termine stesso di comunicazione, termine che è oggi sovraccarico e si usa, nel discorso pubblico, come parte di una strategia e di un’ideologia ben precise. Analizzerò questo straripamento su due fronti, entrambi strategici per una società democratica: quello dell’informazione (in particolare dell’informazione televisiva) e quello della formazione (scolastica e universitaria).

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2. Comunicazione al posto dell’informazione

La retorica oggi dominante impone il termine di comunicazione come cifra di molti ambiti della vita pubblica, primo fra tutti quello dell’informazione. Vediamo anzitutto qual è l’ideologia che soggiace a quest’espansione e poi quali conseguenze pratiche essa comporti.

2.1. L’ideologia Prendiamo per cominciare una dichiarazione ricorrente dell’attuale Presidente del Consiglio, proposta ad esempio nella conferenza stampa di fine anno trasmessa in diretta su Rai 1 il 20 dicembre 2003 ma spesso ripetuta prima e dopo. Il governo - questa la tesi - ha lavorato bene ma gli italiani glielo riconoscono troppo poco: “Ma è difficile portare la croce e cantare insieme. Ecco, noi probabilmente non abbiamo fatto comunicazione abbastanza bene.” Qui comunicazione sta in uno dei significati che i dizionari correnti dell’italiano ancora non registrano, ma che è sempre più presente nel discorso pubblico. La comunicazione al pubblico da parte di un’azienda, insegnano i manuali di marketing, si articola in pubblicità e promozione. Dunque, sovrapponendo il linguaggio dell’azienda a quello delle istituzioni politiche, l’idea di comunicazione pubblicitaria/promozionale è veicolata, tout court, dal termine comunicazione. Il governo non ha fatto abbastanza pubblicità/promozione.2 Poiché però qui parliamo di politica, e dunque di “pubblicità/promozione” per un obiettivo politico, il mantenimento del consenso al potere costituito, da “comunicazione” passando per “pubblicità/promozione” si arriva a “propaganda”. Questi sono dunque, alla fin fine, i termini estremi dell’equazione instaurata da quest’uso terminologico: comunicazione = propaganda. Quest’uso del termine comunicazione da parte del detentore del potere esecutivo poggia su di una concezione politica alternativa a quella della moderna democrazia che, come si sa, ha origine coll’Illuminismo. C’è la distinzione dei tre poteri esecutivo, legislativo e giudiziario (nello Spirito delle leggi di Montesquieu, 1748), ai quali si aggiunge il quarto potere, il potere dell’informazione. Anche il giornalismo moderno nasce con l’Illuminismo, con il cristallizzarsi di quella che Habermas ha chiamato la sfera pubblica borghese.3 Nella sfera pubblica, l’informazione giornalistica riferisce sugli eventi - in particolare gli eventi politici - e aiuta con ciò la formazione di una pubblica opinione. In questo modello ideale, dunque, così dovrebbero funzionare le cose: chi governa governa e chi fa informazione (ed è detentore del quarto potere) informa l’opinione pubblica che poi a sua volta, in base a questa informazione, decide se votare per quel governo. Ma dietro l’uso di comunicazione da parte dell’attuale Presidente del Consiglio, abbiamo detto, c’è un’altra visione: è il governo che detiene il potere di far sapere ai cittadini che cosa ha fatto e come. Esso esercita questo potere attraverso una comunicazione pubblica che può essere spacciata (e viene in effetti spacciata) per informazione ma che non risponde alla definizione di informazione che si è appena ricordata, di matrice illuministica. Non c’è spazio, in questa visione alternativa, per un’istanza indipendente, un quarto potere dell’informazione: c’è la comunicazione del governo, cioè la propaganda. Ogni informazione di altro segno è mal tollerata, com’è in generale mal tollerato ogni elemento funzionale all’equilibrio dei poteri. Infatti, nella stessa conferenza stampa ora citata, oltre a varie osservazioni poco lusinghiere all’indirizzo dei poteri giudiziario e legislativo (si sa quel che Berlusconi ripete periodicamente della magistratura, mentre i lavori parlamentari sono dipinti come una perdita di tempo incompatibile con l’efficienza dell’”azienda Italia”), il premier apostrofa la giornalista di un quotidiano d’opposizione dicendole che “dovrebbe vergognarsi di scrivere per il giornale per cui scrive”. Quello stesso quotidiano, in quei mesi, denunciava un tentativo di strangolamento finanziario ad opera della maggior concessionaria italiana di pubblicità, parte dell’impero finanziario dell’imprenditore-premier. Ma sempre nella stessa conferenza stampa, il Presidente del Consiglio dava, di questa e altre crisi finanziarie degli organi d’informazione, una lettura diversa. I giornali in Italia sono in crisi perché “si sono allontanati da quello che pensa la maggioranza degli italiani. Allora, poi non si lamentino se perdono quote di mercato. È la conseguenza di scelte editoriali sbagliate”. Il problema dell’informazione in Italia, dunque, è che il paese ha, secondo il Presidente del Consiglio, titolare di un impero radicato nel settore, dei “giornali elitari” (quelli che lui non possiede), mentre “bisognerebbe far giornali diversi, che possano rappresentare la maggioranza”. S’intende, la maggioranza che, orientata dai mezzi d’informazione non elitari (quelli da lui controllati), sostiene l’esecutivo in carica. Ecco dunque che cosa dev’essere in quest’ottica l’organo d’informazione: “Dev’essere un pianoforte sul quale il Governo possa suonare”. Sono parole tratte da un articolo apparso sulla Rhein-Mainische Volkszeitung il 16 marzo 1933, dieci giorni dopo le elezioni che dànno ad Adolf Hitler la maggioranza parlamentare.4 Quella svolta comportò, com’è noto, molte “riforme istituzionali” (il che fra parentesi dovrebbe suggerire che il “riformismo”, di per sé, non è un valore indipendentemente dai contenuti: bisogna vedere quali riforme). Ad esempio, fu istituito il “Ministero del Reich per l’illuminazione del popolo e la propaganda” del quale, con legge dell’ottobre 1933 (Schriftleitergesetz), tutti i giornalisti del paese diventano dipendenti, sottoposti al potere disciplinare del ministro, il Dottor Paul Joseph Goebbels. Questa, dunque, è l’ottica del potere, che traspare dietro l’uso del termine comunicazione da cui siamo partiti, oggi corrente nel discorso pubblico in Italia. Si delinea con tutta evidenza un totalitarismo, nelle forme aggiornate della società dello spettacolo. La tv vi tiene, naturalmente, un posto centrale. È evidente, allora, che gli operatori del settore, nel servizio pubblico, se vogliono sopravvivere debbono adeguarsi, nell’ideologia e nella prassi. Vediamo dapprima l’ideologia (della “comunicazione/propaganda/pianoforte”), con l’aiuto di un altro esempio. Il 23 marzo 2004 un alto funzionario RAI tiene in un’università italiana una conferenza su Comunicare il territorio.5 Vi si magnifica la tv e il tg: il variopinto tg di oggi è meglio del grigio notiziario di ieri. L’informazione televisiva ha profittato, insomma, di una sorta di evoluzione della specie. Non manca, nella conferenza, la risposta alla obiezione ricorrente sul potere manipolativo della tv, risposta così concepita. Contrariamente a quel che si crede, non è vero che la tv disponga di un “potere informativo assoluto”. Come prova è addotto l’esito delle elezioni spagnole del marzo 2004: dopo gli attentati di Madrid, la gente non ha votato come voleva il governo perché il governo non è riuscito a “comunicare” la sua versione. Dunque, il fatto che il governo non sia riuscito a “comunicare” la versione a sé più favorevole è citato come prova della non esistenza di un potere informativo assoluto della tv. Torna anche qui l’equazione fra comunicazione (propagandistica, da parte del potere esecutivo) e informazione che è fatta propria in generale, nell’Italia di oggi, dal giornalismo televisivo.6 Questo, rispetto al potere politico, è notoriamente molto meno autonomo non solo di quanto, idealmente, vorrebbe il modello del quarto potere ma anche, più modestamente, di quanto non accada in altri paesi.7

2.2. La prassi Quanto alla prassi degli operatori del settore nell’Italia contemporanea, anch’essa è in linea con l’ideologia della comunicazione come propaganda (al posto dell’informazione) che permea in modo capillare la presentazione delle notizie nei tg italiani contemporanei. Lo si vede analizzandone la retorica, come ho fatto in un libro recente.8 Primo fatto da notare è che ci sono tendenze condivise internazionalmente: tutti i notiziari televisivi del mondo - nota la bibliografia massmediologica - tendono alla drammatizzazione (o teatralizzazione), alla emozionalizzazione (o patetizzazione) ed alla “fictionalizzazione” (o “finzionalizzazione”). Perché questo accada è presto spiegato: per la natura stessa del mezzo. La tv, incentrata sull’immagine in movimento, richiede uno spettatore. Dunque, le sue potenzialità sono in primo luogo potenzialità di spettacolo. Si determina dunque un piano inclinato verso la spettacolarizzazione, del quale fornisce un’analisi tristemente inconfutabile, nel suo Divertirsi da morire, Neil Postman.9 Ma in questo panorama condiviso internazionalmente, il tg italiano si distingue. Cominciando da due osservazioni banalissime, in nessun altro paese come in Italia occupano tanto spazio, nel tg, le interviste ai parenti delle vittime di eventi luttuosi e le dichiarazioni degli uomini politici, specie di governo, in cui questi - senza contraddittorio - sviluppano loro argomenti. Entrambi questi espedienti vanno in direzione della teatralizzazione, tendenza che si riscontra dovunque. Ma se in Italia ciò accade in misura maggiore è anche perché ci sono delle caratteristiche strutturali della retorica del nostro tg, specifiche dell’Italia, che spingono in questa direzione.10 Una caratteristica centrale è la frequenza - direi ossessiva - con cui la voce del cronista assume nel proprio testo - non riportando come citazione esplicita - le parole dei personaggi di cui riferisce. Facciamo qualche esempio: Tg 1 h.20, 13.1.2002. Il Papa, battezzando venti bimbi nella Cappella Sistina, commenta bonariamente il pianto dei neonati. Il servizio prosegue: “Qualche piantolino anche fra fratellini e sorelline più grandicelli”. Quattro sostantivi, quattro diminutivi. Perché? La mamma usa, coi bimbi, quello che i linguisti chiamano baby talk (“su, da’ la manina a mammina”). Così il vaticanista, per parlare dei bimbi, assume le parole (al diminutivo) che la mamma direbbe nella vita d’ogni giorno. Altro esempio: Tg 1 h.20, 8.6.2003. Servizio al tg domenicale su incidenti mortali al ritorno dalla discoteca: “Era poco prima di mezzanotte. La serata del sabato ancora lunga per divertirsi”. Non si tratta, ovviamente, di una considerazione oggettiva: è dal punto di vista delle vittime che la serata del sabato doveva essere “ancora lunga per divertirsi”. Questo tipo di effetti testuali è di solito rubricato alla voce “vivacizzazione stilistica”: è il nuovo tg, dice il dirigente RAI, non più il vecchio, grigio notiziario. Ma in realtà questo stile di presentazione delle notizie ha implicazioni ben più profonde. La ripresa delle parole dei personaggi crea un effetto che in narratologia si chiama di “discorso indiretto libero”. Come nei Malavoglia del Verga, il narratore prende le parole dei personaggi della comunità: si nasconde così la voce del narratore, che si dissolve in quella dei personaggi assumendone il punto di vista. Il discorso indiretto libero, si dice tecnicamente in linguistica, crea una ambiguità enunciativa: ossia, il lettore non sa più a chi attribuire la responsabilità delle parole che legge, se al narratore o al personaggio. È questa, dunque, una caratteristica saliente della voce narrante del tg italiano: essa fa, in misura assolutamente ignota all’estero, discorso indiretto libero. La conseguenza strutturale - che è anche una conseguenza politica - è che al telespettatore non viene mai dato, sull’evento, un punto di vista esterno ed autonomo, dichiarato come tale: il punto di vista dell’operatore dell’informazione che dovrebbe garantire distanza critica e veridicità. Si abitua, al contrario, il telespettatore ad un’informazione il cui punto di vista sembra disciogliersi nell’oggetto della notizia, un’informazione che prende il punto di vista di chiunque. Può trattarsi delle mamme, delle vittime dell’incidente stradale ma anche di categorie meno innocue: Tg 1 h.13.30, 27.2.1995. “Uccisi due coniugi a Corleone. Forse avevano visto qualcosa che non dovevano vedere”. Anziché dire “forse testimoni di un delitto”, il cronista preferisce “colorire” il pezzo: per farlo utilizza però parole che sono del codice mafioso. Riferendo della mafia, il tg italiano lo fa sistematicamente: ed ecco che spuntano nei servizi il pizzo, i pandamenti, gli uomini di rispetto e altri termini tecnici dell’organizzazione mafiosa. In questo modo, la voce del tg italiano segnala di non essere un’istanza autonoma. Segnala cioè di essere costituzionalmente inadatta a svolgere la funzione di quarto potere. E in effetti, se prende le parole di tutti, anche dei delinquenti, tanto più il tg prenderà le parole del potente di turno Per fare un solo esempio, così accade sistematicamente per l’autopresentazione di Silvio Berlusconi come “amico” personale dei grandi della scena internazionale, che non è un dato oggettivo ma è parte della strategia di “comunicazione” del personaggio, al cui punto di vista il tg aderisce pedissequamente riprendendone le parole: Tg 1 h.13.30, 20.7.2003: “di ritorno dal ranch dell’amico Bush, il presidente dovrà dunque ...”. Tg 1 h.20, 30.5.2003: “nei suoi frequenti incontri con l’amico Vladimir Putin, il Presidente del Consiglio Berlusconi ...”. Da questa voce narrante-spugna - anziché istanza indipendente - parte un piano inclinato che passa per la diretta cessione di parola (dichiarazione in video) e arriva fino alla sostituzione materiale del tg con la conferenza stampa governativa. Quella del 20.12.2003, citata in apertura, si è infatti protratta invadendo la fascia oraria del Tg 1 (h. 12.00 - 14.05), senza preavviso in palinsesto. Se volessimo documentare come questa voce narrante-spugna si presti alla manipolazione politica, l’attualità italiana ci offrirebbe materiale abbondantissimo. CIterò un solo caso recente. Nel dicembre 2004 vengono emesse le sentenze di primo grado dei due processi che, a Milano e a Palermo, vedono imputati Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri: Tg 1 h.20, 17.12.2004. Notizia d’apertura: Dell’Utri condannato a nove anni. Intervista a Dell’Utri, che dichiara tra l’altro: “La giustizia non è di questo mondo”. Nessuno fra i cronisti che lo incalzi chiedendogli, ad esempio, se per caso non si crede Gesù Cristo. Anzi, l’intervistatrice prosegue chiedendo: “Questa sentenza, quanto potrà pesare nel suo futuro politico?”. E Dell’Utri: “Nulla”. Nessuno che ribatta o commenti, né nel quadro dell’intervista, né in studio. Risultato: il tg mandando, in onda simili dichiarazioni senza alcun distanziamento accredita questo punto di vista; non importa una condanna, si può restare al potere. Si noti che la stessa edizione del Tg 1 ha in scaletta un servizio del corrispondente da Londra, Antonio Capràrica. In effetti, chi abbia visto qualche tg straniero sa che quel giorno c’è una notizia importante da dare: s’è dimesso il ministro Blunkett, accusato di aver abusato della sua posizione per facilitare l’ottenimento del visto per la bambinaia extracomunitaria della propria amante. Ma se di questo parlano i tg, diciamo, svizzeri, il nostro si distingue. Inizia il servizio di Capràrica, che parla di tutt’altro. Non del ministro dimissionario bensì di un... raduno di Babbi Natale in Galles, degenerato in maxirissa. E termina il servizio indossando barba finta e berretto rosso. Cioè facendo, absit iniuria verbo, il buffone: il buffone di corte. Meglio fare del varietà, perché il varietà aiuta a sostituire - in questo caso e in generale - una notizia che è meglio non dare agli italiani. Che un ministro si dimetta per l’accusa di abuso di ufficio in una questione di poca importanza (è il principio che conta) è una notizia che è meglio non diffondere nello stesso tg in cui si riportano senza distanziarsene le dichiarazioni ora citate del parlamentare appena condannato per connivenza colla mafia, e pochi giorni dopo che i giudici hanno riconosciuto che il primo ministro in carica ha corrotto il magistrato romano Renato Squillante facendogli versare dal suo avvocato Cesare Previti, nel marzo 1991, 434.404 dollari. Il reato è prescritto: solo per questo Berlusconi non viene condannato. Ma il Tg 1 delle h.20, il 10.12.2004, dice semplicemente, come notizia d’apertura: “Berlusconi assolto”. Dà poi la parola ai suoi avvocati, che s’incaricano di dire che l’assoluzione è una vittoria sulla “magistratura politicizzata”, che perseguiva - sostengono - suoi fini di parte. Anche questo rientra, si sa, nelle strategie di comunicazione del potente impreditore pluri-inquisito.

3. Comunicazione al posto della formazione L’avere un’informazione televisiva che è in realtà comunicazione propagandistica è un fatto grave, per una società democratica. E non sembra di scorgere nell’Italia di oggi una resistenza efficace. Da dove dovrebbe venire, questa resistenza? Da una pubblica opinione degna di questo nome: cioè, dotata di senso critico. E come si forma e si diffonde il senso critico? Con una buona scuola, di ogni ordine e grado. Al tema ho dedicato su Proteo un precedente intervento.11 Qui aggiungo considerazioni di due ordini, che documentano come l’etichetta (e la retorica) della comunicazione sia in via di straripamento, con risultati a mio parere gravi, anche su questo fronte.

3.1. La comunicazione: i mezzi e i fini La prima osservazione riguarda i mezzi di comunicazione. Su questi oggi, nella scuola e nell’università, c’è una grande enfasi. Il recente testo di legge sul riordino dei cicli scolastici (Riforma Moratti) menziona infatti, come primo contenuto specifico della formazione nella scuola primaria, “l’alfabetizzazione informatica”. Il che vuol dire, in concreto, far passare ore ai bambini delle elementari davanti al video anziché davanti ai libri. Anche all’università, in Italia e non solo, è in atto una forzata “ri-alfabetizzazione” del ceto intellettuale. La strategia è evidente: da un lato lo si impegna sempre più con compiti diversi dall’insegnamento e dalla ricerca (burocratizzazione); dall’altro si mira a sottrargli progressivamente la prospettiva d’una sussistenza assicurata, che sola ne può garantire l’indipendenza materiale e morale (precarizzazione); infine, mentre si tagliano i bilanci bloccando le assunzioni e riducendo i posti di ruolo, si deviano d’altra parte ingenti risorse in direzione delle cosiddette “nuove forme di didattica”, facenti perno sulle “nuove tecnologie”. Può così accadere, per dare un’idea, che si riunisca un giorno d’inizio 2005 - diciamo, come nei romanzi russi, nella città di P*** - un consorzio costituito da accademici dipendenti delle università pubbliche italiane per la confezione di corsi di studio e il conferimento di diplomi a distanza (con didattica e verifiche esclusivamente telematiche), e che ognuno dei collaboratori (decine) riceva per la riunione (durata due ore) un gettone di presenza di 250 euro, quando lo stipendio iniziale di un professore associato è intorno ai 1800 euro mensili. Ma il problema non è solo d’ordine materiale: è d’ordine intellettuale. È che il sistema della formazione (la scuola e l’università) tende a concentrare l’attenzione su questi mezzi a scapito di altro: a scapito, in particolare, dei contenuti culturali che dovrebbero essere studiati e mediati; e, più in generale, a scapito del senso critico. Che cosa vuol dire? Ad esempio che i mezzi vengon fatti diventare, surrettiziamente e del tutto acriticamente, fini. Capita sempre più spesso, all’università, di sentire conferenze che si pretendono di una disciplina (nel mio caso, di linguistica o di filologia) e che invece si limitano ad esporre il funzionamento di una banca dati informatizzata (o, addirittura, di un progetto di banca dati: per un curioso slittamento semantico, progetto tende ormai a sostituire lavoro). Ora, una banca dati è una cosa bellissima e utilissima: ma è uno strumento, è una scatola, sia pure digitale. Ebbene, abbiamo sempre più colleghi che si autodeportano in campi di rieducazione virtuali in cui disimparano a fare i linguisti, i filologi, disimparano la loro competenza specifica, per dedicarsi esclusivamente a costruire scatole. E la cosa agghiacciante è che lo fanno volentieri, remunerati dalla gratificazione sociale ed economica (s’è detto) che questo riorientamento procura loro. Dove hanno fallito Pol Pot e la rivoluzione culturale cinese, riesce la retorica della comunicazione: tutti i professori, soprattutto gli umanisti, a costruire scatole e a insegnare a costruire scatole. Ma se anche i mezzi di comunicazione non diventassero dei fini - come invece innegabilmente oggi succede - bisognerebbe stare attenti lo stesso. I mezzi di comunicazione non sono neutri. Il mezzo, secondo il motto di Marshall McLuhan, è il messaggio.12 O, come precisa Neil Postman, i mezzi di comunicazione sono metafore che organizzano il mondo per noi e determinano i contenuti della nostra cultura, contenuti che all’osservatore ingenuo paiono invece autonomi.13 Che vuol dire questo? Che non possiamo illuderci di mediare/comunicare alle prossime generazioni gli stessi contenuti culturali con mezzi di comunicazione totalmente diversi. Altro è formare le nuove generazioni coi libri, con l’addestramento alla lettura. Altro è metterle davanti a un video. La prima operazione è - di per sé, per il mezzo - un addestramento alla razionalità, allo spirito critico, all’analisi. Biologicamente, è una ginnastica delle sinapsi. La seconda operazione, con la permanenza davanti al video programmata oggi per i bambini fin dalla seconda elementare e fortemente incentivata, ideologicamente ed economicamente, sino all’università, è costituzionalmente proprio l’opposto. Si dice che è necessario, perché così la scuola rispecchia gli equilibri oggi mutati nel mondo esterno. È un ragionamento fallace: così la scuola rinuncia a proporre un modello suo proprio, culturalmente autonomo, e si asservisce a dinamiche economiche esterne.

3.2. Comunicazione e formazione: la specificità umana La seconda osservazione ci riporta direttamente al tema iniziale dello straripamento dell’etichetta comunicazione, straripamento che è in atto anche sul fronte della formazione e anche qui ricopre processi non positivi. L’etichetta di comunicazione è, in quest’ambito, il travestimento (ma il velo è sottile) della parola d’ordine dell’economicismo: non a caso quest’etichetta è oggi pesantemente opzionata dalla retorica aziendalista, come s’è visto al §2. La prima grande perdente è la formazione umanistica. È qui infatti che la comunicazione si espande, fatalmente a danno di altre etichette, in un gioco a somma zero. Mi spiego. Se si fa un corso di laurea in “Comunicazione nella società della globalizzazione” o in “Comunicazione pubblica, sociale e d’impresa”, questo va benissimo per degli studi d’economia. Ma il problema è che questi corsi di laurea fioriscono in quelle che una volta erano le Facoltà di lettere. Se oggi anziché “Storia dell’arte” si fa in queste facoltà “Comunicazione artistica”, ci si uniforma al seguente principio e si dà il seguente messaggio: qui non facciamo (più) cose inutili e gratuite; qui facciamo cose direttamente utili, perché economicamente funzionali.14 Questo principio e questo messaggio sono problematici per il sussistere stesso degli studi umanistici. I quali, per inciso, sono il principale propulsore sociale di quel senso critico, di quella capacità di analisi che nella nostra società di oggi sempre più fanno difetto, anche agli alfabetizzati. Proprio in quanto possessori di queste doti, ieri, i laureati (ben preparati) in lettere e filosofia si inserivano in tanti ambiti lavorativi, anche ai livelli più alti. Ora, gli studi umanistici sono scienze dell’uomo. Ma se occupano quel posto le cosiddette “Scienze della comunicazione” - se occupano il posto di lettere, filosofia, storia, storia dell’arte, linguistica ecc. - allora si ha una doppia truffa. La prima truffa è che in questi corsi di studio - come ha scritto bene Maurizio Ferraris - non si fanno scienze ma tecniche.15 Che ci vogliono, certo, ma sono sapere applicato: e se tutte le risorse finiscono lì, si riduce lo spazio per i fondamenti. E si osservi che questo sbilanciamento verso le tecniche ha una portata ben più generale: è noto come nell’Italia di oggi anche le facoltà scientifiche “tradizionali” (aggettivo divenuto di per sé una condanna), come fisica o matematica, siano in gravissima crisi di reclutamento: nessuno (o quasi) vi si iscrive più, e non c’è da stupirsi. È il frutto diretto - quanto sia avvelenato si vedrà in poco tempo, con l’aggravarsi di un declino sociale ed economico già pienamente in atto - della retorica economicistica alla quale s’è voluta piegare l’università. La seconda truffa - e torniamo all’ambito umanistico - è che le cosiddette “Scienze della comunicazione” non possono essere la cifra di un sapere umanistico per una ragione elementare, direi definitoria: la comunicazione non distingue l’uomo dagli animali. Anche i cercopitechi comunicano, anche le api. Dobbiamo studiarli, questi fenomeni, certo, così come dobbiamo studiare la comunicazione fra gli umani. Ma è assurdo - nonostante l’entusiasmo di tanti intellettuali per il cosiddetto “inquadramento zoosemiotico” del linguaggio e della cultura umani16 - farne la cifra del sapere umanistico, riorientando risorse, energie, docenti e studenti verso il calderone delle cosiddette “Scienze della comunicazione”.17 La comunicazione non ci distingue dalle bestie. Dalle bestie ci distinguono la parola (e dunque, disciplinarmente, la linguistica); ci distingue la riflessione attraverso la parola (e dunque la letteratura e la filosofia); ci distingue la sedimentazione di esperienze e riflessione in un percorso razionalmente percepito e concepito (e dunque la storia). Insomma, dalle bestie ci distingue l’attitudine alla riflessione gratuita su noi stessi e sul mondo, svincolata dallo scopo immediato. È di qui che sono nate le arti e le scienze, ed ogni progresso dell’umanità: da quell’atteggiamento che i Greci chiamavano antibanausico (dove banausico vuol dire ‘relativo al lavoro manuale’ e, per estensione, ‘utilitaristico’). Minare la legittimazione sociale di quest’atteggiamento, ecco quel che fa, sul fronte della formazione, l’economicismo imperante attaccando e snaturando le sedi che istituzionalmente dovrebbero ospitare la ricerca e la diffusione gratuita del sapere, ovvero le sedi dell’istruzione pubblica. La retorica della comunicazione non è che una delle manifestazioni di questo economicismo, specialmente perniciosa in ambito umanistico. Ma il discorso, si è detto, riguarda tutti i campi del sapere. La miopia di chi, da posizioni di potere, reclama che tutto il sapere dev’essere, per esser legittimato, sapere applicato risulta chiaramente da una semplice considerazione: se oggi abbiamo il computer - diceva un mio professore (di linguistica, si badi) - è alla fin fine perché un medico nella Bologna del Settecento si divertiva a far saltare col bisturi delle rane morte dopo averle scuoiate. L’inutilità sociale ed economica immediata di questa occupazione non potrebbe esser più evidente. È un buon argomento da opporre, la prossima volta che sentite il cervello debole di turno magnificarvi la modernità, la progressività, l’immediata utilità della “Comunicazione”.

Note

* Professore all’Università di Zurigo (Svizzera).

** Questo saggio corrisponde, con alcune aggiunte e adattamenti, all’intervento alla tavola rotonda su I volti di Babele. Qualità ed etica della comunicazione, Pisa, Scuola Normale Superiore (“Dialoghi della Normale”), 18 giugno 2004.

1 Cfr. Mario Perniola, Contro la comunicazione, Torino, Einaudi 2004. Fra i molti spunti interessanti del libro, non persuade però l’idea di fondo che la “comunicazione” sia “la reazione del vecchio mondo, della old economy, che cerca di confondere tutto con tutto per stroncare sul nascere la portata strutturale ed effettuale del nuovo sapere” (p. 20), che sarebbe quello della new economy virtuale, fondata sull’informazione, e della “svolta epocale” da essa rappresentata. A me pare che proprio il colossale abbaglio della cosiddetta new economy sia una delle manifestazioni più lampanti di quella stessa autonomizzazione della comunicazione da ogni reale contenuto che Perniola giustamente critica.

2 Questa sovrapposizione della terminologia aziendalistica ai processi politici e agli assetti istituzionali non è che un aspetto della generale deriva plutocratica delle democrazie occidentali. Come scrivono Giulietto Chiesa e Marcello Villari, Superclan. Chi comanda l’economia mondiale?, Milano, Feltrinelli 2003, p. 22, personaggi come Berlusconi o Bush “parlano di economia e di politica con le stesse parole”.

3 Cfr. Jürgen Habermas, Strukturwandel der Öffentlichkeit, Neuwied, Hermann Luchterhand 1962 [trad. it. Storia e critica dell’opinione pubblica, Roma-Bari, Laterza 1971]. Mi limito qui a ricordare le matrici del sistema formale di democrazia, al quale un processo iniziato con la Rivoluzione francese e proseguito nel movimento socialista mirò a dar contenuto sostanziale, col tentativo di scalzare il privilegio sociale che, mutati solo in parte i beneficiari, veniva traghettato dall’antico regime nei nuovi sistemi. V. al riguardo la sintesi efficacissima di Luciano Canfora, La democrazia. Storia di un’ideologia, Roma-Bari, Laterza 2004.

4 La citazione, con le indicazioni sul processo di asservimento della stampa al regime nazionalsocialista, è attinta a Peter Köpf, Schreiben nach jeder Richtung. Goebbels-Propagandisten in der westdeutschen Nachkriegspresse, Berlino, Links 1995.

5 Per la cronaca, si tratta del dott. Giuseppe Gnagnarella e la conferenza si tiene all’Università della Calabria. Il titolo, fra l’altro, è grazioso perché, con l’uso transitivo di comunicare, acquista una risonanza religiosa dietro la quale traspare la sostituzione del rito e del culto televisivi a quelli religiosi che già decenni fa aveva visto e analizzato Pier Paolo Pasolini. Se ne vedano ad es. gli Scritti corsari, Milano, Garzanti 1975 [20018], p. 23.

6 Scrive molto bene Giuseppe D’Avanzo, E la mala informazione andò in onda sulla Rai, “la Repubblica”, 26 febbraio 2005, p. 19: “La Rai ha smesso di informare. Comunica. Come fosse un’azienda privata, lavora nei telegiornali e nelle rubriche di attualità giornalistica non alle notizie ma a infomercial, a quel prodotto del media populism che, nella comunicazione, sovrappone un’idea all’edigenza di vendere un prodotto”.

7 Anche se non ci si può certo nascondere che quel modello, con il crescente intreccio tra potere economico-industriale e proprietà dei mass media, è in crisi dappertutto, come ricordano ad es. Chiesa e Villari, Superclan. cit., p. 80, concludendo amaramente che “[l]a bella favola della libera informazione, quella emersa dal secolo dei lumi, è finita”.

8 Michele Loporcaro, Cattive notizie. La retorica senza lumi dei mass media italiani, Milano, Feltrinelli 2005.

9 Neil Postman, Amusing Ourselves to Death: Public Discourse in the Age of Show Business, New York, Viking Press 1985 [trad. it. Divertirsi da morire. Il discorso pubblico nell’era dello spettacolo, Venezia, Marsilio 2002].

10 Riassumo qui alcune delle considerazioni svolte nei capp. 7-8 del saggio citato alla n. 6.

11 Michele Loporcaro, Una buona scuola o la società dello spettacolo: da che parte stanno i progressisti italiani?, “Proteo” VIII (2004/1), pp. 51-57.

12 Marshall McLuhan, Il medium è il messaggio, Milano, Feltrinelli 1968 [ed. originale inglese 1967].

13 Cfr. Neil Postman, Divertirsi cit., pp. 24, 30.

14 Qualcuno obietterà che la “Storia dell’arte” sussiste, e che l’offerta della “Comunicazione artistica” è un qualcosa in più, un arricchimento. Basta guardare ai numeri degli studenti per capire che non è vero. Sorretta potentemente, anche in sede istituzionale, dalla dominante retorica economicista ed utilitarista, la “nuova” offerta scalza la “vecchia”, facendone una categoria ad esaurimento: si posson chiedere risorse (nuovi posti, finanziamenti ecc.) per un corso di laurea in “Comunicazione” con mille studenti, non per un corso di laurea in “Lettere” con venti.

15 Maurizio Ferraris, Una ikea di università. Milano, Raffaello Cortina 2001.

16 Autorevole rappresentante di questo atteggiamento è, in Italia, Tullio De Mauro, che lo ribadisce recentemente in La cultura degli italiani, a cura di Francesco Erbani, Roma-Bari, Laterza 2004, p. 7.

17 E lo stesso discorso vale per altre etichette meramente applicative quali “Scienze della formazione” o “Beni culturali”, attraverso le quali si procede oggi a svuotare le facoltà universitarie umanistiche: v. su ciò le considerazioni giustamente critiche di Salvatore Settis, Italia S. p. A. L’assalto al patrimonio culturale, Torino, Einaudi 2002, pp. 60-61.