1. Il governo dell’emergenza
“...perché il luogo di ritrovamento della rivendicazione poteva ritenersi non casuale (Rende, in provincia di Cosenza ove si trova l’Università degli Studi di Arcavacata) tenuto conto che proprio il centro universitario era divenuto noto a partire dall’inizio degli anni settanta, per la presenza di diversi esponenti di primo piano dei gruppi più estremisti della sinistra extraparlamentare, coinvolti successivamente, a vario titolo e livello di responsabilità, nelle vicende del terrorismo degli anni di piombo”1
La guerra dentro l’occidente non è cominciata l’11 settembre 2001 a New York, ma il 30 novembre 1999, a Seattle, quando la “società aperta” ha di nuovo dovuto fare i conti con un conflitto sociale che affollava le piazze, attaccava nei simboli e nella materia i luoghi del governo e del dominio, conquistava la scena mediatica con immagini di disordine e opposizione che da anni tutti avevano consegnato ad un tempo trascorso della storia. Di fronte al risorgere di una critica radicale al mondo esistente ed al riapparire di un nemico interno pericoloso ed inatteso, la regia della concertazione capitalistica è entrata nel panico, consegnando agli eserciti ed alle polizie la gestione di questo nuovo, originalissimo conflitto sociale. Una dichiarazione di guerra, insomma, e come in tutte le guerre un minuto dopo la decisione politica di lanciare l’attacco, il terreno e la parola sono passati immediatamente agli apparati militari. La vertiginosa progressione della risposta repressiva ha raggiunto il suo culmine e, al tempo stesso, il suo punto catastrofico a Genova, con una battaglia cruenta e senza esclusione di colpi, dove la morte è stata cercata, più che essere messa nel conto.
La repressione violenta del movimento non è un accidente occorso a Genova, a Napoli, a Seattle o a Goteborg, ma una strategia che si è progressivamente pianificata e che nel tempo della guerra preventiva permanente ha velocemente riorganizzato apparati, servizi, corpi speciali, controlli e soveglianze. «La “guerra infinita” (giustizia infinita, libertà duratura, ecc.) comporta lo stato di guerra interno permanente, anche quando l’azione militare ha per teatro territori lontani dal proprio. In questo caso, oltretutto, il territorio è il mondo intero e le megalopoli occidentali sono in prima linea. La scelta della guerra perenne ‘in nome della libertà’ implica perciò che proprio la libertà - i diritti civili, di opposizione e critica, di informazione e azione politica, e persino di movimento di uomini e capitali - sia la prima vittima»2. La nuova emergenza antiterrorismo internazionale, esplosa con virulenza e immediatezza nel cuore dell’impero, si è velocemente diffusa al resto dell’occidente, abbassando la soglia dell’attenzione democratica ed aprendo una deriva autoritaria di cui si intravedono segnali sempre più preoccupanti. Siamo precipitati appieno in una nuova stagione emergenziale.
A - Un primo livello delle prassi emergenziali è rappresentato dalle innovazioni legislative, dalla produzione di nuove norme che facilitano l’aggressione poliziesca e la persecuzione penale. Sono le legislazioni d’emergenza, leggi speciali e corpi speciali, cioè la cristallizzazione nei codici e negli ordinamenti degli apparati dei dispositivi eccezionali, i lasciti che ogni eccezionalità poi consegna alla stagione politica che viene, i frutti di quell’apprendimento che la repressione compie nella guerra contro il nuovo nemico. Pensiamo soltanto al modello operativo del pool antiterrorismo, sperimentato dalla magistratura negli anni settanta, ed all’efficacia che ha dimostrato nella lotta alla mafia ed alla corruzione dei primi anni novanta.
Anche se nel nostro codice delle pene ci sono ad ampia sufficienza dispositivi giuridici di persecuzione del dissenso politico, bisogna prestare una grande attenzione alle innovazioni legislative che stanno avvenendo in questi anni sia nel nostro paese ma, soprattutto, nel nuovo spazio giuridico europeo ed internazionale. Ricordiamo soltanto, a titolo di esemplificazione, l’introduzione nel nostro codice penale di una nuova fattispecie di reato associativo per finalità terroristiche, il 270bis3.
Da anni stiamo assistendo ad un’intensa ridefinizione del sistema delle norme penali di questo paese. Alla produzione sistematica di nuove figure di criminali, il tossicodipendente, l’immigrato, il barbone, il “malato di mente”, il no-global, si è sommata una sistematica disattivazione di norme penali che colpiscono la criminalità dei colletti bianchi.
La penalità non è un fossato che cinge a difesa la cittadella blindata della legalità; la penalità ha, ha sempre avuto, frontiere mobili; ciò che la norma giuridica rimarca come reato è funzione diretta dei rapporti reali tra i gruppi sociali (classi o moltitudini che dir si voglia) che in un dato momento definiscono il campo di gioco della politica. Se la maggioranza berlusconiana sta riscrivendo le regole della costituzione, le norme che definiscono i reati finanziari, l’autonomia del potere giudiziario, la perseguibilità delle pratiche dell’abuso fiscale, ambientale, i sistemi di tutele del lavoro, della salute, dell’istruzione e della previdenza sta di fatto agendo sul principio di legalità, spostando a suo vantaggio quella linea di confine che nella stagione politica di tangentopoli aveva criminalizzato i comportamenti illeciti dei “colletti bianchi”. Il movimento non può agire nella stessa direzione, perché qualsiasi movimento sociale che ha avuto implicazioni rilevanti sugli assetti del potere ha agito intorno al principio di legalità esistente, cercando di spostarne i confini. Il movimento no-global, al pari di qualsiasi altro movimento (compreso il berlusconismo), ha pratiche che giocano fortemente sul filo del fuorigioco legale. Se vuole continuare a muoversi su questo campo minato deve però darsi una coscienza precisa di ciò che pratica. In questa direzione crediamo sia assolutamente necessario aprire nel paese una grande battaglia per l’abolizione dal nostro codice delle pene di quei reati che perseguitano la libertà di esercizio dell’azione politica, sia quelle lasciateci dal ventennio fascista, sia quelle prodotte dalle leggi d’emergenza degli anni settanta.
B - Un secondo livello delle prassi emergenziali opera direttamente sugli apparati repressivi, polizie e magistratura, predisponendo politiche dell’ordine pubblico che procurano nuove risorse materiali e simboliche, riorientando i loro modelli operativi, scongelando quella parte del diritto e della procedura penale che nelle situazioni ordinarie rimane dormiente. Questi indirizzi di politiche repressive producono un brusco innalzamento della soglia dell’attenzione degli apparati di sicurezza, che sentono il nuovo mandato che proviene dalla politica, dall’informazione e dai gruppi mediaticamente forti, lo decodificano, traducendolo in prassi operative innovative. Le campagne d’allarme non sempre hanno bisogno di nuove legislazioni: esse possono semplicemente agire attraverso modelli di intervento dell’ordine pubblico e giurisprudenze dell’emergenza, cioè orientamenti professionali che ridefiniscono i loro standard di prestazione alla luce delle nuove domande sociali di sicurezza e di punizione.
Nella relazione sulla politica informativa che il governo presentò nel 2002 al Parlamento,4 l’allora Ministro della funzione Pubblica, Frattini, così descriveva la situazione dell’”estremismo politico” in Italia: «Mi riferisco ad una serie di atti illegali che, seppure soltanto a valenza dimostrativa, indicano l’esistenza, nella galassia dell’estremismo, di individui e gruppi organizzati che hanno comunque scelto la violenza, ancorchè minore, come metodo di lotta politica... Senza indulgere a paralleli semplicistici, infatti, non si può escludere in prospettiva - e sottolineo: in prospettiva - un’interrelazione tra l’area dell’illegalità politica e quella terroristico-eversiva, così come avvenne in passato, allorché le frange più estreme dell’Autonomia Operaia diedero vita al fenomeno cosiddetto del “terrorismo diffuso”, che si poneva in posizione dialettica rispetto al “terrorismo selettivo” delle Brigate Rosse».
L’invito agli apparati di sicurezza, alle polizie ed alla magistratura a seguire il “modello Cosenza” qui è più che chiaro.
C - Ma l’emergenza è anche una cultura, un linguaggio che costruisce un nuovo alfabeto della paura e nuove figure di nemici, traducendo i bisogni diffusi di sicurezza e giustizia presenti nella società in domande di punizione; così facendo l’emergenza prepara la repressione ancor prima di scatenarla, preoccupandosi di costruire legittimazione e consenso intorno alla violenza legale.
Le strategie dell’ordine pubblico degli anni cinquanta e sessanta non si ponevano il problema della legittimazione della violenza delle forze dell’ordine.5 In un contesto internazionale dove due mondi e due modelli di civiltà che già si combattevano quotidianamente nella guerra fredda non c’era bisogno di ‘giustificare’ le cariche ai cortei, gli arresti, l’utilizzo sistematico della carcerazione preventiva, l’impiego delle armi e delle forme della repressione più cruente. Il nemico c’era ed era ben visibile, tracciato nei contorni da quella frontiera invisibile che dal muro di Berlino attraversava il corpo sociale dell’occidente, sezionando il campo della politica con un tratto tanto invisibile quanto netto. Il nemico era il comunismo e i comunisti, e nel lungo dopoguerra della ricostruzione e del miracolo economico non c’era bisogno d’altro per creare consenso intorno alla guerra a questo nemico interno.
La violenta aggressione militare alla crescita della capacità di mobilitazione del movimento è la risposta che il potere ha dato per istinto, facendo ciò che secoli di storia del dominio hanno depositato nella sua memoria profonda. A Napoli e a Genova hanno attaccato il corpo dei cortei, non solo i militanti, così come nell’ottocento le truppe regie sparavano sulle manifestazioni operaie e contadine. Non credo che a quegli uomini in divisa qualcuno abbia dovuto dire cosa fare: chi serve uno stato in divisa sa cosa ci si attende da lui quando un popolo vociante si dirige verso i palazzi del potere. «L’Italia non è mai stato un paese veramente democratico... - sostiene Cesare Bermani - Per questo la repressione attraversa tutta la storia d’Italia, scandendo ogni momento di tensione sociale...; nel periodo che va dal 25 luglio 1943 alla fine del 1980 sono stati uccisi dalla polizia nel corso di manifestazioni, scioperi e rivolte 414 dimostranti... E questo senza considerare le stragi di stato, 147 uccisi e 686 feriti...»6.
Sappiamo che gli strateghi del disordine avevano predisposto un apparato di reclusione per gestire centinaia di fermi ed arresti, perché nelle politiche dell’ordine pubblico il primo gradino della deterrenza è la minaccia della galera. Niente di nuovo. Si pensi soltanto che nel corso dell’autunno caldo furono denunciate 14.000 persone. «Gli artt. 270, sull’associazione sovversiva (diretta a stabilire violentemente la dittatura di una classe), e 271, sulla propaganda sovversiva (per l’instaurazione violenta della dittatura di una classe) furono utilizzati ampiamente, soprattutto contro i circoli anarchici»7. Ma quello che è successo su quelle piazze è andato ben oltre questo piano, attivando un processo di delegittimazione degli apparati repressivi che ha dato un colpo duro all’immagine governativa8, producendo contraddizioni di non poco conto tra i vari ambiti istituzionali (il politico contro il poliziesco - il politico contro il giudiziario - il giudiziario contro il poliziesco e viceversa) consumatosi in uno spazio mediatico che ha mostrato un inatteso ‘interesse’ verso le ragioni delle garanzie.
L’azione giudiziaria partita da Cosenza ha anche questo obiettivo: lavorare sull’immagine pubblica del movimento che progressivamente in questi anni ha costruito intorno a sé un diffuso ‘consenso’. Finora questa partita sembra aver segnato un punto a sfavore del potere: l’obiettivo di associare l’immagine di questo movimento con i sentimenti della paura è stato solo parzialmente raggiunto; i fatti di Napoli e Genova hanno generato una interessante ondata di riprovazione verso quelle forme di “controllo sociale violento” che si sono viste su quelle piazze, e il percorso di avvicinamento del movimento ai nuovi terreni del conflitto sindacale hanno indotto un importante processo di diffusione delle sue tematiche nello spazio discorsivo pubblico. In questo contesto sono apparse di grande rilievo le prese di posizione che, con diverse sfumature, le forze della sinistra istituzionale hanno assunto nei confronti del processo di Cosenza. Dopo il grande corteo svoltosi nella città calabrese nei giorni immediatamente successivi agli arresti, con una decisa presa di posizione della giunta comunale a sostegno alla manifestazione, anche nell’approssimarsi dell’avvio del processo la nascita di un comitato parlamentare di sostegno alla difesa degli inquisiti che ha visto la presenza di esponenti di Rifondazione, dei Verdi, dei Ds e della Margherita, e la decisa critica che ha espresso anche la Cgil di Guglielmo Epifani all’inchiesta calabrese, sono una risorsa vitale per la battaglia di verità che il movimento sta conducendo intorno a questa vicenda9. Anche perché, e non è secondario, rappresentano un parziale fallimento di quel tentativo di costruire un clima da unità nazionale intorno a questa vicenda portato avanti con perspicacia da una parte delle forze di governo. In questa direzione crediamo sia assolutamente necessario costruire intorno a questo processo, che durerà anni, un forte intervento politico ed una costante attenzione a mantenere quel patrimonio di solidarietà che finora è stato così faticosamente messo in piedi. Il processo di Cosenza deve diventare una brande battaglia di libertà e di verità, perché su questa scena si giocherà una partita importante per i discorsi di potere in questo paese, così come intorno ai grandi processi nati nella stagione politica degli anni settanta si è scritta più volte, e si sta ancora scrivendo, la storia di un’intera generazione politica.
2. L’emergenza al governo
“In questo contesto ben si comprende l’attenzione rivolta all’Università di Arcavacata dal Generale Dalla Chiesa, il quale, nel corso della sua deposizione dell’8 luglio 1980 innanzi alla Commissione parlamentare di indagine sul caso Moro, dedicava un lungo passaggio proprio sulla situazione di Cosenza (cfr. informativa del Ros citata sul punto”10
Le ideologie legate al tema della sicurezza, alla pedagogia della legalità ed alla parola d’ordine “tolleranza zero” hanno assunto già da anni un peso sempre più preponderante nei discorsi del politico e nella costruzione mediatica del consenso. Questa tendenza è oggi una realtà così radicata che, mentre sul piano globale le operazioni di guerra si definiscono ormai “operazioni di polizia internazionale”, in Italia Berlusconi battezza l’ennesima crociata contro il crimine come “guerra dell’esercito del Bene contro l’esercito del Male”, citando testualmente l’espressione usata dopo l’11 settembre dall’amico Bush per lanciare l’operazione Enduring Freedom. È in questo contesto che si colloca la risposta feroce contro le piazze che hanno visto crescere in diversi luoghi del mondo il movimento dei movimenti. Le riflessioni fatte fin qui rivelano quanto sia fuorviante porre la questione della legalità come fronte di difesa o addirittura di attacco contro gli indirizzi liberisti ed autoritari del governo Berlusconi.
Cosa si trovano a difendere i girotondi con le loro parole d’ordine in difesa della legalità oggi che le nuove norme sull’immigrazione, la scuola, le pensioni, i diritti del lavoro, la sanità, la giustizia, la scuola, l’ambiente sono leggi dello stato? Chi ancora oggi “resiste, resiste e resiste” nella trincea della legalità rischia soltanto di ammutolire, a meno che non provi ad argomentare l’idea di una diversa giustizia sociale. Solo così può essere pensabile un progetto collettivo che possa porsi l’obiettivo di trasformare il mondo. La costruzione mediatica del consenso si serve sempre più spesso delle categorie della devianza per affermare le esigenze del controllo sociale e del disciplinamento di ogni ambito della vita quotidiana.
In una fase in cui diventa esplicita la rottura di ogni mediazione politica e sociale, dove il ruolo degli stati nazione si riduce a quello di esecutore dei mandati di un comando globale, la gestione del conflitto sociale diventa una questione di ordine pubblico, da delegare agli apparati di controllo e repressione, supportati da una forte propaganda sicuritaria, per scaricare sul nemico interno, il deviante, l’immigrato, il tossicodipendente, ed oggi anche “il terrorista”, le insicurezze e le paure causate dalla crescente precarizzazione della vita.
In questo contesto è importante che la riflessione sui temi della sicurezza e della repressione non rimanga affidata ai gruppi di legali, il cui impegno, peraltro fondamentale, non può che limitarsi ad una lettura penal - processuale delle trasformazioni in atto. Invece bisogna essere in grado di dare una lettura “politica” dei sistemi di controllo e sui loro portatori. Nel farlo non ci può limitare all’analisi degli apparati e dei loro equilibri perché, come negli altri campi, anche sui temi della sicurezza i tecnici prevalgono sui politici. E questi tecnici provengono tutti dalle prefetture e delle questure d’Italia; generalmente cresciuti a pane e democrazia cristiana i vertici degli apparati di polizia sono oggi i veri portatori del verbo della “tolleranza zero”, che ha un solo vangelo (in Italia il Testo unico delle leggi di polizia), ma molti apostoli. Non si dimentichi che il ruolo degli apparati è molto cambiato in questi ultimi anni. Se, negli anni d’oro della Democrazia cristiana e di quel consolidato sistema di governo, la dimensione del politico era tale che nessuna decisione di ordine pubblico fosse presa senza il preventivo consenso del potere politico, oggi la delega che gli apparati di sicurezza ricevono nella gestione dell’ordine pubblico è in bianco. In questo la questione di Genova e del G8 è esemplificativa. Il potere politico si è assunto a posteriori la responsabilità di quanto successo, senza però avere deciso nulla in proposito (se non ovviamente la delega iniziale data ai vertici di polizia). E se Napoli (centrosinistra) a marzo è stata nel suo piccolo come Genova (centrodestra) è perché i governi cambiano, ma la gestione dell’ordine e della sicurezza rimane in mano agli stessi apparati. È evidente che questo nuovo ruolo che le polizie hanno ricevuto comporta una ridefinizione degli equilibri interni ai corpi e tra i corpi stessi, ridisegnando i campi di forze e poteri che non potrà essere indolore, ma che, anzi, renderà palesi le contrapposizioni tra le aspettative di gestione di quote dell’ordine pubbliche da parte delle diverse forze di polizia.
La creazione di penalità avviene ogni giorno attraverso questi apparati amministrativi, che quotidianamente raccolgono informazione su ogni cittadino (ricordate la denuncia di quel carabiniere che parlava di 70 milioni di fascicoli!?), costruiscono prove ed ipotesi di reato, reprimono brutalmente le manifestazioni di protesta, estendono il loro potere ad ogni livello della loro gerarchia, cosicchè anche l’ultimo dei celerini è investito di un potere senza limiti. Su questi apparati manca analisi e riflessione, l’errore che si commette è quelli di considerarli un insieme indefinito, mentre sarebbe più utile sapere leggere le trasformazioni che li attraversano, le logiche delle gerarchie, le strategie dei vertici, le tattiche dei quadri, la formazioni delle loro dirigenze.
È necessario, secondo noi, saldare l’analisi dell’ordine del discorso sicuritario con la conoscenza della microfisica dei poteri degli apparati, individuare le logiche che sottendono le pratiche della sicurezza e la struttura degli equilibri del controllo, la nuova composizione dei luoghi della disciplina, tenendo ben presente che l’attuale assetto dei poteri sta ormai operando in una strategia di guerra preventiva contro i suoi nemici interni ed esterni che non ammette esclusioni di colpi..
La sconfitta di quel grande movimento che attraversò la scena di questo paese una trentina di anni fa non si consumò soltanto fuori ai cancelli della Fiat, occupata per 35 giorni da una classe operaia in sciopero, ma anche davanti ai cancelli delle case circondariali, dove entrarono quasi diecimila militanti del movimento. A cancellare dalla scena sociale e dall’immaginazione collettiva di questo paese l’idea che fosse possibile un ‘rivolgimento generale dell’esistente’ non fu soltanto la sconfitta politica degli operai, dei giovani e delle donne di allora, ma anche la persecuzione giudiziaria, gli agguati polizieschi e un alfabeto dell’emergenza che riuscì a cambiare il senso delle parole che si usavano, riscrivendo un vocabolario della politica dove si cominciarono a segnare con la matita rossa i nomi che adoperavamo per raccontare la nostra visione del mondo. Questo per dire che quando l’avversario decide di spezzarti non lo fa soltanto con la precarizzazione, la sottomissione, l’impoverimento, lo sfruttamento ecc., ma anche con il dominio e la repressione. Prestare attenzione a ciò che accade anche nelle tattiche dell’aggressione, oltre che nei piani alti della sussunzione, è importante e vitale, se non altro per meglio conservarci ed allevare nuove generazioni di compagni.
Note
* Sociologo, autore di Massima Sicurezza, Odradek, 2002.
** Dottorando di ricerca in Istituzioni, Ambiente e Politiche per lo sviluppo economico, Facoltà di Economia, Università di Roma 3.
1 Ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa in data 4 novembre 2002 dal G.I.P. presso il Tribunale di Cosenza.
2 AA.VV., Guerra civile globale, Odradek, 2001, p. 40.
3 Il 12 dicembre 2001 con 177 voti favorevoli e due soli contrari il Senato ha approvato in via definitiva un nuovo decreto antiterrorismo che, tra l’altro, inserisce nel nostro codice penale un nuovo reato. Con l’articolo 270 bis si prevede l’associazione con finalità di terrorismo internazionale. L’articolo così recita: «chiunque promuove, costituisce, organizza, dirige o finanzia associazioni che si propongono il compimento di atti di violenza con finalità di terrorismo è punito con la reclusione da 7 a 15 anni». Per chi partecipa a queste associazione sono previste pene da 5a 10 anni. È da segnalare anche che «chiunque dà rifugio o fornisce vitto, ospitalità, mezzi di trasporto o strumenti di comunicazione» ai terroristi e rischia la reclusione fino a 4 anni.
4 Relazione sulla politica informativa e della sicurezza - Presentata dal Ministro della Funzione Pubblica e per il coordinamento dei servizi di informazione e sicurezza - Frattini - Primo semestre 2002.
5 Cesare Bermani, Il nemico interno - Guerra civile e lotte di classe in Italia (1943-1976), Odradek, 1997.
6 Cesare Bermani, Forze dell’ordine e continuità dello stato, in AA.VV. Guerra civile Globale. Tornando a Genova in volo da New York, Odradek, 2001.
7 Donatella della Porta-Herbert Reiter, “Polizia e protesta. L’ordine pubblico dalla Liberazione ai no global”, Il Mulino, 2003.
8 Su questo punto vedasi in particolare il testo di M. Zipola, “Ripensare la Polizia - Ci siamo scoperti diversi da come pensavamo di essere...”, Fratelli Frilli Editore, 2003.
9 «Il 2 dicembre - scrive il segretario della Cgil - si apre in corte d’Assise il processo contro 13 attivisti meridionali del movimento dei movimenti, accusati dalla procura di Cosenza dei reati di cospirazione politica, associazione sovversiva e attentato agli organi costituzionali dello Stato. Pur confidando nella autorevolezza e nell’indipendenza della magistratura, riteniamo ingiusto perseguire l’impegno politico e sociale di questi giovani. La contestazione anche radicale all’attuale sistema economico, quando si esprime in forme civili e democratiche, non può essere criminalizzata semplicemente per i contenuti e le idee che esprime. Reati d’opinione in buona sostanza quelli contestati agli antagonisti e questo, oltre a riunificare antichi “nemici” dei Disobbedienti con uno dei loro leader, ridà fiato alle proposte di legge per abolire quel tipo di reati del codice Rocco che da tempo giacciono in Parlamento. Oggi, per far ripartire la “campagna contro la repressione”, si sono trovati alla Camera Giuliano Pisapia, deputato di Rifondazione e avvocato dei no global a Cosenza, Fausto Bertinotti, Gianclaudio Bressa della Margherita, Pietro Folena dei Ds e Paolo Cento dei Verdi. Con loro, oltre allo stesso Caruso, anche il presidente dell’Arci Paolo Beni e il leader della Fiom Gianni Rinaldini. Un fronte composito che per sabato alle 15 ha organizzato un corteo nazionale a Cosenza “per il diritto al dissenso”». In www.carta.org, 25.11.2004.
10 Ordinanza di custodia cautelare, op.cit.