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TEORIA E STORIA DEL MOVIMENTO OPERAIO

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PERONISMO E SINDACALISMO

ALFREDO HELMAN

1945-55

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Del mio lungo giro dalla prima rivoluzione latinoamericana dei tempi nostri, lungo le lancette dei sommovimenti sismici di questo continente in trapasso tra adolescenza e maturità, fino al ritorno all’isola caraibica che è, appunto, l’alfa e l’omega, la culla e il faro, di quanto si sta muovendo nell’emisfero, ricordo tre episodi particolarmente significativi sul ruolo che la vicenda cubana ha nel nuovo contesto. A Buenos Aires, in un’Argentina ancora groggy per la falcidie generazionale operata dai generali della dittatura filo-yankee (non si scordi mai il ruolo da protagonista di Vaticano e P2, oggi più che mai impazzanti da noi) e per il massacro sociale ed economico del ladrone Carlos Menem, quella festa di piqueteros che esplode in standing ovation al canto di una giovane compagna: “Que mueran los yankees - que viva Fidel!” Poi, in Brasile, un fazzoletto di terra sotto grandi sequoie, punteggiato da baracche e teli neri della spazzatura, dove Matheus, 20 anni, secondo anno di agraria all’università di Campo Grande (Mato Grosso do Sul), arrivato lì a cinque anni d’età con un’ottantina di acampados Sem Terra, che reclamano la terra improduttiva di un fazendero assenteista, per la mia telecamera si spoglia della maglietta lacera e infila quella della festa, con il volto del Che e la bandiera di Cuba: “Se Lula si arrende, noi, come il Che e Fidel, non lo faremo mai!” Infine, a Caracas, uno qualsiasi degli episodi di mescolanza del presidente Hugo Chavez con il suo popolo, nel quale il successore del Libertador Simon Bolìvar, non manca mai di raccontare la sua Cuba, il suo Fidel, fin dalla prima visita nel ‘94, appena liberato dal carcere di Rafael Caldera: “Mi disse Fidel: la giustizia sociale, l’uguaglianza, la libertà noi le chiamiamo socialismo, voialtri laggiù le chiamate bolivarismo. Va benissimo così. E io gli risposi: sono d’accordo” (con tanti saluti agli immarcescibili grilli parlanti dell’ eurocentrismo che si dilettano nel fare le pulci a chi non rientra nei loro schemini perennemente decontestualizzati). E la folla che gli risponde con l’urlo: “Cuba sì, yankee no!” Negli anni ‘80, tenente colonnello dei paracadutisti, Hugo Chavez lavora al suo progetto rivoluzionario all’interno delle Forze Armate, ben sapendo che, in America Latina, o tiri dalla parte delle masse escluse l’apparato della società più forte e presente sul territorio, o finisci come con Videla, Pinochet e, in Venezuela, Jimenez. La sua ispirazione scaturisce, oltrechè dalla lezione indipendentista e antioligarchica di Bolìvar, da Gramsci e Mao Tse Tung, dall’esempio di Josè Martì e dall’esperimento consolidato di Fidel Castro. Un filo rosso che attraversa il processo rivoluzionario fin da quegli esordi del “Movimento Rivoluzionario Bolivariano 200”, che spostò a sinistra l’asse dell’esercito, più tardi bonificato con l’immissione, al posto dei lividi creoli, di inediti quadri meticci e indios. Filo rosso che lega l’insurrezione fallita del 1992, nel nome di un popolo vampirizzato da Carlos Andres Perez, il Ciancimino del Venezuela, alla costituzione bolivariana del 1999, modellata in buona misura su quella cubana e alle centinaia di leggi che hanno fornito la base legale alla rivoluzione sociale: riforma agraria, pesca, infanzia, maternità, donne, scuola, adolescenti, anziani, lavoro, casa, ambiente, indios e loro territori, petrolio... Quanto al petrolio lasciatemi ricordare, insieme alla forniture a prezzo politico a Cuba, che hanno fatto inviperire l’oligarchia debellata, un tempo manomettitrice brigantesca di questa massima ricchezza del paese, una visita a El Palito, raffineria-cuore della PDVSA, la società riconquistata da Chavez allo Stato dopo che i golpisti della destra l’avevano utilizzata per il famigerato paro, la serrata padronale che doveva affamare il paese e s’illudeva di sollevarlo contro Chavez. Della nuova struttura “orizzontale” nel governo della compagnia petrolifera, con gli operai partecipi del processo decisionale (non sempre esente da tentativi restauraratori dell’immancabile residuo burocratico), erano un bel simbolo le tre mense separate - dirigenti, impiegati, operai - oggi riunite in una sola, aclassista. Antonio Serra, dirigente e riorganizzatore della raffineria, comunista, è sicuro che l’imperialismo e i suoi fantocci nella regione presto o tardi tenteranno il colpo di forza per impadronirsi della ricchezza energetica del paese e per bloccare il processo rivoluzionario, con i suoi effetti contagiosi sull’intero continente, ma ha anche piena fiducia in un popolo che si sta attrezzando, alla maniera cubana, vedi Plaja Giron, ad affrontare minacce del genere. Nell’Incontro mondiale degli intellettuali in difesa dell’umanità e nel Congresso bolivariano dei popoli, il tema che attraversava entrambe le manifestazioni di Caracas era l’unificazione bolivariana dell’America del Sud e del Caribe, a concretizzazione del sogno, appunto, di Bolìvar e di Martì. E tanta eco e passione ha già suscitato, nei sei anni di rivoluzione bolivariana, tra le masse del continente e tra le sue avanguardie, questo messaggio e la sua implicazione antimperialista, rivolta in primo luogo al nemico principale, gli USA con il loro ALCA (progetto di ricolonizzazione latinoamericana), ma anche ai succedanei neocolonialisti europei, da costringere anche i governanti più riluttanti e filo-yankee, per quanti retropensieri nutrissero, a sottoscrivere un impegno per la “Comunità Sudamericana degli Stati”. È accaduto a Ayacucho, Perù (luogo della definitiva disfatta spagnola ad opera del giovanissimo maresciallo Sucre), nel dicembre scorso. È sicuramente la forza del messaggio di riscatto partito e rafforzato da Cuba e rilanciato dal Venezuela ad aver permesso al fronte progressista (Venezuela, Argentina, Brasile, l’Uruguay con il Frente Amplio di Tabarè Vasquez e dei gloriosi Tupamaros, il nuovo Panama di Torrijos) di imporre la sua egemonia sullo schieramento conservatore di Perù, Bolivia, Ecuador, le Guayane, Colombia, con nel mezzo il Cile cerchiobottista di Lagos. Cuba, non ultima delle vecchie rivoluzioni impossibili, residuato di una vicenda sconfitta nel Novecento con la caduta dell’URSS, lo sbrindellamento del blocco est-europeo, la corruzione o disintegrazione degli Stati progressisti della nazione araba e del Sud del mondo, la murdochizzazione della Cina, come definiscono Cuba dirigenti della Sinistra, anche “alternativa” ma all’orecchio della manipolazione informativa occidentale; Cuba, invece, prima rivoluzione socialista del Nuovo Mondo, di Nuestra America, a cui guardano nuovi governi, nuovi movimenti, nuove volontà che vanno ben al di là dell’”altro mondo possibile” nella Porto Alegre significativamente sconfitta dalla Destra e dove Chavez, acclamato più di tutti, ha rimesso all’ordine del giorno, tra chi rischiava di confinarsi nel correttivo altermondialista, le parole “antimperialismo” e “rivoluzione”. “Un’altra rivoluzione è possibile!” si legge sui muri della città, in alternativa a un altro slogan, più vecchio e più vago. Di Cuba Chavez e poi Lula, con tutti i suoi ripiegamenti su altri fronti, e Nestor Kirchner in Argentina, hanno rotto l’isolamento di mezzo secolo, oltre al tiepido appoggio dato dal Messico e tradito dall’amerikano Fox, Marcos o non Marcos (un personaggio fuori da questo processo). Ma il presidente venezuelano è andato ben oltre le forniture di petrolio, ricambiate dall’impegno internazionalista di migliaia di medici e insegnanti cubani operanti nel grandioso processo di alfabetizzazione e sanitarizzazione del Venezuela, modellato proprio sull’esempio cubano (che nel mondo in via di sviluppo aveva avuto l’eguale nel solo Iraq pre-invasione barbarica). L’ALBA, Alternativa Bolivariana per le Americhe, lanciata da Chavez in contrapposizione all’ALCA e ai trattati-capestro bilaterali con cui Washington cerca di rimediare all’incipiente fallimento dell’accordo di “libero” scambio continentale, ha avuto una prima, esemplare prefigurazione nell’integrazione tra Venezuela e Cuba, firmata dai due governi nel dicembre scorso. Le colonne portanti di questa integrazione, che impegna i settori commerciali, doganali, sociali, finanziari, tecnologici, culturali, informativi (la famosa “Telesur”, televisione satellitare per tutta l’America Latina, che Chavez è andato a studiare nel Qatar, da Al Jazira), sono: un’effettiva partecipazione dello Stato come regolatore e coordinatore dell’attività economica, un Piano Continentale contro l’analfabetismo, un piano latinoamericano di trattamento sanitario gratuito, un piano di borse di studio nelle aree di maggiore sviluppo economico e sociale, un Fondo di Emergenza Sociale, uno sviluppo integrato di comunicazioni e trasporti, sostenibilità dello sviluppo con la protezione dell’ambiente, integrazione energetica della regione (la “Petroamerica” di Chavez), un Fondo Latinoamericano di Investimenti e una Banca di Sviluppo del Sud da contrapporre all’FMI, il diritto di proprietà intellettuale per il patrimonio dei paesi latino-americani, la lotta per la democratizzazione e la trasparenza degli organismi internazionali oggi al servizio dei monopoli... Il processo va ben al di là della stretta intesa, fratellanza, tra i due paesi rivoluzionari. Lo si è potuto constatare in occasione del Congresso bolivariano dei popoli, tenutosi a Caracas e in altri centri del paese a dicembre, con la partecipazione di tutti i grandi movimenti di massa organizzati, oggi in lotta con oligarchie, tirannie ultracapitaliste e narcodipendenti, mascherate da democrazie (Uribe in Colombia, Toledo in Perù, Gutierrez in Ecuador), penetrazioni dei monopoli euro-nordamericani e dell’apparato militare statunitense.C’erano proprio tutti. Tra i tanti, Evo Morales, leader del Movimento al Socialismo (MAS), secondo alle elezioni presidenziali in Bolivia, dopo la cacciata di Sanchez de Lozada a furor di popolo contro le privatizzazioni e svendite di acqua e gas, e vincitore delle recenti elezioni amministrative; i Sem Terra, in grande offensiva dopo la mancata riforma agraria di Lula e la ripresa delle stragi ad opera dei latifondisti brasiliani, i sindacalisti della CUT di San Paolo, i dirigenti del movimento indigeno dell’Ecuador, in lotta con l’indio “rinnegato” Lucio Gutierrez, le organizzazione dei nativi peruviani e quelle antagoniste, in armi e in lotta civile, del mafiostato Colombia. Un momento significativamente immancabile, di grande tensione emotiva e portato a simbolo del modello cubano, in ogni commissione di lavoro e nelle plenarie, l’impegno per los cincos, i cinque patrioti cubani grottescamente condannati a pene pesantissime a Miami per aver denunciato ai banditori della “guerra mondiale al terrorismo” di Washington i complotti terroristici della mafia cubana e, oggi cubano-venezuelana, di Miami. Evidentemente un imperialismo nordamericano come quello che, sotto la guida terroristica e guerrafondaia dei neonazi intorno a Bush e con la crescente complicità dei rinascenti imperialismi europei, sta proponendosi di portare la “democrazia” genocida, modello Ashcroft-Rumsfeld-Cheney-Rice-Sharon, ai cinque continenti, non poteva non reagire con ogni mezzo a un processo di portata epocale e di immense prospettive come quello innescato da Cuba e dal Venezuela. Il timore di doversi trovare di fronte a un sommovimento che, da resistenza incrollabile a Cuba e da Blocco del cambio in Venezuela, promette di puntare alla creazione di un blocco continentale antagonista in quella che da Monroe, negli anni venti dell’800, doveva essere “l’America agli americani” (leggi “statunitensi”), costituisce, insieme alla debacle in Iraq, la fonte della massima preoccupazione di Washington. Ne sono espressione i multimiliardari Plan Colombia e Plan Puebla Panama, la militarizzazione della Colombia e dell’Ecuador, lungo un asse andino che costituisce oggi il contraltare al fronte progressista sulla costa atlantica, con le continue incursioni, provocazioni, gli attentati destabilizzatori in Venezuela, la licenza concessa ad Alvaro Uribe, grazie a un nuovo Piano Condor, di violare con imprese terroristiche e sequestri la sovranità degli Stati vicini, il fallito colpo di Stato contro Chavez e il successivo sabotaggio economico, la penetrazioni di forze speciali statunitensi (contractors, consiglieri, istruttori, commandos) e di basi militari in tutta l’area amazzonica, le pressioni del Pentagono, delle transnazionali USA, del FMI e della Banca Mondiale sul governo brasiliano. Punta di lancia della controffensiva imperialista è sempre il narcopresidente Uribe. A lui i padrini statunitensi hanno assegnato il compito della destabilizzazione terroristica, visto il crollo di ogni opzione reazionaria sul piano democratico. È dalla Colombia che veniva il centinaio di paramilitari che furono scoperti mentre preparavano in Venezuela un attentato a Chavez; sono passati dalla Colombia gli esplosivi provenienti da Miami con cui poliziotti di Caracas, al servizio della vandea oligarchica, hanno fatto saltare in aria a novembre Danilo Anderson, il coraggioso magistrato che era riuscito a riallacciare i fili del golpe Cia dell’aprile 2002; e sono stati agenti colombiani a sequestrare in piena Caracas, insieme a militari venezuelani corrotti da Uribe con una taglia di 1,5 milioni di dollari, e a portare in Colombia Rodrigo Granda, responsabile internazionale delle FARC-EP. Un atto piratesco, tipico del nuovo Piano Condor, che violava grossolanamente la sovranità venezuelana e il diritto internazionale, compiuto mentre Uribe ospitava in lussuoso esilio Pedro Carmona, protagonista del golpe d’aprile, autoproclamatosi dittatore del Venezuela e responsabile dell’assassinio di 70 civili che manifestavano per il loro presidente. Il risultato è stato una tensione al calor bianco tra i due paesi, sulla quale gli USA si sono precipitati a versare benzina, la rottura dei rapporti commerciali e la sospensione di quelli diplomatici. Il regime di Uribe è universalmente percepito come il peggiore praticante di terrorismo di Stato dopo gli USA e Israele. La sua funzione in America Latina assomiglia sempre di più a quella assegnata a Israele in Medio oriente. Nel periodo medio, alla Colombia spetta il compito di provocare un conflitto diretto con il Venezuela. E non ci si lasci ingannare dallo stop-and-go che nei prossimi mesi caratterizzerà il rapporto tra i due governi. A Uribe serve preservare un minimo di apparenze, a Chavez ritardare il più possibile la resa dei conti, agli USA calcolare il momento migliore per l’escalation. Nel frattempo, per preparare il terreno, rivendicando il diritto di intervenire ovunque per ragioni di “guerra al terrorismo”, la dottrina Uribe implicitamente rigetta confini riconosciuti e si riserva la possibilità di violare frontiere nazionali senza consultare gli Stati i cui diritti infrange. Non è lungo il passo dal disconoscimento di confini statali, all’annessione di aree adiacenti per motivi di “sicurezza”, o economiche. Solo nel 1992, la Colombia rasentò la guerra quando inviò le sue navi da guerra nelle acque venezuelane. Oggi le mire di Bogotà e del suo sponsor nordamericano sono apertamente puntate sullo Zulia, stato venezuelano confinante con la Colombia, massima fonte degli idrocarburi venezuelani e uno dei due Stati della federazione ancora governati dall’opposizione a Chavez. Parrebbe un gioco da ragazzi provocare incidenti di frontiere un po’ più massicci di quelli che si sono susseguiti negli ultimi tre anni, occupare almeno una parte dello Zulia, installarvi un governo “democratico” di fuorusciti e, di fronte alla legittima reazione di Caracas, invocare l’intervento dei marines. Non sono lontani nel tempo l’invasione di Haiti, il rapimento del suo legittimo presidente, Aristide, e l’occupazione dell’isola da parte di forze d’occupazione statunitensi a sostegno di un governo di criminali. Washington ha fornito alla Colombia aiuti militari secondi solo a quelli regalati a Israele. Obiettivo primario - e quello che potrebbe ritardare l’aggressione diretta alla repubblica bolivariana - è la liquidazione del movimento guerrigliero come primo passo per consolidare la presa sulla regione andina e il bacino superiore dell’Amazzonia. Raggiunto questo obiettivo, si avrebbe la pista di lancio per occupare il Venezuela o, almeno, le sue ragioni petrolifere. Di fronte a un esercito venezuelano, auspicabilmente bonificato con l’immissione di molti quadri meticci e indios, di appena 40.000 effettivi (ma Chavez sta rafforzando la Riserva e punta al modello cubano di difesa territoriale universale), stanno forze armate colombiane triplicate negli ultimi anni fino a 267.000 effettivi. Fortemente aumentata risulta anche la forza da combattimento aereo, mentre sono stati introdotti mezzi di sofisticata guerra tecnologica per individuare e colpire la guerriglia. In questa luce, il rapimento di Rodrigo Granda appare soltanto come la prova di un ampio progetto di intensificazione delle provocazioni, finalizzato anche a sondare la lealtà, disciplina, e efficacia del sistema di sicurezza venezuelano. Contribuendo a rianimare un’opposizione fascistoide asservito al colonialismo, che le successive avanzate della rivoluzione avevano ridotto in coma cerebrale, gli USA stanno svolgendo un programma che punta a constatare fino a che punto si possa spingere il Venezuela a cedere sovranità e controllo delle proprie frontiere. Non si conti eccessivamente, in questo scenario, su appoggi esterni al Venezuela. L’Argentina è lontana e ha i suoi guai, l’Uruguay è ancora diplomaticamente e militarmente irrilevante. Quanto al Brasile, l’ambiguità dell’attuale governo si estende anche alla dimensione dei rapporti interlatinoamericani. Al tempo dei colpi di Stato e di mano dell’oligarchia venezuelana, il ministro degli esteri di Lula, Celso Amorin, organizzò un cosiddetto “Gruppo di amici del Venezuela”. Chavez si guardò bene dal ricorrere alla sua mediazione: era composto da ostili dirigenti neoliberisti ibero-americani, tra i quali Aznar di Spagna, Bush, Fox del Messico, Lagos del Cile e un Brasile che poneva sullo stesso piano l’opposizione golpista venezuelana e il legittimo governo di Chavez. Ora Lula ha nuovamente offerto i suoi servizi per mediare tra Colombia, l’aggressore, e Venezuela, l’aggredito. Non v’è alcun dubbio che Chavez abbia l’appoggio incondizionato della stragrande maggioranza dei venezuelani. Sa che il popolo è disposto a combattere per difendere la sua terra, il suo governo, la sua rivoluzione e il diritto alla propria sovranità. La questione della sovranità venezuelana, non è soltanto una questione di manovre diplomatiche, ma, come per Cuba e per l’Iraq, i grandi vincitori sugli USA, riguarda l’organizzazione delle masse venezuelane perché diventino un deterrente militare contro ogni aggressione armata. Altro che i disarmanti miti New Age della non-violenza. La carta dell’aperta aggressione militare, con tanto di bombardamenti e sbarchi di marines è certamente all’ordine del giorno, ma per il momento risulta inapplicabile per l’eccessiva estensione della copertura militare statunitense in Asia e Medio Oriente e, come ribadisce in ogni occasione Hugo Chavez con sensi di riconoscenza, soprattutto per la grandiosa capacità di paralizzare e far retrocedere l’apparato repressivo degli occupanti dimostrata in un crescendo continuo dai partigiani iracheni. La qual cosa non esime certo le forze antagoniste e antimperialiste europee dal potenziare una solidarietà e, prima ancora, un’attenzione, finora davvero inadeguate, per i protagonisti del grande processo di emancipazione in atto in Nuestra America, a partire da Cuba e dal Venezuela (dove non stupisce che i cosiddetti riformisti italiani, capeggiati da D’Alema, non si peritano di continuare a esprimere il massimo sostegno alla peggiore feccia fascistoide e golpista, responsabile del saccheggio di un paese che, al momento dell’arrivo di Chavez, teneva l’80% della sua popolazione sotto il livello di povertà). Rafforzare la rivolta sudamericana e del Caribe è compito che si attua eminentemente nello scontro con i collaborazionismi nel campo di battaglia interno a ogni paese. L’ultracapitalismo della Crisi, tornato ad essere coalizione imperialista, imbellettato con il termine “globalizzazione neoliberista”, va combattuto, come ci ricordano sempre i compagni cubani e venezuelani, in prima istanza nel proprio ambito. È questa la luce che da qui possiamo aggiungere al sorgere del sole sull’America Latina. Non per nulla alla fine di gennaio ci è pervenuto dal Gruppo di Coordinamento della Solidarietà con la Rivoluzione bolivariana, a Caracas, un appello diretto alle forze antimperialiste in tutto il mondo e che, tra vari punti, elencava: incrementare le mobilitazione popolari in tutte le città del mondo; sostenere la sovranità del Venezuela e di Cuba e il rispetto dell’autodeterminazione di questi popoli; denunciare la politica guerrafondaia del governo USA e del suo fantoccio Uribe; denunciare l’appoggio degli USA a gruppi terroristi a Miami e in molte parti del mondo, nonché quello della Colombia ai gruppi paramilitari e ai golpisti dell’11 aprile 2002; denunciare il persistente uso di rapimenti, torture, pratiche terroriste in violazione dei diritti umani, praticati dal governo USA in Iraq, Afghanistan, Guantanamo e, nel proprio territorio, contro i cinque patrioti cubani. L’appello si chiude con la parola d’ordine: “Viva l’unità latinoamericana!” Resta da sottolineare una sensazione forte per chi ha la fortuna di trascorrere brani di vita nelle rivoluzioni dell’America afro-indio-latina e tra i suoi larghi e combattivi movimenti di massa, le sue organizzazioni di lotta. Ascoltare le loro interpretazioni del mondo, seguire la loro informazione di Stato o di movimento nei mezzi di comunicazione, studiarne le analisi dei conflitti in atto tra ricchi e poveri, e non tra “democrazie e terrorismo”, è come una doccia purificante e vivificatrice su cervello e sangue. Una disintossicazione dalle menzogne, dalle distorsioni e dagli stereotipi, non tanto dell’informazione e disinterpretazione capitalista, che assolve al suo compito di classe con la ferocia e il cinismo noti, quanto della subalternità, chissà se più pigra, opportunista, o complice, delle sinistre istituzionali e della loro comunicazione. Quello che da noi va cercato a fatica nelle nicchie incontaminate dell’autentico antagonismo alla borghesia, da quelle parti è verità corrente e scontata: quello che qui è ommissione e nascondimento, là è realtà in piena luce. Così in Ucraina quella che da noi viene esaltata come “democrazia arancione”, là torna ad assumere il suo vero carattere di colpo di Stato Cia attuato attraverso i manutengoli serbi di Otpor; i bau-bau dell’umanità, Bin Laden e Al Zarkawi - reali, o più verisimilmente fantasmi, che siano - riemergono nei loro veri panni di autentici agenti della controrivoluzione statunitense, quando ancora in vita, e la “guerra al terrorismo” in Palestina, in Iraq e nel mondo, è sterminio imperialista delle resistenze di popoli e classi; la “democrazia” delle osannate primarie e del voto quinquennale nella morsa dell’intossicazione mediatica, si rivela per dittatura della borghesia e dei suoi sottufficiali “riformisti” o “radicali”. La viscida, ma astuta operazione “non-violenza” e del “rifiuto del potere” è smascherata per quello che è: una subdola strategia per disarmare le vittime e lasciare il monopolio del potere e della violenza ai carnefici. Trova una risposta politica, ma, prima ancora, etica e biologica, nell’”Esercito del popolo sovrano” in Venezuela, e nella guerra di difesa del popolo tutto a Cuba. Ma anche nei sei milioni di cittadini iracheni che, ricevuti a suo tempo addestramenti e armi dal proprio legittimo governo, oggi sono diventati la prima barriera contro la fine della civiltà, se non della vita, dell’unica civiltà sopravvissuta, quella dei proletari e dei popoli del “Sud”, dovunque questo “Sud” si collochi.. Parola di Hugo Chavez. Come mi ha detto Francisco Gonzales, il generale Pancho del Secondo Frente di Raul Castro nella Sierra Maestra: “Noi siamo vivi perché siamo armati”.

Not e

* Giornalista e scrittore.